Sulla trattoria di “Cesaretto”, in via Della Croce a Roma, ho già proposto in questo blog i ricordi di Stefano Bonilli (http://salvatoreloleggio.blogspot.com/2011/04/cesaretto-stefano-bonilli-ricorda.html).
Ora riprendo dal “Corriere della sera” di domenica 25 maggio 1980 l’articolo per il quale Mario Soldati prende penna, quasi difendere l’esistenza stessa della trattoria, minacciata di sfratto. Mi pare una pagina di ottimo livello letterario, oltre che piena di tante curiose notizie. (S.L.L.)
Ciao Giorgio.
Leggo sui giornali che a Roma, in via della Croce, c’è pericolo chiuda “Cesaretto”, una piccolissima, modesta, economica trattoria. Sarebbe, un gran peccato!
A Roma ho vissuto in vari periodi qualche volta anche molto distanziati l’uno dall’altro, ma se faccio la somma si tratta almeno di una trentina d’anni: venti in pensione o in albergo, poi dieci in casa mia. Ebbene, soffrivo di un’angoscia quotidiana: puntualmente verso sera m’accorgevo che anelavo a vivere altrove. In qualunque luogo del mondo ho sempre accettato l’idea della morte ma solo a Roma non mi sono mai sentito capace di accettare la possibilità di trovarmi a morire proprio lì: pensavo che in questa città, morta già tante volte, era come morire di più. Dal 1960, dopo che l’ho lasciata, Roma ha subito distruzioni, malversazioni, ignominiose trasformazioni: non me ne sono mai lamentato: anche se erano delitti contro il buon gusto, anche se erano novità che denunciavano odio e disprezzo per l’arte, ne godevo con una risata tragica: ma sì, che vada in malora tutto, sempre di più, abbreviamo l’agonia.
Come mai, perciò, provo oggi tanto dispiacere sentendo della fine che minaccia una piccola, modesta, economica, apparentemente anonima trattoria? Per quale mistero, a una notizia simile, non mi sfiora neppure l’ombra di quel maligno sorriso che non sono mai riuscito a nascondere quando un amico di Roma mi informava di analoghe infamie colà perpetrate?
Il dispiacere che provo per “Cesaretto” si collega ad un episodio lontano, lontanissimo, forse dovrei dire senza data. Messi in opera tutti i possibili calcoli di una filologia privata, non riesco neppure a ricordare di quale epoca si tratti. Era una vigilia di Natale ma non so di che anno. Se c’era, allora, a Roma, una sera che la gente non andava in trattoria era proprio quella …
Mezzanotte si avvicina. I pochi clienti sono già usciti. Siamo rimasti ciascuno al suo tavolo, l’ingegnere e io. L’ingegnere ha già chiamato il figlio di Cesaretto, un ragazzo sui dodici anni, e ha chiesto il conto.
Capelli bianchi pettinati con la riga, testa piccola e rotonda, occhiali d’oro, guance di colore avorio, completo di tweed verdolino, l’ingegner Giacinto Caire, funzionario dell’Azienda Comunale di Elettricità, siede al suo solito tavolo perfettamente equidistante tra la porta a vetri che dà su Via della Croce e il buio andito che comunica con la cucina. Siamo compaesani, piemontesi, lui però un montanaro della Val Varaita: non soffre il freddo come me che siedo lontano dalla strada, in fondo, all’ultimo tavolo dove arriva, dalla cucina, un fiato di calore. Do le spalle al bancone della mescita e guardo quella semplice stanza che ho sempre amato e che adesso mi sembra meravigliosa.
Le tre volte a vela intonacate a calce; il piatto di ferro smaltato che pende dal centro di quella di mezzo; la lampadina che arde solitaria lasciando nella penombra, in alto, i lunghi scaffali colmi di fiaschi bene allineati; il lucido, liscio intonaco verdechiaro, dello zoccolo; la doppia prospettiva dei tavolini, marmo bardiglio, sei di qua sei di là; lo scintillio tranquillo degli occhiali d’oro dell’ingegnere e del bicchiere d’aleatico da lui non ancora finito; l’ingegnere stesso, immobile, con la sua espressione seria e lo sguardo perduto nel vuoto: tutto questo è un quadro vivente, il capolavoro di un pittore che immagino, di un Van Gogh diverso, magro, gotico, nordico, eh sì nordico proprio perché toscano e non olandese né provenzale.
