Di Mario Rigoni Stern ho “postato” di recente una bella pagina sull’emigrazione (http://salvatoreloleggio.blogspot.com/2011/03/facce-di-casa-mia-di-mario-rigoni-stern.html) e il brano di un’amara lettera a Walter Binni sulla nostra patria disgraziata (http://salvatoreloleggio.blogspot.com/2011/03/mario-rigoni-stern-scrive-walter.html).
Qui propongo una lettura critica del capolavoro di Rigoni Stern, Il sergente nella neve, di Eros Barone. (S.L.L.)
Qui propongo una lettura critica del capolavoro di Rigoni Stern, Il sergente nella neve, di Eros Barone. (S.L.L.)
Il cantore dell’epopea popolare e democratica degli alpini
La figura di Mario Rigoni Stern, scrittore di Asiago morto nel 2008 all’età di 86 anni, è legata indissolubilmente a quel capolavoro della narrativa basata sulle memorie di guerra, che è Il sergente nella neve (sottotitolo: Ricordi della ritirata di Russia).
Il racconto, scritto tra il 1944 e il 1945 e pubblicato nel 1953, si divide in due parti, Il caposaldo e La sacca, e narra le vicende dell’autore, sottufficiale degli alpini, impegnato sul fronte russo e successivamente nella terribile ritirata dell’inverno 1942-1943. La prima parte descrive la guerra di posizione, scandita dai riti caratteri-stici della vita militare: il rancio, la posta, gli sfoghi nostalgici tra i commilitoni sui paesi di provenienza, il cameratismo, la pulizia delle armi. Spiccano i volti di tanti compagni che via via si andranno sempre più assottigliando, ognuno còlto in un par-ticolare atteggiamento o attraverso un’espressione dialettale, come Giuanin, la cui ricorrente domanda: “Sergentmagiù, ghe rivarem a baita?”, è il ‘Leitmotiv’ del libro. In questa parte del racconto, accanto alle descrizione del paesaggio, la pianura russa dominata dal “Generale inverno”, più severo e incombente che mai, prendono spesso risalto squarci di altre realtà, come quella lontana e familiare delle vallate alpine e quella della stessa terra russa, quale si indovina sotto il manto uniforme della neve, e tanto simile all’altra nel mondo contadino che la pòpola. Quando giunge l’ordine della ritirata, quel microcosmo militare fatto di cose povere e di sentimenti semplici diviene quasi oggetto di un assurdo rimpianto: “Dalla trincea sentivo i passi degli alpini che si allontanavano. Erano vuote le tane. Sulla paglia che una volta era il tetto di un’isba giacevano calze sporche, pacchetti vuoti di sigarette, cucchiai, lettere sgualcite: sui pali di sostegno erano inchiodate cartoline con fiori, fidanzati, paesi di montagna e bambini”.
La seconda parte è interamente dedicata all’atroce ritirata dei reparti italiani, circondati dai russi, a cui quelli tentano di sfuggire rompendo l’accerchiamento con interminabili marce e assalti disperati. Ora ogni uomo è solo con se stesso in una lotta per sopravvivere che sembra non aver mai termine e in cui la morte gli cammina al fianco: “Ma quando finisce? Alpi, Albania, Russia. Quanti chilometri? Quanta neve? Quanto sonno? Quanta sete? È stato sempre così? Chiudevo gli occhi ma camminavo. Un passo. Ancora un passo”. I villaggi abbandonati si susseguono ai villaggi presi, le fughe si succedono l’una dopo l’altra nell’inferno ghiacciato delle notti, a quaranta gradi sotto zero; i compagni d’arme cadono quasi senza emettere un gemito, fino a Nikolajevka, il 26 gennaio 1943.
E proprio nel fuoco di quella durissima battaglia il sergente, stremato, braccato e affamato, entra in un’isba e, prima ancora di avere il tempo di capire, scorge dei soldati russi seduti a tavola. Come in sogno, una donna gli offre da mangiare e, in silenzio, senza che nessuno dica o faccia qualcosa, tutti si concentrano nella consumazione del cibo: “Una volta tanto le circostanze avevano portato degli uomini a saper restare uomini”. Qui Mario Rigoni Stern sembra evocare, descrivendo questo straordinario incontro fra soldati russi e soldati italiani in un’isba, l’archètipo, ad un tempo simbo-lico e reale, del ritorno nel ventre materno, che è lo spazio/tempo, situato prima della storia e oltre la storia, dove tacciono le armi e gli odi e dove dunque può avvenire la riscoperta, nel silenzio profondo, sacrale, che accompagna il pasto comune, della fraternità originaria che unisce tutti gli uomini. Sennonché pochi saranno, alla fine, i superstiti scampati a quella terribile avventura, il cui ricordo risuona nei nomi dei battaglioni che ne furono, ad un tempo, protagonisti e vittime: Tirano, Edolo, Vestone, Verona.
Tra le non molte dedicate alla seconda guerra mondiale (l’altra, assai famosa, è quella di Giulio Bedeschi, intitolata “Centomila gavette di ghiaccio”), queste memorie colpiscono per l’asciuttezza, la sobrietà e la linearità, veramente classiche, della scrittura, che ricorda lo stile di Senofonte nell’“Anabasi”. L’autore non ha bisogno di ricorrere ai lenocìni della retorica per sottolineare il carattere epico dei fatti che racconta; si limita a descriverli, e in tal modo offre al lettore la possibilità di cogliere, senza effusioni sentimentali o intenerimenti pietistici, il valore morale e la grandezza umana degli umili protagonisti di una drammatica vicenda di popolo.
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