27.4.11

Toghe rosse (da "micropolis" - aprile 2011)

Quello che segue è un editoriale di prima pagina, non firmato perciò collettivo, dal numero di "micropolis" di aprile 2011.
Il processo Tyssen Krupp a Torino

Ancora una volta, nella storia italiana, la magistratura è protagonista.
Lo è stata in particolare in questo mese per i violenti e ripetuti attacchi di Berlusconi e per la sentenza di Torino. Gli ultimi colpi sferrati dal Cavaliere e dai suoi sodali sono stati così forti da suscitare la ferma reazione del pur cauto Presidente Napolitano che in merito ai famigerati manifesti milanesi di Lassini ha scritto di una situazione “al limite dell’esasperazione” e di “pericolo di degenerazioni”. Una preoccupazione, se ci è concesso, proprio per l’istituzione che l’ha espressa, ancora più allarmante di quella gridata da Alberto Asor Rosa dalle colonne de “il manifesto” che, al di là di ogni valutazione della proposta in essa contenuta – che tanto per essere chiari non condividiamo – ha avuto l’indiscusso merito di squarciare un velo di ipocrisia facendo uscire tutti allo scoperto.
Berlusconi è cotto; no, è ad un passo dal trionfo definitivo. Messa in questi termini la discussione rischia di assumere contorni da Bar dello Sport e tuttavia tanti e tra loro contradditori sono gli elementi che consentono di leggere quanto sta avvenendo nell’uno o nell’altro modo. Di certo - e lo scriviamo alla vigilia del 25 aprile, all’indomani per chi legge - non è buona cosa che a svolgere il ruolo di primo “resistente” vi sia la magistratura e non la politica, né ci consola il fatto che tale supplenza non sia una novità del presente. Supplenza che, come dimostra la sentenza di condanna della Tyssen Krupp per il rogo di Torino, si esercita anche in campo sociale. 
Una volta le morti sul lavoro si chiamavano “omicidi in bianco”, a sottolineare che non si trattava di fatalità, ma che avevano dei responsabili; e che gli assassini non vestivano tute blu o grigie, ma camicie e camici d’immacolato candore. Erano padroni, dirigenti, capi e tecnici, responsabili di un’organizzazione del lavoro e di un sistema di sfruttamento della manodopera che non esitava a sacrificare vite umane sull’altare del massimo profitto.
Poi l’espressione si modificò in “morti bianche” e, come accade, le parole anziché significare la cosa cominciarono ad occultarla, come se quelle disgrazie fossero incruente e non avessero colpevoli. Oggi la sentenza sulle morti alla Tyssen Krupp di Torino “raddrizza i nomi” e definisce “omicidio volontario” le scelte di quei manager che obbligavano gli operai a produrre in uno stabilimento obsoleto e pieno di trappole, pur consapevoli dei rischi gravissimi che facevano correre loro.
Molti, nel mondo politico e sindacale, hanno giustamente parlato di “sentenza storica” e perfino nel campo governativo e padronale più d’uno ha dovuto a denti stretti riconoscere che la sentenza getta un fascio di luce su un’intollerabile carneficina.
A Terni però, ove si concentra la produzione degli acciai speciali Tyssen Krupp dopo la chiusura dello stabilimento torinese, non è stato così: si è parlato di sentenza ingiusta, di pene eccessive, di rischi per l’occupazione, con larvate accuse di irresponsabilità verso magistrati e giudici.
Ha cominciato il sindaco, di centrosinistra, Leopoldo di Girolamo, che a caldo ha dichiarato: “Mi sembra che la giustizia sia stata ingiusta e abbia calcato troppo la mano”; e ha definito la sentenza “punitiva nei confronti dell’azienda e dei lavoratori che ora si troveranno in difficoltà”. Poi ha attenuato la forma, ma non la sostanza. Dopo il sindaco sono intervenuti il presidente della Provincia, consiglieri regionali e comunali di diversi gruppi, sindacalisti, tutti a dichiarare amore alla Tyssen Krupp e a chiederle di non andare via; non senza una qualche parola di pietà per i sette morti, resa scopertamente ipocrita dal contesto.
La cosa è rivelatrice di un milieu “corporatista”, in cui istituzioni locali, politica e organizzazioni sociali appunto “fanno corpo”, sotto la guida della multinazionale. E’ sintomatico che, perfino nei sindacalisti Cgil locali che difendono la sentenza, l’attenzione prevalente è ad eventuali ripercussioni sui piani d’investimento.
Così i politicanti del Ternano (ma altrove non è diverso) si attestano sulla linea un tempo craxiana, oggi berlusconiana in materia di giustizia. La magistratura – disse Craxi a proposito dell’arresto del banchiere Roberto Calvi - usi il pugno di ferro con i delinquenti di strada e (entro certi limiti) con le organizzazioni criminali, ma non osi toccare il governo, i poteri economici, i poteri finanziari, perché con tale irresponsabilità creerebbe disastri al paese. E’ la stessa ottica della “riforma Alfano”, con cui politici come Di Girolamo sembrano d’accordo.
In ogni caso siamo messi male. Molte battaglie sociali sono ormai delegate alla magistratura o alla parte di essa che intende resistere alla “normalizzazione” in atto, cioè alla piena sottomissione del lavoro.
Di fronte agli incidenti mortali in fabbriche e cantieri dell’Umbria, per esempio, da parte dei sindacati e degli enti locali, ormai si reagisce solo di fronte ai più clamorosi, quasi sempre insistendo sulla “cultura della sicurezza”, che scaraventa il peso del dramma sugli operai “incolti” e ignoranti o reclamando “protocolli sulla sicurezza”, forse utili, ma certo non risolutivi.
Il sindacato non sa più o forse non può più proporre controlli dal basso sulla nocività dell’ambiente, come su ritmi e straordinari che spossano, aumentando di molto per gli operai la possibilità di essere vittime di omicidi in bianco.
Dei partiti è meglio non dire.

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