22.3.11

Sua Eccellenza l'Ambasciatore. Una "storia vera" di Blaise Cendrars.

Parigi, prima metà del Novecento. La Rotonde du père Libion a Montparnasse

Durante la Grande Guerra la bohème artistica parigina si trasferì da Montmartre a Monparnasse. Il luogo principe ne fu la Rotonde du père Libion. Ne racconta i fasti Blaise Cendrars in questo racconto che apre la raccolta di “storie vere” D’Oultremer à  Indigo. Il dedicatario Nils von Dardel (gallicizzato in de Dardel)  è un pittore svedese impressionista. La traduzione, dall’edizione Denoel del 1960, è mia. (S.L.L.)
Nils von Dardel, Autoritratto (1906)
Sua Eccellenza l’Ambasciatore

A Nils de Dardel

I.
E’ una storia breve, ma una storia molto delicata da raccontare perché non vorrei offendere nessuno e soprattutto non vorrei offendere nei loro sentimenti patriottici, gli abitanti della simpatica, ma giovane e piccolissima nazione dell’Est europeo, di cui il mio amico è stato l’incaricato d’affari nel 1917, ancora prima che questa nuova nazione fosse universalmente riconosciuta. Per niente al mondo io vorrei dare l’impressione di infischiarmene di chicchessia. Io sto per raccontarvi la cosa tale e quale mi è arrivata, senza nulla esagerare, ma senza nulla nascondere, per quanto buffa, o macabra, o inverosimile possa sembrare ad alcuni la morte del mio amico, che sarebbe stato il primo a riderne nelle stesse circostanze, limitandomi a collocare al Sud ciò che è accaduto al Nord, all’Est quel che è successo all’Ovest, camuffando, come sempre nelle mie Storie vere, il nome del personaggio, ma mettendomi personalmente in scena per garantire l’autenticità del mio racconto. Tuttavia, per quanto la cosa rientri nelle mie abitudini, questa volta mi trovo imbarazzato, e tanto più imbarazzato perché altri, che conoscono questa storia, non ne hanno mai detto niente.
Starem…, ecco che stavo per scrivere il suo nome!… In breve, il mio defunto amico, lui, si sarà gloriato delle circostanze che accompagnarono la sua morte come di tutto ciò che gli è accaduto nella vita, perché era uno spaccone e un ubriacone. E’ d’altronde una storia da ubriacone quella che io vado a raccontarvi, poiché, prima di essere nominato improvvisamente ambasciatore, Halmagrano, chiamiamolo Yvon Halmagrano, se volete, che è un nome che unisce l’Est europeo all’Ovest (il suo paese io lo preciserei o forse non lo preciserei in seguito), era, innanzi tutto, un bohèmien, e solo degli avvenimenti eccezionali come quelli che precipitarono la fine dell’ultima guerra  avrebbero potuto strappare questo vecchio Montparnò alla terrazza dei caffè che lui bazzicava già da mezzo secolo per farne, suo malgrado, un personaggio ufficiale.
Io non ho dunque nessun secondo fine, né metto alcuna intenzione di satira o di canzonatura in questo racconto e soprattutto non voglio che mi si accusi di mancare di rispetto alla memoria di un diplomatico amico. Io ho l’amore per la verità, per quanto essa possa apparire irriguardosa. Del resto come potrei venir meno alla memoria di un amico che ho frequentato per quarant’anni, con il quale ho bevuto, e spesso bevuto troppo - è vero - e che mi ha sempre divertito?
Halmagrano era un gaudente che non prendeva quasi nulla sul serio, e soprattutto le persone. Egli non esitava a ridere di tutto, e soprattutto di se stesso e dei suoi quattordici divorzi che narrava in un modo inenarrabile, bevendo, trincando alla salute delle sue ex-mogli e della futura che al presente corteggiava, al punto che nessuno avrebbe potuto dire, e soprattutto la fidanzata che avrebbe portato l’indomani all’altare e davanti al sindaco, se era serio o scherzava. Parlando ultimamente di lui con il suo successore a Parigi ed essendomi permesso durante la conversazione, Dio sa con quanti scrupoli, di dire che Yvon Halmagrano s’era sperperato, che aveva bruciato la candela dai due capi, il nuovo ambasciatore esclamò: “Dai due capi, signore, potete ben dirlo! Dai due capi ed anche tutt’intorno”.
Hamalgrano… Chi se ne ricorda oggi a Montparnasse?
Ragazzo, io l’avevo conosciuto da mia madre, che egli frequentava con altri artisti e musicisti, tra i quali un pianista che è diventato famoso e perfino capo di stato, il grande, il geniale Pederewsky. Halmagrano accompagnava mia madre con il flauto. Era lungo, magro, gaio, fantasioso, burlone, con una capigliatura alla Paganini. Già allora nessuno lo prendeva sul serio. Poi, morta mia madre e con la vita di vagabondaggio che menavo prima della Grande Guerra, l’avevo perduto di vista per ritrovarlo, alla fine del 1917, seduto ad un tavolo in una terrazza di Montparnasse.
Era un uomo vecchio, grasso, ilare, dalla carnagione florida, sbottonato e abbastanza cinico, un accanito nottambulo. I suoi ricci erano ora grigi. Ma egli aveva sempre i suoi occhi diabolici e straordinariamente sfottenti. D’altronde proprio da questo l’avevo riconosciuto.

