Il crac del 29 a New York |
La grande recessione ha portato via con sé parecchie certezze. Oltre a milioni di posti di lavoro, case, mutui, pensioni, sanità, scuole e università; oltre a molte imprese e qualche banca; oltre a molte vite umane; oltre al mito della stabilità e della crescita come elementi naturali del sistema; oltre al castello di carte dell’economia finanziaria e a un bel pezzo dell’economia reale, la grande crisi ha fatto cascare anche una certa concezione dell’economia. Ossia, quel corpus di idee e teorie prevalenti che hanno dominato sulla scena politica, culturale e accademica negli ultimi trent’anni.
I segnali di questa crisi sono parecchi. Ha cominciato subito la regina Elisabetta, con la sua celebre domanda naif agli attoniti economisti della London School of Economics circa la mancata previsione del crollo (“come mai non se n’era accorto nessuno?”). Ha proseguito l’Accademia di Stoccolma, che dopo il disastro ha fatto uscire per un po’ il Nobel per l’economia fuori dai ristretti confini della teoria mainstream in cui era rimasto, salvo rare eccezioni, per anni e anni; portandolo addirittura dagli algoritmi super-specialistici del mercato al campo interdisciplinare dei “commons”, premiando Eleanor Ostrom e le sue ricerche sulla gestione collettiva dei beni comuni, e così riportando l’economia con i piedi per terra, dentro la società. Se ne sono accorti la comunità scientifica e i media, con una produzione ricchissima di libri e articoli con critiche, autocritiche, processi alla ‘scienza triste’. Nei convegni degli economisti è comparsa la parola “felicità” e il relativo filone di studi ha trovato nuova linfa.
Intanto si è andata allargando al di fuori dell’ambito degli addetti ai lavori la critica alla crescita del Pil come sola misura del benessere delle nazioni: una critica di lungo periodo che ha permeato studi e movimenti, ma che è stata sussunta a livello istituzionale in Francia con la Commissione Sen-Fitoussi-Stiglitz, è entrata anche nei programmi scientifici di istituti di statistica nazionali tra i quali il nostro Istat, ed è diventato argomento ricorrente e persino di moda nella pubblicistica economica. Anche in questo caso è in gioco l’allargamento dei confini dell’economico, e l’ingresso di indicatori di qualità sociale al fianco dei tradizionali indici relativi alla sfera dell’economia intesa in un senso assai ristretto.
Sulla stessa interpretazione della crisi, si sono fronteggiate una versione minimalista, che ha chiamato in causa disfunzioni della finanza e disattenzioni del regolatore, e altre più attente a fattori strutturali globali; queste ultime indagano sul ruolo che la crescita delle diseguaglianze sociali nelle società occidentali ha avuto nell’innescare la crisi del debito, e dunque sottolineano l’importanza dei fattori distributivi, sociali e istituzionali sui fatti dell’economia: riequilibrando così i pesi tra mercato, società e politica, per un lungo periodo decisamente squilibrati a favore del primo.
Si tratta di segnali per un po’ di tempo molto evidenti anche nella percezione pubblica e poi rapidamente dimenticati dopo che la crisi finanziaria è rientrata – grazie al pronto soccorso dei governi – mentre è esplosa in tutta la sua distruttività quella economica – contro la quale l’intervento della politica è stato meno rapido se non assente. Segnali di diversa natura, tutti però concordanti nel mettere in discussione l’assunto che ha nutrito per trent’anni il senso comune dell’economia: quello per cui è l’interesse individuale l’unico motore e l’unica chiave interpretativa dei comportamenti umani nella sfera della produzione e dello scambio. In quest’ottica, il mercato da luogo istituzionale dove si scambiano beni, servizi e denaro diventa centro di gravitazione universale, e l’individuo – l’io isolato al centro della scena economica – il protagonista di un modello che, con teorie e tecniche via via più raffinate, ha sempre continuato a battere sullo stesso chiodo: lasciate fare gli interessi individuali, e la loro interazione ci darà il massimo raggiungibile per tutti.
Una concezione del mondo che pareva fallita e incartocciata negli scatoloni dei broker di Lehman Brothers, e che è stata momentaneamente accantonata proprio dai suoi più accaniti fautori, quando sotto le strette della crisi hanno chiesto e ottenuto un salvataggio pubblico per rimediare ai guasti privati. Salvo poi tornare sani e salvi al “business as usual”, rifiutando innovazioni radicali sulle regole finanziarie e sullo stesso sistema economico. Gli interessi costituiti, o meglio ricostituiti, si sono ripresi la scena, ma non è una gran scena in un mondo occidentale alle prese con disoccupazione, povertà, instabilità, rischi ecologici crescenti e crescenti paure; mentre la politica, alla quale era stato ridato un piccolo scettro nell’emergenza della crisi finanziaria, l’ha subito perso, non sapendo bene come usarlo o non riuscendo a farlo per sproporzione di forze.
