Quella che segue è una pagina di un mio lungo racconto dal titolo (provvisorio) Borghesia e tuttora inedito. La posto qui sperando letture se non commenti. La storia si svolge in un immaginaria località siciliana, il “paese dei Panzuti”, che vagamente somiglia a quello dove sono nato e cresciuto. (S.L.L.)
L’idea era venuta a Nenè, che pensava al teatro, e più ancora alle ballerine. Avevano preso in affitto nel ’23 i magazzini a pianterreno del palazzo del Barone, quelli che davano sulla piazza di mastro Menico, e avevano aperto, il 6 gennaio dell’anno dopo, il Cine Teatro Italia.
Spesso i grandi mutamenti, quelli che modificano abitudini, stili di vita, sogni e aspirazioni, sembrano inserirsi senza sussulti nella continuità. Il locale era quello ove da un secolo, per gentile concessione dei baroni o, in assenza, dei loro amministratori, si teneva il teatro: il Mortorio del Giovedì Santo e le altre sacre rappresentazioni, le sporadiche recite di giovanili filodrammatiche e perfino gli spettacoli di qualche compagnia di giro.
Neanche il cinematografo era, in assoluto, una novità. Ben lo conoscevano quelli che, per coscrizione, costrizione o sfizio, avevano viaggiato, possidenti, arruolati, emigranti, ma anche in paese c’erano già state tre proiezioni, di cui due proprio lì, nei magazzini del barone, nel 1904 e nel 1919. La prima era una specie di esperimento per mostrare il nuovo ritrovato della tecnica. La seconda documentava e commemorava, ad uso dei notabili, la Vittoria ed era dovuta intervenire la forza per fermare i socialisti che fuori protestavano e volevano forzare gli ingressi. La terza l’aveva fatta un cinematografaro ambulante, in mezzo alla piazza, ma pochi lo avevano saputo per tempo e, oltre tutto, era durata meno di un quarto d’ora. Le guardie avevano bloccato tutto: pare che non fosse in regola con i permessi.
Furono i La Maglia a fare del cinema un divertimento popolare, ma il successo non fu immediato. Per qualche tempo continuò ad avere un pubblico di fedeli appassionati l’opra dei pupi, fino ad allora lo spettacolo più amato dai Panzuti. Il puparo, Luigino il Licatese, era un maestro nel suo campo. Aveva incantato spettatori di ogni ceto ed età con i suoi paladini e la voce versatile, cui il peculiare accento natìo conferiva un tocco di esotico. I licatesi, infatti, palatalizzano ed etacizzano. Chiamano ciave la chiave e dicono nostre per "nostra" e per "nostro", con una “e” molto aperta. Ma Luigino dava di più, molto di più: con una ventina di pupi e pochissimi ingredienti narrativi elaborava storie sempre diverse. Gli habitués amano di tanto in tanto rivedere e risentire le stesse pièces, ma il principio che governa l’abitudine più che l'identità è la variazione, che nulla offre di veramente nuovo (disorienterebbe) e nulla di perfettamente uguale al già visto (annoierebbe). E il Licatese era abilissimo nel combinare e variare: aveva applicato senza saperlo i principi della serialità, anticipando soap-opera e telenovelas. Andava tessendo, sera dopo sera, una trama lunga e complicata che avrebbe potuto reggere il paio con l’Orlando Furioso, se non fosse il fatto che messer Lodovico era libero di ampliare spazi, moltiplicare personaggi, inserire digressioni, mentre Luigino era soggetto a costrizioni assai più rigide.
Il cinema incuriosiva e divertiva i Panzuti, ma tante cose non le capivano, né li aiutavano le didascalie, visto che erano in gran numero analfabeti. Uno, forse un po’ bevuto, aveva presto svelato l’inghippo, rivolgendo a un pupo del lenzuolo il quesito michelangiolesco: “Perché non parli?”.
Da quel giorno Nenè si assunse il compito di leggere, tradotte in dialetto, le scritte delle pellicole. Fu un duro colpo per il Licatese. Cominciò a perdersi uno dopo l’altro gli spettatori, finché non decise di parlarne a mastro Filippo. Questi era un galantuomo e apprezzava l’arte: non gli andava giù che Luigino rimanesse in mezzo ad una strada per colpa del suo cinema. Escogitò pertanto una soluzione geniale. Lo trasformò in proiezionista e affidò a lui l’ufficio di declamare le didascalie. Ne prese in carico anche la figlia semicieca, con le stesse mansioni che aveva nell’opra dei pupi: accompagnare lo svolgimento della storia con il suono della pianola.
C’era l’inconveniente che la voce arrivava da dietro, da una fessura accanto a quella del proiettore, ma i risultati furono ugualmente notevoli. Luigino non solo mise a profitto la sua professionalità di facitore di voci, ma perfezionò le doti di rumorista già sperimentate nelle battaglie tra Cristiani e Saraceni, tra Maganzesi e Chiaramontani. A vedere il cinema così artisticamente insonorizzato venivano anche dal paese vicino, percorrendo a piedi, all’andata e al ritorno, i quattro chilometri di distanza. Solo una volta successe un incidente, nel ’25, quando si proiettava una vecchia pellicola francese, d’anteguerra, chissà come arrivata fin lì, La Signora delle Camelie, con Sarah Bernhardt.
Le storie del cinema raccontano che in Francia era stato un insuccesso: la diva eccedeva in pose teatrali e la macchina da presa ne sottolineava rughe ed anni. Ma nessuno di questi era per i Panzuti un difetto: non c’era attrice in grado di eguagliare l’enfasi che usavano le loro femmine nei gesti e nell’espressione dei sentimenti, per loro tutta la vita era teatro. Inoltre la Bernardt, per quanto attempata, era una donna e lì, tra i contadini, non esistevano (o quasi) le donne. Le ragazze si sposavano a quindici anni e, nel giro di venti mesi (o di due figli), erano già vecchie. Pertanto gli spettatori, aiutati dalla voce di Luigino, efficace anche per i ruoli femminili, dalla pianola che intensificava la potenza delle immagini con le melodie della Traviata, non s’erano solo impietositi per la sorte di Margherita, ma se n’erano perdutamente innamorati.
Quando, sul finire del film, tra le note di Croce e delizia, la protagonista esalava l’ultimo respiro, uno spettatore si rammentò di Roncisvalle. Anche lì il protagonista moriva, ma al grido di “Fallo risorgere!” il pubblico aveva ottenuto che Orlando si levasse da terra, tornasse a combattere e con la sua Durlindana uccidesse dieci infedeli in un solo colpo. Pensò l’ingenuo che potesse ripetersi il miracolo; lanciò il grido e tutti gli fecero eco, a lungo, finché un altro spettatore, spazientito, non vi fece una giunta: “Falla risorgere, cornuto!”. Dalla porticina del retro entrò in sala Luigino che con voce cavernosa proclamò: “Chiunque tu sia, cornuto è tuo padre. Se vuoi, te la faccio rimorire”.
Quella sera i Panzuti compresero il limite fondamentale della spettacolazione filmica: manca l’interattività.
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