8.4.11

Quando le radici diventano catene... Per il meticciato alimentare (Loris Campetti)

Il marchigiano Loris Campetti
I giornali,  soprattutto quelli locali, specie in occasione di fiere, mostre e importanti convegni, allegano al quotidiano inserti tematici, che spesso sono strumento per la raccolta di "pubblicità istituzionale". All'abitudine, peraltro, non si sottraggono giornali di sinistra come "l'Unità" o "il manifesto".
Obiettivo principale dell'operazione è, ovviamente, far guadagnare un po' di soldi al giornale. Ne consegue che, in molti casi, quegli inserti sono antologici, alquanto rabberciati, pieni di interviste autoelogiative dei responsabili degli enti pagatori, committenti della pubblicità.
Uno di siffatti inserti si accompagnò al "manifesto" nell'ottobre 2010, in comitanza con il Congresso internazionale dello Slow Food tenuto a Torino. S'intitolava Cotto e mangiato. Tra tanti pezzi e pezzetti assolutamente meritevoli di oblio, anche per carità di patria, ho trovato un articolo del marchigiano Loris Campetti contenente riflessioni ideologiche, politiche e gastronomiche di peso. Ne posto qui la parte che ho trovato più interessante. (S.L.L.)
Isola di San Pietro o Carloforte
Le radici, il territorio, il locale, l’identità, l’appartenenza, la tradizione. Da destra a sinistra, nella politica come nei movimenti, c’è stata una riscoperta di termini “forti” quanto ambigui che possono significare tutto e il contrario di tutto. Succede persino in cucina e dunque a tavola. Quando il baccalà mantecato, il risotto alla milanese o il brasato al barolo vengono alzati come bandiere per rivendicare improbabili superiorità culturali di un territorio nei confronti di un altro, i piatti perdono gusto e si irrancidiscono, le radici diventano catene (metalliche, non alimentari) e passa l’appetito.
Contrapporre alla polenta - su cui Bossi pretende di imprimere il sole delle Alpi – la coda alla vaccinara – che la Polverini pretende di agitare come se le appartenesse – è un’operazione a perdere che fa male alla polenta, alla coda e a tutti noi. E’ difficile decidere se sia più volgare la Polverini che imbocca Bossi o il coro degli accoliti che accompagna l’immondo evento «unitario» cantando «ce piaceno li polli/ l’abbacchi e le galline/ perché so’ senza spine e nun so’ come er baccalà».  Roba, per l’appunto, da «società de li magnacciò».
Insomma, la restaurazione identitaria messa in scena dalla politica fa male alla società perché divide e azzera le conquiste della Rivoluzione francese (libertà, fraternità, eguaglianza), ma fa male anche all’alimentazione, cioè alla cultura.
Questo non vuol dire che i piatti «nazionali» siano progressisti e la cucina regionale reazionaria. Tanto più che i piatti italiani conosciuti in tutto il mondo hanno quasi sempre una tradizione territoriale, e dunque delle radici: vogliamo parlare della pizza inequivocabilmente partenopea, o degli spaghetti al ragù che come sottotitolo hanno scritto «alla bolognese»?
Nel centocinquantesimo dell’unità d’Italia sarebbe utile tessere una tela meticcia per dare un senso, o meglio una chance, a un insieme squinternato nato su basi centralistiche e tenuto appiccicato con l’autoritarismo burocratico, senza nulla concedere alla demenza secessionista. Per restare a tavola, questa tessitura comporterebbe un’audace quanto salutare rottura delle gabbie alimentari. Esaltando i presidi, cari a Slow Food, ma liberandone le eccellenze dalle prigioni territoriali, cioè socializzandole, di conseguenza mescolandole con le eccellenze di altri presidi.
Non stiamo proponendo una versione «unitaria» della nouvelle cuisine ma una pratica antica di meticciato, diffusa in un popolo di navigatori come il nostro.
Per non portarla per le lunghe, è meglio fare qualche esempio. Uno in particolare. C’è un’isoletta nel sud della Sardegna, separata da uno spruzzo d’acqua dall’isola maggiore, che si chiama San Pietro, più nota con il nome di Carloforte. I carlofortini sono una popolazione di pescatori partiti da Pegli nel Cinquecento in cerca di fortuna; sbarcati in questo paradiso mediterraneo si dedicarono naturalmente alla pesca e anche all’agricoltura. Vissero nell’isola felice finché dal Nordafrica (“li turchi so’ sbarcati alla marina”) arrivarono i briganti tabarkini da un’altra isola, non turca in verità ma tunisina) e fecero prigionieri tutti gli infedeli pegliesi di Carloforte per deportarli come prigionieri a Tabarka. Qui restarono sognando la terra promessa finché i Savoia, nel Diciottesimo secolo, ne fecero finalmente una giusta: accolsero il disperato appello dei prigionieri e ne riscattarono la libertà pagando i tabarkini. I carlofortini tornarono alla loro isola con il mandato sabaudo di coltivarla. (Un’altra narrazione esclude che il periodo tabarkino dei pegliesi fosse legato alla prigionia e alla deportazione, nel qual caso l’intervento, questo sì storicamente dimostrato, dei Savoia avrebbe qualche quarto in meno di nobiltà). Grazie alla pesca e alla lavorazione del tonno, questo popolo meticcio è arrivato fino a oggi vivendo più che dignitosamente, orgoglioso delle sue origini così come di quel che è diventato. Di originale i carlofortini, oltre alla lingua hanno la cucina, ricchissima perché «imbastardita» da una storia di conquiste, prigionie e liberazioni. Un piatto tipico, più che italiano mediterraneo, si chiama “cascà” e altro non è che un cuscus a base di verdure, la cui origine è evidentemente nordafricana.
Un piatto tipicamente italiano, invece, è la pasta, naturalmente “alla carlofortina”: la pasta è corta, un misto di orecchiette e minchiarelli direbbero nel Salento e il condimento consiste in un sugo di tonno, neanche a dirlo locale, cotto con il pomodoro e prima di servire in tavola si dà un’ultima mescolata con qualche cucchiaio di pesto a base di basilico anch’esso locale e prodotto secondo la classica ricetta peglina. Il risultato è eccellente ed è la dimostrazione sul meticciato alimentare. […]
Non è soltanto cercando radici meticce che si può esaltare una buona, meno nota e meno identitaria cucina, anche perché la contaminazione, per fortuna, è ovunque: lo zafferano che esalta il risotto alla milanese non si coltiva propriamente lungo il Naviglio o in Brianza ma all’Aquila, o in
Medio Oriente, o in Iran, o in Sardegna. E il merluzzo da cui proviene il mitico stoccafisso cucinato all’anconetana non è stato pescato in Adriatico: il fatto è che gli anconetani sono pescatori e nei tempi dei tempi già navigavano fino ai lontani mari del nord, riempivano le reti di merluzzi e presto si posero il problema della conservazione del pesce, essiccato al sole e al vento, o sotto sale. […]
Bisogna anche avere il coraggio di mescolare ingredienti, ricette e culture diverse, senza strafare, senza voler stupire. Provate per esempio a mettere a fine cottura su un risotto agli scampi - al posto dell’insulsa manciata di parmigiano cara agli istriani che rivendicano la primogenitura di questo piatto – un po’ di zafferano e mi saprete dire.
Per concludere, spesso i piatti della tradizione regionale sono pesantissimi, unti e bisunti e non dal Signore. Qualche intervento sapiente e misericordioso, magari politicamente scorretto, può aiutare. I deliri territoriali lasciamoli alla demenza leghista e al generone romano.

Nessun commento:

Posta un commento