È in questo quadro – di macerie ma anche di una transizione potenzialmente fertile – che emergono sempre più nella società comportamenti che sostituiscono il “noi” all’”io”, la condivisione alla divisione, la cooperazione alla frammentazione. Definiamo l’economia del noi come un insieme di esperienze fondate sui legami sociali, nelle quali gruppi di persone entrano in relazione e cercano soluzioni comunitarie a problemi economici, ispirate a principi di reciprocità, solidarietà, socialità, valori ideali, etici o religiosi. Fuori dalla logica esclusiva dell’homo economicus, spesso contro di essa, ma dentro il mercato. Fuori dalla scena politica istituzionale, ma spesso con l’ambizione di portare una propria visione politica nel fare quotidiano. Fuori dall’universo chiuso dei beni proprietari, nello spazio aperto dei beni comuni.
Di esperienze del “noi” la storia del capitalismo è costellata sin dalle origini. Dalle società di mutuo soccorso in poi, è lunga la lista di esempi di quella che Polanyi definiva “l’autodifesa della società” dal mercato, e che gli anti-utilitaristi del Mauss chiamano la “persistenza del dono nelle società moderne”. Lunga, diversificata, e con ondate cicliche. Ha preceduto e accompagnato l’ascesa dell’azione collettiva organizzata nei sindacati e nei partiti di massa, gettando le basi di istituti che sarebbero poi diventati pilastri del welfare state; e ha accompagnato la crisi dello stato sociale, svolgendo un ruolo di integrazione o di sostituzione rispetto ai suoi servizi. Ha prosperato, con le cooperative bianche e rosse del dopoguerra, in epoca di politica “forte”, sorretta da robusti schemi di cambiamento del sistema economico e sociale; ed è ritornata, con gruppi che praticavano modelli alternativi di consumo, di risparmio, di bilanci, in epoca di politica debole, debolissima, a contrapporre alla povertà di vedute di quest’ultima le sue “utopie del ben fare” (per citare il bel titolo di un libro di Giulio Marcon, excursus esaustivo e critico nella storia delle organizzazioni della società civile in Italia). È cresciuta, nel mondo occidentale e anche in Italia, negli stessi decenni in cui a livello politico mondiale le istanze dell’economia “giusta” venivano mandate in soffitta o delegate al mondo della religione o della filantropia.
Adesso, l’economia del noi gode di due fattori congiunturali favorevoli. Il primo è in negativo, ed è nel declino delle fortune teoriche dell’individualismo economico, nella consapevolezza diffusa dell’esaurimento di un modello che ha provocato guasti sociali e sta portando al collasso ambientale, nell’urgenza di un’innovazione di sistema. Il secondo è in positivo, ed è nell’economia della conoscenza: il cambiamento del paradigma tecnologico seguìto alla rivoluzione della rete, che non solo dà ai gruppi (oltre che ai singoli) un formidabile strumento di comunicazione, organizzazione e azione, facilitando la messa in pratica di molti progetti di innovazione sociale; ma che è essa stessa, strutturalmente, un’economia di comunità, fondata sulle relazioni, dove la cooperazione vince perché è più efficace e non solo perché è più buona, e nel quale sono la collaborazione e il dono a produrre valore.
Dai gruppi d’acquisto di quartiere alle nuove comunità del free software, dai gruppi di abitazione o di autocostruzione al coworking, dalle banche del tempo all’economia di comunione, dalle cooperative sociali alla finanza etica: le pratiche dell’economia del noi sono molte, assai diverse tra loro, e diverse sono le motivazioni di chi vi partecipa. Le stesse realtà organizzative possono assumere connotazioni diverse a seconda del contesto in cui agiscono, o del momento storico. Ad esempio, i gruppi d’acquisto solidali, nati sull’esigenza di coniugare consumo ed etica, sono cresciuti esponenzialmente sull’onda delle crisi alimentari e relativi effetti di panico; sono diventati uno strumento molto potente nella riconversione ecologica dell’economia; e hanno modellato i propri caratteri sulle priorità del territorio nel quale operano in organizzazioni che si stanno sempre più strutturando. In Sicilia, dove sono sbarcati non da molto, e più in generale nel Mezzogiorno, stanno sempre più assumendo l’obiettivo della lotta alla mafia come prioritario, e fanno questa lotta con lo strumento principale del consumo critico: il portafoglio. Mentre a Nord, dove sono nati e in massa cresciuti, gli stessi gruppi si sono trovati ultimamente anche a guidare o aiutare il salvataggio di aziende in crisi. E ovunque, la rete dei gruppi d’acquisto ha messo a fuoco i costi e i guasti della filiera lunga della catena che va dai campi al piatto, salvando letteralmente dalla crisi molti piccoli produttori strozzati dalla grande distribuzione. Nel far questo, ha incrociato un movimento d’opinione vasto e crescente e trovando punti di contatto inaspettati con le organizzazioni collettive degli agricoltori. Come la Coldiretti, l’antico granaio democristiano degli anni ’50, ormai conquistata alle parole d’ordine del chilometro zero e protagonista di iniziative comuni con le reti locali dei gruppi d’acquisto e Slow food.
