Il 25 febbraio 2007 in occasione dell’apertura a Torino di una mostra su Alessandro Magno e la sua avventura in Asia Centrale, su “La Stampa” Silvia Ronchey propone a Luciano Canfora un confronto tra il grande conquistatore macedone e il presidente Usa Bush, primo artefice dell’intervento in Afghanistan. Ripropongo qui l’intervista. (S.L.L.)
Quell'impresa non nacque da ambizioni imperialiste. Non esportava democrazia ma creava una nuova civiltà.
Le località che hanno interessato la conquista di Alessandro sono le stesse dove oggi l'impero americano di Bush cerca di «esportare la libertà», per riprendere il titolo dell'ultimo libro di Luciano Canfora, appena uscito da Mondadori.
«Certi luoghi geografici - spiega lo storico - sono più forti di altri, sono luoghi critici nel cammino umano: vi ricorrono determinati comportamenti, determinati esiti».
Quali?
«Quell'ampio spazio che si espande dalle coste dell'Egeo fino all'Afghanistan si può attraversare secondo una doppia direttrice geografica e soprattutto in una doppia direzione storica. Il primo vettore di storia, in questo che potremmo chiamare ''l'arco della crisi'', fu la spinta originaria verso l'Egeo che partendo dal cuore della Perside creò l'impero persiano: una spinta da Est, causata dal premere di popolazioni mongole».
Ma Alessandro sconfisse l'impero persiano avanzando secondo una direttrice opposta.
«Alessandro, nel seguire per la prima volta un percorso da Ovest verso Est, fu debitore dell'idea di suo padre Filippo: un'idea non certo nata dal nulla, ma dalla possibilità di entrare fin nel cuore del territorio persiano senza colpo ferire».
Quale fu allora il ruolo di Alessandro?
«Anzitutto porre in atto il progetto paterno, dimostrando una maestria irraggiungibile, che ancora oggi non sappiamo dove abbia imparato, nel solcare l'arco della crisi nella direzione inversa a quella persiana. Ma, dopo il crollo dell'impero, Alessandro scoprì la possibilità di un ''oltre''. La conquista di Alessandro non nacque da una volonta' di espansione, ma dalla scoperta della possibilità di ingrandire la civiltà greco-iranica - che era indubbiamente un'unica civiltà - in uno spazio molto più grande».
Nel suo grande disegno non possiamo scorgere qualcosa di quello di Bush?
«In lui c'è una progressiva scoperta. La diversità fondamentale rispetto all'attuale progetto di dominio imperiale del mondo è che quello di Alessandro è il letto di un fiume che si è scavato da solo, in totale assenza della retorica dell' ''esportazione'' di uno stile di vita o di valori ideologici. Anzi, Alessandro era osteggiato politicamente dai greci che lo attorniavano (pensiamo alla Congiura dei Paggi, a Callistene) e dal suo stesso maestro Aristotele, che non si riconoscevano più in quella grecità diluita in uno spazio più grande. Solo due voci si staccano dal coro: quella del Bios di Plutarco, con la sua esaltazione dell' ''abbeverarsi alla coppa dell'amore'', ossia della mescolanza dei popoli, e quella del XVIII libro di Diodoro. Ma sono voci minoritarie rispetto all'ideologia dominante, all'immagine che il mondo greco ha conservato della conquista di Alessandro come eccesso, come atto di hybris, quasi fosse una sfida contro gli dèi che tutelavano il modo di essere ellenico».
Dunque, nessuna retorica dell' «esportazione della libertà», come nel caso di Bush?
«No. L'analogia che regge meglio alla critica, in parte almeno, e' se mai tra l'azione dell'odierno impero americano e la pratica dell'impero romano. Ma non dobbiamo dimenticare che il disegno romano di penetrazione nell' ''arco della crisi'' fu di Crasso, e che fallì miseramente a Carre, in quell'Armenia meridionale che lambiva la Mesopotamia e che sta poco più a Nord di Baghdad. Augusto, nella sua saggezza, si fece si' ridare le insegne di Crasso, ma concluse un patto coi Parti. La provincia di Siria resterà l'ultima frontiera dell'impero romano. L'impero americano dovrebbe imparare da questo: se non si darà anche lui i limiti di Augusto, finirà per impantanarsi in una nuova Carre».
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