II
Nel 1917 noi eravamo tutta una banda di compagni che tornavamo dal fronte con una sete inestinguibile. Cosa curiosa, i caffè erano pieni e noi incontravamo dappertutto altre bande che, come la nostra, rompevano i bicchieri nei locali di Montparnasse, assediavano i banconi dei bar e dei bistrò e protestavano con veemenza quando, alle nove e mezza, l’ora regolamentare di chiusura dei ritrovi pubblici durante la guerra, ci si metteva alla porta. Allora le bande si mescolavano, perché ci ritrovavamo tutti sul marciapiede, ciascuno domandandosi dove andare a continuare a bere e dove passare e finire la notte. L’uno vi portava in una boulangerie di rue de la Gaieté dove vi si serviva, nel sottosuolo, del calvados che riempiva i grandi bicchieri e le tazze; un altro nel retrobottega di una modista dove si poteva degustare una cattiva acquavite e bere a sazietà del rosso pesante e della birra. Non si sapeva mai chi pagasse, ma il fatto è che c’era sempre qualcuno che pagava, che pagava per tutta la banda e, salvo scandalo o schiamazzo notturno, era ben raro che si finisse al commissariato. Ancora, ci si decideva all’improvviso di andare a far baldoria ed era una spedizione attraverso la triste Parigi in stato d’assedio con le lampade blu, velate, in lutto, gioiosa squadra che sbarcava in un officina del quartiere o da un borghese che nessuno conosceva, il quale ci portava a casa sua così lontano che, per esempio, certe notti si metteva capo all’avenue Henri-Martin, da cui si rientrava con il primo metrò per ritornare a bere a Montparnasse.
“Far baldoria” era soprattutto saccheggiare “La Rotonda di papà Libion”. All’ora della chiusura si faceva man bassa sulle bottiglie e le si ammucchiava a decine su di un tassì, che si avviava seguito da un altro tassì. In fondo nessuno sapeva esattamente dove si andasse con questo corteo che sovente si formava, come un funerale, di una decina di vetture, e quando gli autisti protestavano troppo, a un certo momento, era spesso il tassì di coda che prendeva la testa per trascinarci tutti dietro di lui. Come ho detto prima, si piombava in cento su un’officina di quartiere o nella casa di un grande borghese e nessuno sapeva da chi. Non ci conoscevamo neanche tra di noi, ma ci divertivamo tirando ciascuno dalle proprie tasche o da sotto il mantello il frutto del saccheggio alla Rotonda, bottiglie, scatole di conserva e di camembert, salsicce, pani, un prosciutto intero, e ancora bottiglie, in mezzo alle risate ed agli applausi, e ci mettevamo a bere e a festeggiare. Non era raro veder arrivare dei ritardatari che ci avevano pedinato per tutta Parigi e una volta, nel bel mezzo di un’orgia, due compagni ci portarono papà Libion in persona, che essi avevano portato via da dietro il suo bancone al momento della chiusura!
