28.4.11

Per le strade di Hanoi (di Alessio Fratticcioli)

Su “micropolis on line” il 30 Dicembre 2010, veniva pubblicato un bel reportage da Hanoi di Alessio Fratticcioli, che, usando come epigrafe un Gaber amato da molte generazioni, con un occhio giovane e non velato dalla nostalgia per Ho Chi Minh e i vietcong tipica dei vecchi militanti, rappresenta una città in bilico tra l’austera tradizione rivoluzionaria e le tentazioni del turbocapitalismo a partito unico alla cinese. (S.L.L.)
“C’è solo la strada su cui puoi contare
la strada è l’unica salvezza,
c’è solo la voglia e il bisogno di uscire
di esporsi nella strada e nella piazza,
perché il giudizio universale
non passa per le case,
le case dove noi ci nascondiamo,
bisogna ritornare nella strada,
nella strada per conoscere chi siamo.”
Giorgio Gaber, C’è solo la strada
Hanoi, dicembre 2010
Me ne vado a zonzo per la capitale vietnamita, tra le viuzze contornate da alberi nodosi. Faccio una camminata fino al Lago della Spada Restituita (Ho Hoan Kiem), il magico cuore della Città Millenaria. Giovani ragazze con bilancieri di bambù si affollano attorno ai turisti cercando di vendere banane e ananassi, che nel loro inglese dolcemente storpiato pronunciano balalà panapò (dall’inglese banana e pineapple). Una donna dall’aspetto intellettuale legge un libro, ha i capelli mossi dal vento, gli occhi piccoli dietro occhiali troppo grandi che sembrano lì lì per cadergli dal naso. Attorno a lei, un nutrito gruppo di ragazze e donne di ogni età nel bel mezzo di una lezione di aerobica non sembrano per nulla imbarazzate nell’indossare tutine attillatissime di fronte ai tanti vecchietti che camminano a fianco per farsi una passeggiatina serale, o forse proprio per allungare i vispi occhietti a mandorla sull’abbigliamento succinto che lascia intravedere i freschi corpi che saltellano. Mi siedo su una panchina di fronte all’isoletta col Tempio della Tartaruga, all’estremità inferiore del Lago della Spada Restituita, ad osservare due vecchi e le loro lente partite di scacchi cinesi. Sono seduti a terra, sopra dei giornali, al riparo di un albero, tra un tè, un frutto e una sigaretta, aspettano la fine di un’altra giornata. È anche per cose come queste che amo Hanoi: a tratti appare ancora come un bastione di puro Vietnam, pervertito e graffiato dalla modernizzazione solo in superfice.

Il cibo
Passo oltre il Lago della Spada Restituita ed arrivo su una stradina del Quartiere Vecchio dal marciapiede completamente occupato da tavolini pieni zeppi di gente che banchetta. In questa città, nessuno si sorprende se vuoi mangiare tre pasti al giorno in strada. Anzi, subito tutti si dimostrano prodighi di consigli “logistici” e in men che non si dica sai esattamente quale sia la strada migliore per la colazione, su quale marciapiede sedersi per un buon pranzo e dove si possa andare a gustare una deliziosa cena a poche decine di migliaia di Dong. Per l’ultimo pasto della giornata il luogo migliore sembra essere Pho Hang Bong. È sempre piena di donne, giovani e vecchi, che seduti su consumati materassini assaporano calamari grigliati e involtini primavera fritti bevendo una birra “Tiger” o “Halida”. Al numero 67 di Hang Bang invece si possono degustare molte specialità di pesce e frutti di mare. Una lunga fila di scooter circonda un gruppo di tavolini con al centro un fuoco sopra al quale bolle un pentolone pieno di granchi esageratamente grandi. Una ragazza lava i piatti sporchi in un secchio sopra un tombino che sicuramente è la porta di casa di varie famiglie di ratti. Nessuno sembra essere minimamente a conoscenza degli avvertimenti delle autorità competenti o degli scandali correlati alla sicurezza alimentare e all’igiene recentemente denunciati da tutti i mass media. Secondo studi ufficiali l’81% del cibo delle bancarelle è contaminato con pericolosi microrganismi come l’Escherichia coli (per gli amici E. coli, un simpatico batterio di origine quasi esclusivamente fecale). In sostanza, buona parte del cibo analizzato non raggiunge gli standard igienici minimi fissati dalle autorità alimentari locali, che immagino siano meno severi di quelli previsti dalle autorità alimentari europee.
Ad ogni modo, la mia passeggiata prosegue poi fino a Pho Trang Tien, la via degli ottici e delle librerie, dove al numero 35 la solita folla di gente è seduta a mangiare il gelato - quelli che non hanno trovato spazio si accomodano sui loro scooter, sono appoggiati al muro o addirittura siedono sull’altro lato della strada. Ne prendo uno anch’io, cercando solamente di evitare il gusto del durian, un frutto dall’odore nauseabondo e dal gusto che resiste in bocca per ore, facendoti maledire quell’attimo di debolezza - del tipo “ma si, proviamo, perché no?” - tipico del turista in cerca di esperienze esotiche. Con il gelato in mano proseguo il mio vagabondare fino a un altro luogo estremamente intrigante, il mercato di Hang Be, al centro dell’affascinante Quartiere Vecchio, con le sue bancarelle di frutta, verdura, pesce e carne, e la sua gente che ci si infila dentro a piedi o in sella a una motoretta, il tutto avvolto in nuvole di fumo e vapori, colori e odori, confusione e vita.