Rompe l’incantesimo il figlio di Cesaretto, Luciano che arriva con il conto. L’ingegnere esegue allora, sempre uguali, i soliti gesti di ogni sera: si toglie gli occhiali, guarda il conto dedicandovi una breve meditazione, si rimette gli occhiali, sfila dalla giacca il portafogli, depone sul tavolo il denaro; infine, con l’aiuto di Luciano, indossa il paletot. Piccolo, deve alzarsi sulla punta dei piedi per staccare dall’attaccapanni il cappello: Se lo adatta bene sulla fronte. Senonchè, di colpo, guardando Luciano, interrompe il rito: e perché? ricorda forse soltanto allora che è una sera straordinaria? ma sì, Natale, cede ad un sorriso, inclina il capo: “Be’, ciao Luciano”, lo sfiora con uno scappellotto sulla nuca, poi, seguitando lo stesso movimento a cui lo scappellotto ha dato l’avvio, svelto raggiunge la porta, la apre. I vetri tintinnano, l’ingegnere la chiude accuratamente, scompare nel buio.
Resto lì, solo, tranquillo, a contemplare il mio personale Van Gogh. Perché sono così felice? Sono solo, sono a Roma, eppure mi sento a casa, eppure mi sento felice. Perché?
Cesaretto, oppure il Buchetto, oppure il Buco di Via della Croce, o anche la Felicetta: ma soprattutto Cesaretto, così lo si cominciò a chiamare almeno dagli anni Trenta, sebbene l’insegna che ancora oggi sormonta la vetrata d’ingresso, porti la scritta “Fiaschetteria Beltramme”.
Cinquantacinque metri quadrati tutto compreso, sala e cucina. Un rettangolo lungo e stretto. Un posto non soltanto diverso da tutte le altre osterie romane, ma unico. Questa singolarità non riguarda soltanto la modestia, la parsimonia, lo stile arcaico è di un’eleganza prettamente toscana, vorrei dire macchiaiola. Ma riguarda anche – conseguenza e insieme causa del suo stile – la clientela: pittori, scrittori, giornalisti, turisti nordici e specialmente svedesi, una bohème educata, riservata, parte della quale ha davvero pochi soldi da spendere mentre un’altra parte sa come l’avarizia molte volte nasconda un gusto profondamente raffinato: scelta istintiva che coincide con il gusto di chi, nel 1889, fondò questa osteria.
Era toscano, naturalmente: anzi più chiuso, senese. Si chiamava Moscardini di cognome e Beltramme di nome. A Firenze non si dice il tram, si dice il tramme. Beltramme, forma antica e forse un po’ scherzosa del germanico Beltram. Chiaro, ci riallacciamo alla Toscana più viva e più forte, all’innesto medievale, germanico, gotico.
Non ho fatto in tempo a conoscere il vecchio Moscardini, ma nel 1927, quando, avvertito da Emilio Cecchi, per la prima volta misi piede nel locale, conobbi le due figlie del Moscardini, le quali allora avevano superato l’età di mezzo. Si chiamavano Felicetta e Elena, restarono nubili. Magre, brune, pulitissime, capelli raccolti in crocchia sulla nuca e cuffia bianca per rispetto del coperto e della pietanza. Camice bianco da infermiera dal collo alle caviglie. Guanti di filo bianco. Ricordo bene soprattutto Felicetta perché è rimasta viva molto tempo dopo la morte della sorella. Continuò a lavorare fino al 1970: sempre col camice bianco e i guanti di filo, piegata in due, sottile, silenziosa, sorridente, durissima, simile alla sagoma secca di una zeta o di un quattro.
