Gian Luigi Beccaria dedica la sua rubrica Parole in corso, nel "Tuttolibri" de "La Stampa" di sabato 2 aprile, a Pellegrino Artusi e al suo tentativo di costruire una cucina italiana arricchita dalle diversità regionali e una lingua unitaria per essa cucina. Lo ripropongo qui per uso mio e di qualche curioso. (S.L.L.)
Tra Palazzo Vecchio di Firenze e Casa Artusi di Forlimpopoli, si è aperto un ricco convegno (fino ad oggi), per ricordare il centenario della morte di Pellegrino Artusi, l'autore della celebre Scienza in cucina e l’Arte di mangiar bene. Manuale pratico per le famiglie, Landi editore, 1891, cui seguiranno tante altre edizioni, ognuna con aggiunte copiose.
L’Artusi (con questo nome verrà conosciuto il libro) passerà nelle mani di tanti italiani, soprattutto delle italiane. Nel Novecento si stamperanno tre milioni di copie del volume: con Cuore e Pinocchio un vero best-seller, che contribuirà anche linguisticamente all'Unità d'Italia. La lingua della cucina italiana sino all’Artusi era scarsamente unificata, un misto di gergo francesizzante con un alto tasso di localismi nostrani («Che linguaggio strano si parla nella dotta Bologna!», «Nelle trattorie poi trovate la trifola, la costata alla fiorentina ed altre siffatte cose da spiritare i cani», «Quando sentii la prima volta nominare la crescente, credei si parlasse della luna», annotava). In questa «bizzarra nomenclatura della cucina», Artusi riesce a operare una qualche unificazione interna, a portare un po’ di ordine.
Impastando tradizioni locali sulla base toscana, l’Artusi collaborava a un gusto «medio» non solo del palato, ma in qualche misura anche della lingua. Come tutti i non toscani del secolo si prepara sui libri per unificare il lessico su base fiorentina, consulta grammatiche e vocabolari, ma è anche attento all’uso parlato. Introduce parole nuove: è stato lui a sostituire a rosbiffe l’italiano bistecca (parola in verità già attestata nel dizionario del Carena, 1859), a introdurre cotoletta e maionese. Certo, da un’edizione all’altra del suo testo osserviamo incertezze e oscillazioni: prima di adottare besciamella passa attraverso balsamella, forma accolta in un primo tempo in luogo di bechamel, e propone (vanamente) sgonfiotto al posto di soufflé, o crostare in luogo di glassare, tenta ciarlotta invece di charlotte, e a un certo punto italianizza quenelle in chenelle, con ch, ma finisce poi per tornare all’ormai tecnico e universale francese quenelle.
L’operazione unitaria innescata dall’Artusi è parzialmente riuscita, se si guarda alla situazione italiana oggi, che quanto al lessico gastronomico è rimasta assai variegata. Nulla di male naturalmente. Il dopo Artusi ha registrato l’afflusso di innumerevoli voci regionali, che hanno raggiunto la lingua nazionale dell’uso, voci romanesche (abbacchio), piemontesi (fontina), meridionali (caciocavallo), emiliano-romagnole (tortellini, cappelletti), lombarde (risotto), e aggiungerei anche le misticanze, prima toscano-laziali, poi nazionali. L’Italia della cucina è rimasta un variatissimo, colorito mosaico (pensiamo soltanto ai nomi della pasta, dei tagli di carne, del pane, dei dolci). Sfolgorio di forme e di colori, ricchezze della diversità.
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