Nell’attività di Walter Binni, secondo una prassi critica che ha il suo modello in Francesco De Sanctis, politica, etica e letteratura sono intimamente congiunte: com’è stato notato (tra gli altri da Walter Cremonte) in lui il rigore scientifico e analitico è forma di una indomabile passione civile. Pertanto tutte le sue opere di studioso, di italianista tra i maggiori nel Novecento, presentano un grado assai elevato di “politicità”, da quella sul decadentismo fino al corpus degli scritti leopardiani, passando per Ariosto, Alfieri e i preromantici. A gennaio è uscito per le edizioni de “Il Ponte”, in collaborazione con il Fondo Walter Binni, il volume La disperata tensione, che raccoglie un’ampia scelta di scritti politici stricto sensu e rende evidente anche il movimento inverso: un impegno politico, fuori e dentro le istituzioni e i partiti, fortemente nutrito di cultura letteraria, filosofica e storica e da essa inseparabile.
Il titolo del libro – lo spiega la premessa - nasce uno degli ultimi appunti per un saggio autobiografico ove si può leggere, tra l’altro, “Capitini e l’antifascismo: la disperata tensione”. L’espressione, di ascendenza leopardiana, restituisce in verità i caratteri costitutivi dell’impegno di Binni, che, come il “suo” poeta, dal deserto delle illusioni e dal rifiuto di ogni consolatoria mistificazione, religiosa o ideologica, trae alimento per una resistenza attiva e appassionata al “male”. “Male”, nel suo approccio, è la condizione naturale dell’esistenza; ma colpa, oltre che male, è un’organizzazione sociale e politica fondata sulla disuguaglianza e sull’oppressione, per i più generatrice di sofferenze.
Il volume offre, in realtà, due testi in uno: un’ampia selezione di scritti politici (articoli, brevi saggi, discorsi, interviste, interventi e comunicazioni), dal 1934, quando Walter Binni aveva 21 anni, al 1997, anno della morte; e un sostanzioso saggio biografico, La poetica di un “pessimista rivoluzionario”, di Lanfranco Binni, che funge da premessa e cornice ma ha anche un valore autonomo.
Il “racconto” di Lanfranco Binni mostra da una parte una rete di relazioni politico-intellettuali assai fitta, da Nenni a Rigoni Stern, da Alessandro Natta a Pratolini, da Bobbio a Vassalli, da Parri a Pintor (l’elenco è assai più lungo e la scelta dei nomi opinabile); dall’altra un intellettuale, che, sia quando in prima linea è attivo nelle lotte della politica (la cospirazione antifascista e resistenziale, la Costituente repubblicana, gli anni Sessanta e la contestazione all’Università di Roma), sia quando oppone alle ricorrenti “restaurazioni” italiane la forza dell’analisi e il coraggio della verità, non scinde mai pensiero e azione, ricerca scientifica ed impegno etico-civile.
La ricostruzione dell’attività politica e intellettuale di Walter Binni, come del complesso di eventi, contatti, rapporti, sollecitazioni, studi che ne rappresentano l’humus, forniscono il variegato spaccato di “un’altra Italia”, assai migliore di quella che si esprime nella lunga catena di malefatte che lega i nomi di Mussolini, Andreotti, Berlusconi. Lo stesso Binni ne parla in una delle ultime interviste (a Giorgio Calcagno nel marzo del 94) : “Forse nel nostro paese è vissuta sempre una doppia Italia. Ce n’è stata una nobile, minoritaria. E poi ce n’è una cinica, conformista, arrampicatrice, rotta a ogni corruzione. Solo in rari momenti della storia, quelli che vengono chiamati lune di miele dei popoli, è emersa la prima…”.
Nei testi de La disperata tensione si possono individuare alcuni filoni e temi ricorrenti.
Primo: il radicale e radicato antifascismo. Evidente già nei due scritti degli anni Trenta sulla Germania pubblicati nel giornale del Guf pisano esso si esprime al massimo livello nel discorso del 66 per la morte dello studente Paolo Rossi o nel ricordo di Ferruccio Parri. Ma in Binni l’antifascismo non si esprime solo nei momenti speciali di tensione o di commozione, è abito di tutti i giorni: basta leggere, per averne conferma, un articolo del 47 sulle case di tolleranza.
Secondo: Capitini, amico e maestro riconosciuto, nonostante la diversità di prospettive in materia religiosa. Fin dal primo dopoguerra Binni ne sottolinea il ruolo formativo per la sinistra; poi ne seguirà e valorizzerà, dai Cos alle Marce pacifiste, la sperimentazione di forme nuove della politica.