La farmacia
Dal mercato di Hang Be proseguo fino alla strada che più amo nella giungla di Hanoi: via Lang Ong, la “farmacia della città”, posta nel cuore del quartiere Vecchio. Appena mi avvicino, quasi per ricordarmi dove sono arrivato, vengo avvolto da un inconfondibile odore di erbe. In Lang Ong - che prende il nome da una delle più grandi personalità della medicina tradizionale vietnamita, letteralmente: “Signor Pigro” - una moltitudine di erbe esotiche contenute in sacchetti di plastica, gechi e cavallucci marini essiccati, funghi grandi quasi quanto sombreri messicani, cortecce di alberi, fiori e semi sono appesi un po’ ovunque, a invadere tutto il marciapiede. Alle domande sull’utilità curativa dei buffi animaletti esposti come mummie tutti rispondono che cavallucci marini, gechi e altre lucertole essiccate sono ottimi afrodisiaci, come d’altronde altri articoli che mi vengono mostrati più all’interno dei negozi – ci sono peni di serpenti (di dimensioni irrisorie) e una speciale bevanda alcolica contenente anche sperma di capra (non chiedetemi come venga raccolto). Su delle mensole, esposte in bella vista, ci sono bottiglie e bottigliette di alcol con dentro serpenti, scorpioni e altri rettili e insetti. Mi dicono che pezzi di palchi di cervo triturati sono ottimi per il mal di schiena, che le ossa di tigre sono una mano santa per i reumatismi e che la vescica di orso può essere d’aiuto per i problemi di digestione e più specificamente per i lividi.
Dentro qualche negozio, praticanti di medicina tradizionale si intrattengono con alcuni pazienti. Altre persone, nel buio di stanzucce umide dai muri incrostati, sono addette alla macinatura delle erbe. Una consultazione medica generalmente è gratuita, eventualmente il paziente pagherà solamente le erbe di cui avrà bisogno. La ragione filosofica è che la medicina tradizionale “esiste solo per curare, non per portare profitti”. Anche la pubblicità è quasi inesistente, perché - mi spiegano - “sarebbe come augurare alle persone di cadere malate”. Ogni praticante di medicina tradizionale giura che questa è una professione che non ricerca profitto, ma vuole solamente “creare un karma positivo” per colui che cura le persone malate.

Il cesso 
Abbandonata via Lang Ong senza aver acquistato nemmeno uno straccio di cavalluccio marino essiccato, mi incammino verso un’altra strada che amo particolarmente: Pho Thanh Nien (Via della Gioventù), tra il Lago Truc Bach (dove il pilota americano John McCain precipitò con la sua macchina di morte e gli abitanti, invece di linciarlo per essere arrivato dritto dritto dall’altra parte del mondo col solo proposito di sganciare bombe sulle loro teste, lo salvarono da un probabile annegamento trasportandolo a riva) e il grande Lago Occidentale (Ho Tay, che in realtà si trova a Nord del centro cittadino). La romantica Pho Thanh Nien è sempre affollata di coppiette che si baciano sulla riva di uno dei due laghi o che si avventurano in acqua su dei pedalò a forma di cigni. In mezzo a questo paradiso di amore e gioventù, un pomeriggio vidi una donna urinare praticamente davanti a tutti, accucciata su un’aiuola. Che sia un uomo o una donna, su di un prato o ai piedi di un albero, ad Hanoi non è raro assistere a “manovre” di questo genere. Ricordo che un giorno un’elegante giovane donna vietnamita avanzava lungo il marciapiede come una vera principessa, sicura sui suoi tacchi a spillo tanto da sembrarmi irraggiungibile e persino arrogante, ero perso nelle sue grazie, solo la sconvolgente visione di quella Dea che gettava in strada il suo sacchetto di plastica nero, scatarrandoci rumorosamente sopra, ha interrotto bruscamente le mie serene meditazioni.
D’altronde, se la strada può essere utilizzata come un cesso, perché mai i vietnamiti non dovrebbero considerarla anche una discarica?

