Nato come recensione di un’antologia pirandelliana di testi narrativi successivamente trasposti in forma teatrale, questo breve saggio di Clotilde Bertoni, su “Alias” del 9 aprile 2011, è una ricognizione sui diversi modi di questa trasposizione ed aiuta non poco a definire la poetica pirandelliana. (S.L.L.)
Titina ed Eduardo nel "Berretto a Sonagli" (1936) |
La nota abitudine di Pirandello a riprendere in opere diverse gli stessi materiali (un po’ come, secondo le parole di Giovanni Macchia, «un grosso artigiano che tende al risparmio») merita considerazione ulteriore, perché in effetti lontana dal riciclaggio noncurante, radicata piuttosto in un continuo, irrequieto ripensamento sia dei codici letterari, sia delle proprie costanti, ripensamento che prende le pieghe più varie: il vezzo citazionistico, che può essere anche allusione all’accoglienza controversa del proprio lavoro (la prova tempestosa del Gioco delle parti in Sei personaggi in cerca d’autore); l’adattamento di un canovaccio tradizionale a significati opposti (la stessa storia a base di sesso, corna e coincidenze esprime nel Fu Mattia Pascal l’imbrigliamento nelle convenzioni di una soggettività incerta, in Liolà la rivalsa contro le convenzioni di una soggettività piena e solare); soprattutto, le trasmigrazioni di parecchie vicende dalla forma novellistica a quella teatrale. Trasmigrazioni tanto frequenti quanto di tipo difforme, come mostra ora la raccolta Racconti per una sera a teatro, a cura di Guido Davico Bonino (Sellerio, pp. 410, € 14,00), che assembla la maggior parte dei testi narrativi ripresi per la scena, sollecitando riletture e accostamenti che mettono in luce numerose questioni: dalla forza condizionante delle logiche di genere, alla tendenza dell’autore a rinnovare dall’interno l’eredità del passato, a procedere, come rileva Giancarlo Mazzacurati, «più per accumulo che per scarto, più per consumazione e metabolismo che per crisi o rivolta contro i vecchi statuti».
Se la vulgata critica che ha relegato la produzione novellistica pirandelliana in una posizione ancillare è senz’altro ingiusta, alcuni racconti appaiono in effetti ideazioni ferme a uno stadio embrionale, che reclamano un’elaborazione più vasta: da quelli vistosamente protesi verso il palcoscenico (Richiamo all’obbligo imbastisce già lo spassoso tessuto di gag che troverà dispiegamento adeguato nell’Uomo, la bestia e la virtù; il dialogo prossimo al monologo della Morte addosso anticipa da vicino L’uomo dal fiore in bocca); a quelli che contengono trame ancora in germe (Tirocinio abbozza in chiave farsesca l’irrisione dell’ipocrisia borghese che lievita poi nella sardonica amarezza del Piacere dell’onestà); fino a quelli che sacrificano la narrazione a una libera fucina di spunti messi a frutto più avanti (le riflessioni sugli inceppamenti della comunicazione e sulla sfasatura tra l’inappellabilità dei singoli atti e il metamorfismo dei soggetti che li compiono – comprese in Personaggi, La tragedia di un personaggio, Colloqui coi personaggi – preparano il terreno a Sei personaggi in cerca d’autore, ispirandone lo smantellamento, di cui Peter Szondi rimarcherà la valenza epocale, dei canonici intrecci teatrali basati sulla fluidità del dialogo e sulla priorità dell’azione).
Ma molti altri casi sono più imprevedibili, persino disorientanti. Innanzitutto, a volte il confronto tra novella e pièce pone davanti non a un processo di affinamento ma a due differenti, magari ugualmente interessanti, articolazioni di uno stesso tema. Nel racconto La verità la ricorrente demistificazione di una normativa sociale tanto cogente quanto ormai vuota di senso si addensa nella storia insieme grottesca e truce di un delitto d’onore ritenuto dovere imprescindibile ma non sostenuto da alcuna persuasione intima; storia di cui la commedia Il berretto a sonagli altera il corso, trasformando lo sprovveduto protagonista nel sofisticato raisonneur Ciampa, teorizzatore dell’alternanza tra la «corda civile», la «seria» e la «pazza», che erge contro l’aggressione degli eventi un implacabile spirito causidico (esaltato prima dall’istrionismo di Angelo Musco poi dall’understatement di Eduardo De Filippo), e aggira con un beffardo stratagemma gli imperativi del costume.