E’ così che, in una notte di grande sete, avevo incontrato Halmagrano, seduto a tavola a Montparnasse.
“Ehi, piccolo! – m’aveva interpellato – vieni a sederti e vieni a bere!”. Mi presentò ai suoi compagni, degli scandinavi, ed alla sua compagna, una bella donna bionda e cicciottella. Io non so più se fosse l’ultima o la penultima fidanzata della sua vita, ma, come tutte quelle che le avevano precedute, era una “cantatrice”, poiché per tutta la sua esistenza Halmagrano non fece altro che amare cantanti.
Bevemmo e, come accadeva sovente in quell’epoca folle in cui le persone meno fatte per intendersi facevano comunella davanti ad un bicchiere a Montparnasse e non riuscivano più a separarsi, noi bevemmo per otto giorni, senza lasciarci, trascinandoci da una terrazza all’altra, attraversando di tanto in tanto la carreggiata per andare a bere nei caffè di fronte, passando le notti nei localetti clandestini del quartiere des Halles, di cui Halmagrano conosceva la parola d’ordine, ma tornando al mattino ad istallarci a Montparnasse, alle stesse terrazze, agli stessi tavoli, negli stessi caffè, a bere e ribere le stesse cose, circondati dalle stesse bande d’ubriaconi visti alla vigilia e all’antivigilia, e da otto giorni tutte le sere, e, che, come noi, erano ancora là. Si finiva per fraternizzare e per conoscersi, quanto meno di vista.
Che epoca bizzarra! Che tourbillon bizzarro. Nessuno voleva rientrare a casa sua. Le donne sposate perché i loro uomini erano al fronte e il loro letto vuoto, le ragazze perché a Montparnasse erano di casa, quelle di buona famiglia perché approfittavano della guerra per emanciparsi, noialtri, i reduci dal fronte, perché non avevamo più l’abitudine di metterci a letto, quelli che non avevano fatto la guerra perché si vergognavano della loro solitudine, gli imboscati per avere l’occasione di mescolarsi a quelli tornati dal fronte, gli stranieri alleati o neutrali, come gli amici di Halmagrano, perché faceva molto francese, ed Halmagrano stesso perché era un vecchio bohèmien e non aveva aspettato la guerra per scoprire Montparnasse.
Aveva almeno un domicilio all’epoca? Io mi permetto di dubitarne. E’ un po’ più tardi che io gliene ho conosciuto uno, come si andrà a vedere, in rue de la Paix, all’Hotel des Iles Britanniques.
In ogni caso aveva le tasche piene di soldi.

