L’articolo che segue, pubblicato su “micropolis” nell’ottobre del 1999, è una sorta di bilancio critico della poesia di Walter Cremonte a quella data, dopo la pubblicazione dell’auto-antologia da cui il mio pezzo prende le mosse. Per il valore delle scritture che, dopo quella data, in versi e in prosa il poeta perugino ha saputo produrre meriterebbe un aggiornamento. Magari un giorno lo avrà; tra i miei progetti c’è anche un saggio complessivo sull’opera di Cremonte, sicuramente il maggiore tra i “poeti minori” dell’umile Italia. (S.L.L.)
Per la collana di poesia “Il Caradrio” dell'editore Guerra di Perugia è stato pubblicato un libro di Walter Cremonte dal titolo Contro la dispersione.
Il libro è propriamente un'antologia: una selezione operata dallo stesso autore di testi scritti tra il 1978 ed il 1995 ed, in massima parte, già pubblicati. Solo due poesie, del 1995, sulla guerra di Bosnia e sui cinquant'anni dalla liberazione di Auschwitz sono inedite; tutte le altre sono già state stampate in raccolte oggi praticamente introvabili (Vedi che, Me ne andavo guardando che tutto era bello, Viva Coppi Fausto, Uscir di pena), alcune di esse anche sulla rivista “Lengua”.
Le poesie sono precedute, a mo' d'epigrafe, da un breve testo di Gianni D'Elia, una testimonianza d'amicizia, e seguite da una nota dell'autore, in apparenza esplicativa (con puntiglio sono elencati i tempi di composizione e di pubblicazione, i criteri della selezione, l'occasione e le motivazioni della pubblicazione). In effetti è assai più: una pagina di letteratura alta, in cui, con la sobrietà, il pudore, il nitore stilistico che lo contraddistinguono, Walter ci restituisce, vivo, Nicola, il figlio che gli era anche padre, “l'Angelo che lo accompagnava per strada”. Il libro è presentato come postumo. Quel che v’è dentro è “prima”; e chi lo compone non è chi lo ha scritto, ma un altro, uno che viene dopo, un curatore, un esecutore che religiosamente tramanda ciò che è stato, cercando di dargli durata, facendone una sorta di lascito testamentario per Nicola, l'unica cosa che adesso gli possa giungere. Il paradosso del vivente che trasmette un'eredità al morto è certo un'invenzione poetica, una finzione. Ma quanto vera!
Il titolo Contro la dispersione è quello di una delle poesie contenute nell'antologia, già pubblicata in Me ne andavo guardando che tutto era bello. Allora quel titolo segnalava il rifiuto del troppo e degli inutili addobbi ("Intensità va con semplicità”), del vano disperdersi della personalità e della persona fuori da un nucleo solido di riferimenti ideali ed affettivi stabili; qui, con un lieve slittamento semantico, vale ad affermare la necessità che la memoria e la poesia che ne è strumento "tengano insieme le cose" prima del loro dissolversi. La silloge aspira alla funzione di un album di fotografie, che raccoglie anche "le foto dei giorni feriali", non necessariamente artistiche e belle, così conservando le memorie più occasionali e per ciò stesso più autentiche. Potrebbe essere una dichiarazione di modestia puramente retorica (di quelle che i poeti usano a punire il loro maledetto orgoglio) o anche una excusatio nei confronti dei lettori più affezionati e memori per l'inevitabile arbitrarietà delle scelte; è certamente l'esplicitazione di un criterio di selezione: non l'artisticità o la bellezza ma la significatività del ricordo, del fatto che i testi evocano o della situazione in cui sono stati pensati, scritti, limati.