Inoltre, contro le attese più scontate, i passaggi di codice, anche nella stagione più matura, possono segnare non un’evoluzione ma quasi un arretramento: gli interrogativi inquietanti sprigionati da alcune vicende nella misura duttile del racconto (misura in grado di esaltare la potenza della trama
ma anche di rimpiazzarla con la presentazione di uno spaccato di realtà, di incentrare gli eventi su un finale a effetto ma anche di lasciare il finale in sospeso) nelle versioni teatrali sono talora compressi da esigenze contingenti o dalla necessità di ottenere un impatto immediato sul pubblico. Il racconto L’amica delle mogli svolge una sobria e acre dimostrazione della dipendenza delle passioni dai giochi di ruolo, che nel dramma ben successivo con lo stesso titolo (tra quelli concepiti
in funzione dell’attrice-musa Marta Abba) slitta su toni fiammeggianti e risaputi; la storia della tardiva scoperta di una parte infamante sostenuta inconsapevolmente, che il racconto Tutto per bene cala nelle contorsioni dell’interiorità, nella trasposizione omonima, anch’essa di parecchi anni dopo, è gonfiata e banalizzata dalle nette antinomie scavate tra i personaggi e dal finale consolatorio: l’intermittente tendenza di Pirandello (sconosciuta allo Svevo suo eterno termine di confronto) a controbilanciare la scomposizione umoristica della realtà con la riemersione di sentimenti e valori genuini, sul palcoscenico inciampa non di rado in quegli artifici melodrammatici duri a estinguersi che pure così spesso l’autore confuta o disgrega (una delle loro demolizioni più palesi, il racconto Leonora, addio!, ispira un’altra celebre liquidazione delle vecchie convenzioni teatrali, Questa sera si recita a soggetto). Ancora, il tragitto dalla narrazione alla scena può avere un esito sfrangiato, infondere energia a spunti fievoli ma anche serrarne l’ambiguità in finalità dimostrative troppo pressanti. La situazione schizzata nel racconto La signora Frola e il signor Ponza suo genero (un genero e una suocera che davanti alla curiosità di una comunità paesana danno sull’identità della rispettiva moglie e figlia due versioni tanto impeccabilmente convincenti quanto rigorosamente incompatibili) nell’adattamento teatrale Così è (se vi pare) guadagna certo spessore e verve, anche grazie all’introduzione di un altro personaggio raisonneur, il caustico Laudisi; ma il richiamo al relativismo assoluto della verità, suo senso di fondo, che nel racconto resta implicito, fluttuante nell’assenza di conclusione, nel dubbio irrisolto su «dove sia il fantasma, dove la realtà», sotto le luci della ribalta è esplicitato da una conclusione troppo marcata, da un colpo di scena seccamente didascalico.
Del resto, proprio le increspature, gli sbilanciamenti, le contraddizioni di questi passaggi certificano
al meglio la tormentata tensione dell’autore a adeguare la propria arte a una realtà sempre più tortuosa e dissonante, e la sua capacità di sgominare la tradizione per ricostruirla «in tutt’altra forma, sghimbescia e traballante, certo, e tuttavia straordinariamente resistente e vitale»; come sottolinea adesso la ricognizione appena uscita di Marina Polacco (a cui già si deve uno dei pochi studi significativi sulle novelle), Pirandello (Il Mulino, pp. 158, € 13,00): un saggio insieme agile e densissimo, che sa intrecciare i discorsi generali alle analisi ravvicinate, e i rimandi a studiosi precedenti (da Debenedetti a Luperini a quelli già menzionati) alle intuizioni originali, risultando così al tempo stesso ottima sintesi di taglio divulgativo e nuova, penetrante proposta critica.
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