L’amore
A parte le naturali differenze nella concezione dell’igiene, che spesso è una delle prime cose a balzare agli occhi di un occidentale che arriva in questo Paese, Hanoi rimane una città estremamente romantica, che non può non toccare le corde più intime degli spiriti più sensibili… Forse è anche per questo che a volte le sue strade o i suoi spazi verdi vengono utilizzati a mo’ di alcove. Non è raro assistere allo spettacolo di due giovani che si scambiano un po’ d’amore sdraiati uno sull’altro in terra, su una panchina o sul sellino di un motorino. La carne è debole e spesso le abitazioni sono troppo piccole e troppo affollate per poter godere di un po’ di intimità.

I moto bike
I “cittadini onorari delle strade” di Hanoi, però, coloro che conoscono ogni quartiere, viale, viuzza e angolino remoto, di questa meravigliosa città, sono gli “xe om” drivers, i conducenti dei moto-taxi… dei poveri “cristi” che utilizzano il loro motorino come un taxi. Sono appostati in ogni angolo strategico della città, sono migliaia, forse decine di migliaia (a volte penso sia il mestiere più diffuso tra la popolazione maschile, naturalmente dopo quello di commerciante-negoziante-mercante-rivenditore). Difficilmente si riesce a camminare nelle vie del centro per qualche centinaio di metri senza sentire il loro richiamo – “Sir? Moto bike?” – o le loro profferte di merci illegali, come droghe e “massaggiatrici”. Utilizzare il loro servizio, veramente economico, è un’esperienza generalmente piacevole, ma sempre avventurosa e occasionalmente drizzacapelli. Spesso è richiesta una certa dose di tolleranza nei confronti dell’odore non proprio “floreale” del proprio conducente, ma è di dovere la massima fiducia nelle sue capacità di guida – che a volte vuol dire esclusivamente chiudere gli occhi nel bel mezzo di una gimcana e pregare o imprecare quando si attraversa a sessanta all’ora un pericolosissimo incrocio, denso di auto, motorini, cyclo, bici e pedoni che si fiondano da tutte le parti senza la benché minima nozione del codice della strada.

L’umanità in strada
Nel più celebre romanzo ambientato in Vietnam, The Quiet American di G. Green, i vietnamiti non vengono connotati né positivamente né negativamente, semplicemente emergono per quello che sono, in tutta naturalezza. Lo stesso mi sembra di notare ancora oggi, osservando questo museo di antropologia a cielo aperto che sono le strade di Hanoi. O conoscendo chi nelle strade ci vive.
Ricordo ancora di quella volta in cui passeggiavo per Pho Dien Bien Phu, la strada che dal Quartiere Francese si dirige verso il centro della città, mi fermai sotto il monumento di quel Lenin che ancora si ostina ad indicare un futuro che non è mai arrivato. Iniziai a osservare la differenza tra l’aria eroica di quel monumento in stile realismo socialista e la condizione abietta e quasi disumana dei tanti pezzenti e disgraziati ambulanti. Inaspettatamente venni invitato a bere tè e a fumare da una pipa di bambù, da un gruppo di xe om e cyclo drivers. Quando poi alcuni dei miei interlocutori si alzarono, mi intrattenni a parlare con Nam, un ragazzo di trent’anni che per mandare avanti la famiglia scorrazza in giro la gente sul suo motorino. Mestiere che nonostante tutto alla fine del mese fa intascare qualche decina di dollari in più rispetto al lavoro dei campi. Nam mi raccontò che vive in strada sei giorni su sette, quasi ventiquattro ore su ventiquattro, casa sua dista un’ottantina di chilometri da Hanoi e in genere torna a trovare la sua famiglia solo un giorno a settimana. Il suo letto è il sellino del suo Honda Wave, ma non è triste anzi… “ve tris i mai om” (“the street is my home”) ricordo che mi disse. Fui colpito dalla sua sincerità, dalla naturalezza dell’espressione del suo viso, da quel sorriso semplice e amichevole… proprio come la vita nelle strade di Hanoi.
Sedendo in mezzo a questi uomini vistosamente felici delle loro vite e cercando in qualche modo di scambiare flussi di energia e calore umano, di comunicare e di capire qualcosa delle nostre esistenze, mi sovviene ancora l’attimo in cui scoccò in me qualcosa: improvvisamente mi parve inverosimile l’idea di condurre un’altra vita, di andare da un’altra parte, lontano dal mercato dei fiori vicino alla mia cara via Ngoc Ha e dalla bia hoi di via Ta Hien, dal lago della Spada Restituita e dal Lago Occidentale, dal rumore delle viuzze del quartiere indigeno, dal parco Lenin e dagli odori di spezie orientali del mercato di notte. Non ho più incontrato Nam, ma non smetterò mai di credere che quell’uomo che vive in strada e dorme sopra un sellino è parte di un’umanità forte di un cuore più caldo e di un’anima più felice di tanti milioni di occidentali.

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