III
Le notti insensate di Montparnasse continuavano, ravvivavate talvolta da un raid di Zeppelin o dalle granate della grande Berta, e la vita di questa fantastica bohème acquistava fama, avendo ciascuno la sua piccola celebrità, il che attirava nei caffè di Montparnasse nuove e nuove infornate di persone, che venivano da tutti i dintorni. Nondimeno la cosa si organizzava. I vecchi frequentatori si stringevano intorno ai tavolini più famosi, si faceva gruppo a parte, delle coppie si isolavano, altre sparivano, dei bambini venivano al mondo, mentre il nostro fronte continuava il suo tran tran di guerra e il fronte russo crollava colpo su colpo, riempiendo i giornali di notizie sensazionali, tra cui la formazione di nuovi stati che proclamavano la loro indipendenza e che i paesi nemici e i paesi alleati s’affrettavano a riconoscere per attirarli nella propria sfera d’influenza.
E’ così che un bel mattino Halmagrano, sì, Yvon Halmagrano, quel vecchio burlone di Halmagrano, fu nominato incaricato d’affari del suo paese a Parigi, un piccolissimo paese che contava pochissimi residenti in tutta la Francia, ma di cui lui, il buffone, era il solo intellettuale e il decano a Parigi.
Questa notizia scoppiò come una bomba a Montparnasse e i Montparnò non riuscivano a venirne a capo, benché Lenin, sì proprio lui, fosse uscito dai loro ranghi; ma Lenin, in sostanza, era un selvaggio dell’avenue d’Orléans, mentre tutti avevano visto la gioiosa bohème di Halmagrano, tutti gli davano del tu, tutti conoscevano la folle storia dei suoi divorzi e dei suoi matrimoni.
Stavo per addolorarmi per la nomina del nuovo ambasciatore, ben pensando che, una volta in carica, il mio vecchio e pittoresco amico non avrebbe più bazzicato le terrazze del quartiere, quando io ricevetti da lui un cartoncino, con su impressi gli stemmi del nuovo stato e della Repubblica Francese, in cui mi invitava ad un banchetto commemorativo per celebrare la costituzione del suo paese e la sua personale nomina.
Il banchetto ebbe luogo nel Palais d’Orsay ed io riconosco che Halmagrano fece le cose molto bene e che, in veste ufficiale, solenne e chiacchierone, il vecchio ubriacone aveva un gran portamento. Ma io non voglio riferire di quella cerimonia che il fatto seguente: la Signora Ambasciatrice (era la bionda che m’aveva presentato a Montparnasse, la “cantatrice”) ci interpretò la Marsigliese in francese, in inglese, in italiano, in portoghese, in breve in tutte le lingue dei paesi alleati, poi, poiché ella era, credo, scandinava, in svedese, norvegese, finlandese, danese, ed, essendo in vena di rendere omaggio ai paesi neutrali, cantò la Marsigliese anche in lussemburghese e svizzero-tedesco, e, siccome Halmagrano era sempre in forma e aveva fiato, quando pensavamo che fosse finita, per rendere un particolare omaggio ai paesi di nuova indipendenza, ci rintontì a piena voce con una Marsigliese baltica, una polacca, una lituana, una estone, una ucraina, una rumena, etc., poi ancora con un’ultima Marsigliese in francese, cantata in coro in onore del Belgio martire.
L’interprete ebbe un discreto successo, ma dopo la cerimonia, dopo averla depositata davanti al suo portone, a Passy, in rue des Eaux, Halmagrano mi disse nel tassì che si allontanava: “Che ne dici tu, ragazzo? ha una bella voce, vero? Ma io, io divorzio un’altra volta. Decisamente non ho fortuna con le cantanti. Hilda era fiera di essere ambasciatrice. Ci siamo sposati stamattina. Tanto peggio! Andiamo a bere un bicchiere all’ambasciata”.
Ne bevemmo uno, ne bevemmo due, bevemmo tutta le notte, e, siccome l’ambasciata non era obbligata a rispettare l’ora del regolamento di polizia ed era aperta a tutte le ore per me, io presi a poco a poco l’abitudine di venirci a bere tutte le notti, da solo o in compagnia.