La scelta è dunque nella sua soggettività indiscutibile, anche se non può scansare il rammarico chi ha seguito con attenzione l'attività poetica di Cremonte. Egli, per esempio, non ha inserito nulla dalle giovanili Poesie d'amore 1966 - 1968, giudicate forse cosa troppo piccina. Credo che in questo caso l’antologista si sbagli; ce ne sono certo di acerbe, di incompiute, di gridate (una s'intitola Napalm sopra Johnson), ma io non dimentico una delicatissima Conversazione ("Come mai/ - ti chiedo -/ quando ti accendi una sigaretta/ lasci spegnere il cerino lentamente/ fino a bruciarti/ i polpastrelli delle dita? /E' un'abitudine/ -rispondi -/che mi porto dall'inverno,/ quando fa freddo") ed un Ateismo, un remake di Catullo con qualche verso memorabile ("Non è fatto per gente come noi,/ il paradiso"). Allo stesso modo, se fossi stato il curatore, non avrei tralasciato i limerik di Uscir di pena ("C'era un tizio di Foligno/ che morì facendo un ghigno/ credeva di farla franca/ per via del conto in banca/ quel coglione di Foligno") e avrei approfittato dell'occasione per dare alla stampe l'inedita Facciamo che io ero.
Niente di strano nel mio rammarico. V'è talora uno scarto tra l'autore ed il lettore nel rapporto con i testi poetici: capita che il poeta ami ciò che altri saltano o leggono frettolosamente, forse proprio per questa ragione; altre volte è il lettore che, per ghiriribizzi suoi, apprezza una poesia o un brano che ha lasciato l'autore insoddisfatto. Per quel che riguarda le scelte di questo libro, poi, uno scarto anche maggiore era prevedibile: Cremonte salva dalla dispersione situazioni ed emozioni sue, che potrebbero non coincidere con le mie. Nondimeno il più delle volte la scelta mi convince (deve essere anche un fatto di simpatia, o di generazione, o di tutte e due), e lo stesso sentimento dell'assenza per i testi che mi pare manchino, scaturisce dall'emozione forte che le poesie raccolte nel libretto mi restituiscono.
Il "consuntivo" di Walter Cremonte è, in realtà, pieno di cose belle ed ampiamente significativo del suo modo di intendere e di fare "la cosa chiamata poesia", come del suo percorso. Cremonte elabora, fin dai testi meno recenti, una poetica del riuso per una poesia ecologica. In Le parole da voi buttate, tratta da Vedi che, dichiara di voler raccogliere e pronunciare le parole che altri hanno consumate, rotte, calpestate, le parole buttate via. Sono frasi di ogni genere e di ogni provenienza, i discorsi banali alla fermata dell'autobus come i testi delle canzonette, gli avanzi del televisivo e del politichese, dello scolastico e del burocratese, sono perfino citazioni d'autore spesso tra le più logorate dall'uso, utilizzate qui con ironia amarognola, là con un sorriso complice e comprensivo, sempre con tenerezza. A Cremonte basta poco per recuperarli alla significatività, una ripetizione, una sillaba zoppicante, un doppio senso, un accostamento imprevisto, uno scarto nel livello stilistico. Il risultato trasmette l'eco di una dissonanza, fin dalla prima lettura, tra le stesse parole, prosaiche o poetiche non importa, e la realtà. Una dissonanza che diviene presto una denuncia. Parliamo male, ci lascia intendere Cremonte, in sintonia con un personaggio di Nanni Moretti, perché pensiamo male e pensiamo male perché viviamo male.
Esemplare a questo proposito è Le parole dell'amore sono povere: "Le parole dell'amore sono povere/ come poveri sono gli amanti./... Ma più complesso è il discorso:/ perciò bambino mio impara bene/ l'analisi logica./ Se no a scuola ti bocciano". O l'Idillio con pescatore: "La notte è chiara e questa luna/ quieta sul lago posa/ il ragazzo, mio figlio, un pesciolino/ dolcemente
toglie alla vita". O Non vuol dire, ove “Ospedale degli Incurabili è solo il vecchio nome, il resto è tutta un'altra cosa”, o tutta la serie dei Modi di dire da Uscir di pena.