Nel muoversi su istanze non economiche, queste realtà si sono trovate a confrontarsi con alcuni problemi strutturali (e colossali) dell’economia italiana: il peso dell’intermediazione, l’agonia del settore agricolo, i cartelli dei grandi operatori organizzati, l’illegalità e il lavoro nero. La “filiera corta”, oltre che modello sano ed ecologico nel campo agricolo e dell’alimentazione, è diventato bandiera di un più generale movimento di avvicinamento tra chi lavora e chi consuma, chi risparmia e chi presta, valorizzando al massimo il capitale umano delle relazioni tra questi soggetti e allo stesso tempo tagliando tutta la erbaccia parassitaria cresciuta negli spazi di un mercato ben diverso da quella macchina bel funzionante descritta nei libri di testo di economia. Allo stesso tempo, la diffusione di altri stili di vita comunitari – come i gruppi di abitazione, o il coworking – mescola motivazioni economiche e una sensibilità ambientale che in alcune zone del paese e in alcune fasce di popolazione è ormai consolidata. Mentre la collaborazione di massa nel web sfida i modelli produttivi pre-esistenti – soprattutto nel campo dell’economia della conoscenza, ma non solo – e dà alle economie di comunità strumenti potenti per costruire proprie “filiere corte”, facilmente connesse in rete. Strumenti non ancora sufficientemente esplorati dalla società civile, in realtà, soprattutto in una società come la nostra nella quale il divario digitale è sensibile; ma il cui sviluppo è solo agli inizi, e può prendere direzioni diverse anche in relazione alle scelte che si faranno sulla politica della rete.
Anche le motivazioni di chi opera dentro l’economia del noi non sono facilmente riconducibili a uno schema, una linea, un’ideologia. È un altro modo di far politica? Biograficamente, è stato così sul finire del secolo scorso, negli anni ’90, quando in esperienze di “ben fare” si è tuffata parte di una generazione disillusa dalla caduta dei grandi progetti novecenteschi. Ma nel frattempo è successo di tutto, nel mondo e in Italia. La globalizzazione e il movimento no global, il terrorismo e le guerre, la rivoluzione della rete e quella del mercato del lavoro, la crisi della rappresentanza… La dimensione politica dell’economia del noi non è univoca, né è sempre presente. Per molte delle persone che abbiamo incontrato in questo viaggio, è il solo modo di far politica, partendo dalle condizioni della propria vita; per altri, è uno dei modi per occuparsi dell’interesse pubblico prioritario, individuato nella tutela e la gestione dei beni comuni e in particolare del bene comune della conoscenza; per altri ancora, è uno strumento per scardinare un sistema economico che non funziona sin dalla radice, mentre per alcuni è la sola via per salvare lo stesso sistema economico; per i credenti dell’economia di comunione, è un sistema totale di vita e opere; per gli hactivist del free software, è una rivoluzione dei diritti proprietari e dei rapporti di produzione; ma per i partecipanti a un gruppo d’acquisto di frutta o di impianti solari, può anche essere solo una modalità un po’ più sobria – e allo stesso tempo etica – di consumo. È un’istanza morale? Anche, ma non è intesa nel senso della beneficenza, della filantropia. È un fenomeno di nicchia? Non proprio, soprattutto se si guarda allo sviluppo e all’efficacia di forme organizzative basate sulla collaborazione e la condivisione nel settore dei consumi, dell’ambiente e in quello dell’economia della conoscenza. È, nel campo del lavoro, l’ennesima conseguenza della frammentazione sociale seguita a flessibilità e precarietà? Forse sì, ma vissuta cercando nuove forme di relazioni all’interno delle quali agire da soggetti e non da vittime. “Ho scoperto che era più facile aiutare gli altri che me stesso”, non è una frase sentita in una parrocchia, ma all’interno di un gruppo di ex manager che si sono dati, dopo il licenziamento, una particolare forma di mutuo aiuto.
Il racconto di queste esperienze potrà forse aiutare, con le parole dei protagonisti, a rispondere a qualche domanda. Le ho scelte in modo inevitabilmente parziale, seguendo le tracce del “noi” nelle soluzioni quotidiane a problemi economici, cercando di capire i nessi con l’economia e la politica tradizionali, privilegiando quelle con più spiccati aspetti di innovazione sociale, e cercando di narrarne il più possibile l’interazione con il luogo e il tempo in cui si trovano a operare. Per questo più che un saggio è un viaggio in una parte della società italiana trascurata dalla rappresentazione prevalente dei media. La parte di chi cerca di costruire con le relazioni, laddove la crisi economica e quella politica sembrano aver spinto molti a resistere chiudendosi: in casa, in un gruppo identitario, nel proprio interesse. In questo senso, è un viaggio in controtendenza, i cui appunti riportano risorse sociali nascoste e zone di solidarietà, partecipazione, innovazione non adeguatamente valorizzate”.
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