Nell’estate del 1917 la stampa dei paesi in guerra contro “gl’imperi centrali” dell’Europa, dall’Italia agli Stati Uniti, accreditavano una curiosa lettura di quanto stava accadendo in Russia, ove scemava l’impegno bellico ed emergeva la forza dei bolscevichi che reclamavano la “pace senza indennizzi” con la Germania e l’Austria-Ungheria. Si parlava senza mezzi termini di un complotto germanico. Gli stati maggiori e i servizi di spionaggio del Kaiser Guglielmo, secondo questa lettura, avevano approfittato dopo la caduta della dinastia Romanov ampiamente screditata, per neutralizzare la grande potenza orientale avevano assoldato i bolscevichi. A guerra vinta i tedeschi avrebbero provveduto ad addomesticare l’orso russo, se non ad asservirlo totalmente.
In tutto ciò c’era del vero: com’è noto Lenin arrivò in Russia su un treno piombato messo a disposizione del governo germanico. E tuttavia chi al moto rivoluzionario russo guardava con sufficienza (“dove vanno quegli straccioni?”) e attribuiva la sua forza ai complotti del nemico si sbagliava di grosso. Quando la rivoluzione si mette in marcia c’è sempre, tra i potenti e le potenze, chi pensa di usarla a suo pro, ma le forze che le rivoluzioni mettono in campo non sono così facilmente imbrigliabili. I percorsi dei processi rivoluzionari non sono generalmente prevedibili nei loro inizi, tante sono le variabili che vi agiscono, e meno che mai possono essere del tutto definiti da forze esterne. Così, paradossalmente, la rivoluzione russa non solo non bastò ai tedeschi per vincere la guerra ma addirittura, nel dopoguerra, contagiò la classe operaia in Germania e in molti altri paesi, con buona pace dei complottisti del tempo.
Credo che oggi, anche tra i compagni che in vario modo si richiamano alla sinistra, bisognerebbe stare attenti prima di liquidare il processo rivoluzionario in atto nel mondo arabo come pilotato dagli Usa e dalla Gran Bretagna. E’ del tutto ovvio che l’Occidente cerchi prima di ricondurre nei binari la presa di coscienza delle masse arabe e poi di usarla a proprio vantaggio a fini militari (il peso strategico dell’Egitto) o economici (il petrolio della Libia). Ma che quanto avviene sia tutto o quasi un gioco (sporco) degli imperialisti e che essi siano in grado di guidare occultamente il moto rivoluzionario, come alcuni ottimi compagni credono, mi pare una sopravvalutazione del “nemico”. Ma chi ha studiato le rivoluzioni e sa guardare con acume le cose di Egitto, Tunisia, Libia, Golfo, Algeria ha già notato i movimenti molecolari che si stanno sviluppando nelle viscere di quella società, le spinte all’autorganizzazione e le controspinte moderate.
Leggo ad esempio che il risultato delle rivolte in Egitto sarebbe un “colpo di stato” di militari, fino a ieri fedeli a Mubarak e come lui al servizio degli amerikani. E’ una lettura che non può vedere quanto, di organizzazione, di elaborazione, di progetto, matura nel seno delle popolazioni, non può vedere la nascita seppur embrionale di avanguardie politiche, non può misurare per esempio il peso e il carattere odierno della fratellanza musulmana. In Libia la situazione è certo diversa per la natura a suo modo speciale del regime di Gheddafi, ma leggere la vicenda esclusivamente come un complotto imperiale mi pare francamente fuori luogo. Ho pubblicato in questo blog articoli di Antonio Moscato e Fulvio Abbate che, da diversi punti di vista, danno informazioni attendibili; ma non sono convinto che abbia ragione Valentino Parlato quando, seppure con qualche battuta infelice, difende l’esperienza di Gheddafi e credo invece che l’abbia quando legge la rivolta libica almeno nei suoi inizi come parte dell’esplosione libertaria della gioventù araba. Mi fido molto di quanto su “il manifesto” ha scritto Farid Adly, collaboratore antico del “quotidiano comunista” con lo pseudonimo Abi Elkafi, un compagno sperimentato del dissenso marxista a cui volentieri rimando (http://www.ilmanifesto.it/archivi/commento/anno/2011/mese/03/articolo/4270/). L’imperialismo farà di tutto per trasformare la rivolta libica in una secessione monarchico-tribale, ma non c’è ancora riuscito. In una piccola misura dipende anche dalla sinistra occidentale se vi riuscirà.
Considerazione finale. La rivoluzione, specie dopo la sconfitta del comunismo sovietico, sta prendendo strade nuove e assumendo volti nuovi. E’ strano il fatto che sia qualcuno di quelli che, come me, l’hanno tanto amata stentino a riconoscerla, ma questo ritorno, sia pure in queste forme impreviste, sta ridando aria al mondo. Spero di non essermi lasciato obnubilare dalla speranza, ma arrischio una previsione: negli anni a venire ne vedremo delle belle.
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