A questo ecologismo ironico si lega, nelle poesie di Vedi che, ma ancora di più in quelle di Me ne andavo guardando come tutto è bello, quella che lo stesso Cremonte chiama superficialità o "poetica della superficie". I titoli delle raccolte, del resto, le connettono entrambe alla tematica dello sguardo o più in generale della percezione. Nelle poesie di Cremonte s'osservano o s'intravedono luci azzurre o bianche, lune sui laghi e cieli stellati, s'odono ronzii di api o di frigoriferi, carezzevoli cinguettii di uccellini, s'avvertono odori di caffè e si assaporano caramelle, salsicce o mortadelle. Ma lo sguardo, l'orecchio, il naso del poeta sono mobilissimi come la sua lingua. L'imbarazzo poetico, il non sapere dove andare, dove stare e dove mettersi, prima o dopo, davanti o dietro o di lato (il soggetto è smarrito, ma nello smarrimento cerca, si muove) gli consente di moltiplicare i punti di vista e dunque le superfici, di attingere profondità e spessore critico senza appesantire il dettato.
Alcuni temi forti sotterraneamente percorrono questa poesia volutamente leggera: il desiderio, il bisogno di senso, l'impossibilità di comunicare, ("Dall'emittente viene un segno/ ma non è detto che sarà il destinatario/ a riceverlo...”), la morte e la speranza.
Al desiderio (e all'incubo) è dedicata una sezione di Viva Coppi Fausto dal titolo Il tempo dei sogni è l'imperfetto. Nelle tre poesie che la compongono, un po' più lunghe del solito, compaiono treni pieni di suore vecchie e malate e grosse scimmie che corrono come bolidi, o tutti fermi in stazione a generare l'attesa di non si sa che cosa, o precipitanti in tunnel di cui non si può vedere il fondo. Ci hanno fatto pensare a tante cose: tra l'altro a un treno piombato che attraversa l'Europa e che poi anch'esso piomba in un tunnel, nel buio, ed anche alla nostra attesa apparentemente inutile. Nella sezione successiva che ha come titolo proprio Viva Coppi Fausto c'è un'epigrafe, un altro verso memorabile ("Per fare un mito: un treno non partito?"), che prelude alla poesia che immediatamente segue Andare via, una delle più belle di tutta l'antologia, con una intera terzina memorabile: "Andare via ci vuole una bugia/ ognuno ha una memoria ma manca la pietà/ nei ruoli dello stato".
Di morte si ragiona e sulla morte un po' si scherza, come fa talora Montale: cito a caso la seconda delle poesie sul cane o Ma dove vanno i morti o quella in cui dal povero corpo morto vola in cielo l'anima che "non si cura del suo male/ lei, la cattolica, immortale". Non c'è mai il cinismo di Montale: nel tanto Nulla che ci circonda non si sono persi i valori di riferimento (vedi ad esempio Solidarietà o Dicono tutti quanti, ove si ragiona di egoismo) o il principio di responsabilità. Per Auschwitz non è possibile perdono, per nessuno, neanche per Dio (se c'è perché c’è, o se non c'è perché non c’è), neanche per noi, ma un filo che lega tutte le malefatte esiste.
Quanto alla speranza non cito alcun testo. Chi vuole può ritrovarla dappertutto. Sarà una ragione (di più) per leggere (o rileggere) le poesie di Cremonte.
Piuttosto dirò di una mia speranza egoistica, di un egoismo sperabilmente sano. Nella nota il poeta comunica che questo libro è anche un commiato, non dalla poesia ma dal fare poesia. Le ragioni di questa rinuncia sono certamente serie e dure. Nondimeno ci auguriamo che, in questo, cambi idea. Non per lui che, con o senza forfora nei capelli, sarà comunque un poeta (sarà un fatto di natura, o una scelta di vita irreversibile o non so cos'altro, ma alcuni riescono ad essere poeti anche senza scrivere poesie). Come staremmo noi, invece, se non tornasse a salvarci dalla dispersione ricordandoci che "nel dolore" non bisogna né saltare i pasti né rimanere casti, a convincerci che se "non fidarsi è bene", "fidarsi è meglio"? Probabilmente sentiremmo freddo, passeremmo il tempo a bruciacchiarci i polpastrelli con i cerini.
Così, intanto che riproviamo l'emozione del leggere e del rammentare, ci sentiamo anche noi in una attesa e vorremmo che questa fosse utile, l'attesa che di bel nuovo ci si possa riscaldare, che di bel nuovo Walter dica ai suoi versi: " E ora va, poesia, che devi correre:/ l'incantamento è in questi occhi belli/ che passano intanto."
Salvatore Lo Leggio
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