IV
L’ambasciata aveva sede all’Hotel des Iles Britanniques, in rue de la Paix, di cui Halmagrano aveva avuto l’idea bislacca di affittare l’ammezzato, un ammezzato molto parigino, ammobiliato soprattutto di specchi e con il soffitto molto basso. Il resto dell’hotel era occupato da compagnie di ballerine: i Balletti Russi di Diaghilew vi si erano fermati in primavera e, più, tardi erano venuti a soggiornarci i Balletti Svedesi di Rolf de Maré.
Io potevo arrivare a qualunque ora del giorno o della notte all’ambasciata, vi trovavo sempre da bere. Ci si istallava nella stanza in fondo, si aprivano le casse e si stappavano le bottiglie di champagne. Quando Halmagrano, tutto preso da nuovi amori, non c’era, era Manya, la dattilografa dell’ambasciata, a riceverci.
Manya stava nell’ingresso, in un locale piccolissimo, seduta ad una piccolissima scrivania dove batteva, cercando le lettere, con un dito maldestro sulla macchina per scrivere. Era una persona grande, ingombrante, una vecchia cantante che aveva avuto delle disgrazie e che Halmagrano aveva raccolto; in piedi, la sua testa toccava quasi il tetto; ma era una brava ragazza, servizievole, che accendeva i nostri sigari e ci preparava senza scoraggiarsi dei piatti di zakouski vari. Era nordica, non so esattamente di quale nazionalità; era calma e fredda, impassibile, insensibile, e nessuna delle nostre intemperanze linguistiche, neppure la più calda, oscena ed impudente delle dichiarazioni, era mai riuscita a turbarla.
Io mi domando perfino se comprendesse le nostre risate, le nostre battute, le nostre storie d’ubriachi. Non l’ho vista mai sorridere o imbarazzarsi. Parlava un francese approssimativo. Alla lunga noi non facevamo a lei più attenzione che se non fosse mai esistita o che se avessimo a che fare con una idiota, tanto era innocente e stupida.
Una notte – era già qualche tempo che non andavo a rue de la Paix – la trovai sola all’ambasciata. Un pacchetto era aperto ai suoi piedi e lei batteva con il suo grande dito inesperto la lettera di spedizione, enumerando il suo contenuto prima di sigillare la “valigia” che conteneva libri, fasci di carte, una scatola di sigari, delle foto legate con un elastico. Era un lungo inventario…
“Allora, Mayna, siete molto occupata?”.
“Sì”
“L’ambasciatore non c’è?”.
“No”.
“Posso bere, allora?”.
“Sì”.
“E avete preparato degli antipasti, voi sapete, di quelli che Erik Satie ama tanto, alla carne di renna affumicata?”.
“Ce ne sono”.
“Grazie. E voi non volete venire a bere un bicchiere con me? Tutto solo mi annoio”.
“Non ho sete”.
“State battendo la posta?”.
“Sì”.
“E’ così urgente?”.
“Sì”.
“Andiamo, venite a bere, Manya”.
“Non posso”.
“E perché?”.
“Ho un dispiacere”.
“Come, Mayna, avete un dispiacere e non me lo dite?”.
“Non posso dirlo”.
“E perché?”.
“Sento mancarmi l’aria”.
“Vediamo. Non piangete. Che c’è?”.
“Sua… Eccellenza… è morta!” – mi dichiarò Manya, trattenendo le lacrime.
“Che cosa? Halmagrano…?”.
“Voi… voi… volete vederlo?…”.
E Manya, asciugandosi gli occhi con una mano, si chinò, cercò nella “valigia”, spiegandomi: “Questi sono i suoi effetti che io sto inviando nel suo paese come mi aveva raccomandato… le sue carte personali… le fotografie delle sue mogli…libri, lettere… Sua Eccellenza è morta di congestione… un colpo apoplettico… sono tre giorni… Secondo la sua volontà io l’ho fatto incinerare stamattina e, stasera, lo sto spedendo… Volete vederlo? Tenete, eccolo”.
E Manya aprì sul piccolo tavolo, in mezzo alle sue carte, la scatola da sigari che conteneva le sue ceneri, le ceneri di Halmagrano…
“Povero signore – disse – lui amava tanto le allegre compagni e è morto tutto solo, d’un solo colpo. Non ho potuto avvertire nessuno, non avevo gli indirizzi dei suoi amici, perché di voialtri non si sa neppure chi siate. Da tre giorni sono sola ad occuparmi di lui. Dite, voi, voi non vorreste aiutarmi, dettarmi la lettera di partecipazione? Non ne ho idea, non è compito da donna, quando accadono cose di questo genere. Volete farlo? Io vi ascolto? Ma non dettate troppo veloce…”.

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