Nulla, assolutamente nulla di romano: e meno di tutto romana la cucina che si distingue anche oggi da quella romana specialmente in una rigorosa, strenua applicazione del primo principio della cucina toscana: dare, sempre, molto maggiore importanza alla scelta dei cibi che non al modo di cucinarli. Poiché fu certamente questo il pilastro incrollabile, indefettibile su cui il vecchio Moscardini costruì la sua impresa anacronistica e perfettamente refrattaria all’ambiente in cui era destinata a operare. E fu questo l’insegnamento che le figlie del Moscardini trasmisero al giovane Cesaretto Guerra, abruzzese dell’Aquila che era venuto a aiutarle dopo la morte del padre.
Insomma, la Fiaschetteria Beltramme è una miracolosa enclave ormai centenaria, sempre validissima come cucina e sempre refrattaria anche all’inflazione. I suoi prezzi sono minimi oggi come in passato. Assurdo si debba temere per la sua improvvisa scomparsa. Il figlio di Cesaretto ha in affitto – un affitto che dura da un secolo – i suoi cinquantacinque metri quadrati. Ma un certo dottor Romagnoli recentemente ha comprato la vecchia casa che include quella piccola area e, per farne un’agenzia immobiliare, ha sfrattato il figlio di Cesaretto.
I nomi dei clienti che ricordo?
Vanno, nei primi tempi, da Emilio Cecchi a Cesare Pascarella, da Prezzolini, Soffici, Papini, Spadini, a Cardarelli, Bontempelli, Ungaretti, Donghi, Francalancia, De Chirico, fino a Luigi Einaudi quarant’anni prima che diventasse presidente della Repubblica.
E poi Poggioli, Pagliero, Napolitano, Patti, Talarico, Amerigo Bartoli, Sensani e Ghepardi, Leo Longanesi e Re Gustavo di Svezia con i suoi archeologi.
Infine i sempre vivi Mino Maccari, Arbasino, Caprioli, Bassani, La Capria, Moravia, Parise, Ruggero Orlando, Fellini, Castellani, Lucio De Caio.
Ma è necessario dissipare un equivoco. Non Vorremmo che si credesse che noi, amici di Cesaretto, cerchiamo di imbalsamarlo in qualcosa di intoccabile e prezioso. Non c’è niente di comune tra Cesaretto e altre trattorie romane che anticheggiano e antiquareggiano, fino a non vergognarsi dell’insegna “Hostaria”. E non c’è nessun rapporto neanche con locali come il Caffè Greco, rimasto fisicamente identico a quello che era in passato mentre culturalmente non esiste più. La clientela del Caffè Greco oggi è amorfa: contiene tutti i turisti e i viaggiatori sia nazionali sia stranieri, tutti curiosi, tutta la massa anonima che ogni giorno invade il centro di Roma. La clientela di Cesaretto invece è rimasta la stessa di cinquanta o sessanta anni fa: rinnovata, intendiamoci, perché costituita in maggioranza da giovani, ma da giovani il cui rapporto con l’arte e con la società è identico a quello dei clienti loro predecessori.
Tale continuità dei clienti di Cesaretto è riconoscibile da qualcosa che li accomuna non in una cultura o in una professione, ma piuttosto in una disposizione dell’animo. Perché i loro gusti intimi possono essere definiti soltanto come odio della retorica, odio delle grandiosità a buon mercato, odio di tutti i paludamenti, gli orpelli, i gridi pubblicitari e come sfoggio, semmai, di un’eleganza spirituale che veste sempre leggermente fuorimoda.
Nomi, nomi. Attraverso elenchi di gruppi con tutti i nomi famosi si potrebbe arrivare alla storia di una certa élite, di una certa intellighenzia non romana ma residente, temporaneamente o meno, a Roma. Romano-residente e romano-resistente, in ogni caso. Gli archi di tempo che chiudono questi elenchi di nomi potrebbero andare da Luigi Einaudi alla figura senza tempo tinta dell’ingegnere Caire e della sua notturna uscita di scena così dignitosa, elegante, leggera. Scrive Giulia Massari che uno degli ultimi bon mots di Ennio Flaiano era questo: “Se potessi scegliere dove morire, non avrei che un’alternativa: o Chez Maxim’s o Da Cesaretto”.
Non è proprio questo il segreto della mia misteriosa felicità, quella sera di Natale tanti anni or sono? Ero a Roma ma come se non fossi a Roma, ero pronto.
Mario Soldati
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