Terzo: la scuola pubblica, nazionale, democratica e laica. Sul tema Binni fece un lucido e vibrante intervento da deputato nella Costituente, e più volte vi ritornò nel corso degli anni, spesso in coincidenza con i ricorrenti rigurgiti di clericalismo.
La disperata tensione, letta nelle due parti che la compongono, permette anche di ricostruire un percorso politico sicuramente atipico, ma significativo.
Binni, dopo la liberazione, non sceglie, come Guido Calogero e altri amici di Capitini, il Partito d’Azione, ma compie senza ambiguità la scelta socialista, nel Psiup di allora. Eletto deputato alla Costituente nel 46, nel complesso dibattito interno al suo partito è vicino a “Iniziativa socialista”, la corrente più giovane e avanzata sul piano programmatico, ma avversa allo stalinismo e alle politiche frontiste. Quando nel 1947 “Iniziativa” aderirà alla scissione di Palazzo Barberini, Binni non confluisce nel Psli saragattiano, ma con Codignola e Silone tenta di dar vita a una Unione Socialista, possibile ponte verso un unico grande partito socialista non subalterno né alla Dc né al Pci. Nel 1948 Walter Binni rinuncerà alla politica attiva, ma resterà questa la sua area di riferimento, minoritaria ma piena di fermenti (poneva tra i propri maestri anche eretici come Trotzkij e Rosa Luxembourg). Negli anni 50 Binni accompagnò il processo di unificazione tra il Psdi di Saragat e il Psi di Nenni, prima promuovendo insieme a Giuliano Vassalli un movimento di “socialisti senza tessera”, poi aderendo al Psi.
Del socialismo italiano si disamorerà negli anni del centrosinistra, quando vedrà le riforme progettate naufragare nella mai bonificata palude italiana e molti compagni preferire la “stanza dei bottoni” alle battaglie di massa. Vicino alla contestazione studentesca, Walter Binni si allontana dal Psi nel 68. Nel 1976 si fa addirittura promotore di un incontro, nella sua casa romana, per una comune iniziativa tra persone dalle storie politiche molto diverse, da lui ribattezzate “liberi comunisti”, Aldo Natoli, Carlo Cassola, Guido Aristarco e Vasco Pratolini, una iniziativa che anticipa la sua generosa adesione al Partito della Rifondazione comunista nel 1994, dopo la fine ingloriosa dell’Urss e l’avvento in Italia della cosiddetta Seconda repubblica. In realtà nel riflusso degli anni 80, segnati dalla presenza ingombrante di quelli che Walter Binni chiamava “brutti ceffi”, il fallimento sempre più evidente del comunismo di marca stalinista, che egli aveva contrastato quand’era all’apice della forza e della capacità attrattiva, non lo spinge affatto a un ripiegamento o a una resa, come accade a tanti, ma a una radicalizzazione del suo sentimento socialista. Gli anni Ottanta e Novanta del 900 gli appaiono, come al “suo” Leopardi gli anni Venti e Trenta dell’Ottocento, un tempo di regressione civile e culturale, un tempo “superbo e sciocco” che pretende di chiamare progresso il ritorno a forme rapinose di sfruttamento capitalistico, la cancellazione di diritti sociali e civili, la sottomissione del lavoro, il riciclaggio postmodernista della superstizione religiosa o la “moda nera e nefasta” della falsa disperazione . Il tempo della vecchiezza è dunque per Binni anche il momento di una resistenza “disperata”, orgogliosa ed eroica contro il “nuovo che avanza”, orribilmente vicino nei suoi tratti sottoculturali a quell’ “era fascista”, in cui era maturata la sua prima ribellione. La sua denuncia è implacabile, ma sente fortissima anche l’esigenza di un lascito positivo a quelli che verranno, non la trasmissione di un’eredità da dissipare ma l’indicazione di un dovere da compiere. La selezione opportunamente comprende come scritto precipuamente e altamente politico un testo come Il messaggio della “Ginestra” ai giovani del ventesimo secolo, del 1988, collegato alle conferenze che Walter Binni l’anno prima aveva tenuto a Terni, Perugia e Città di Castello in teatri affollatissimi da studenti. La “proposta” del poeta di Recanati (e del suo critico perugino) veniva così sintetizzata: “l’invito urgente ad una lotta per una attiva e concorde prassi sociale, per una società comunitaria di tutti gli uomini, veramente libera, «eguale», giusta ed aperta, veramente e interamente fraterna: lotta il cui successo non ha nessuna garanzia e che è tanto più doverosa proprio nella sua ardua difficoltà”.
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