10.5.11

Bestialità. Un mio racconto fantastico (1999).

Questo racconto fantastico, inedito, si può fare risalire - anno più anno meno - al 1999. L'immagine è tratta dal sito di Chianti Cashmere ( http://www.chianticashmere.com/Homepage/ ). (S.L.L.)

1.
“Il signore Gesù, uscito un giorno per strada, vide dei ragazzi che si erano radunati per giocare e li volle raggiungere. Ma essi si nascosero. Giunto alla porta di una casa il signore Gesù vide delle donne e le interrogò dove mai fossero fuggiti i ragazzi. Esse risposero che quivi non c’era  alcuno; allora il signore Gesù le interrogò: quelli là che si muovono nel forno, chi sono? Avendo esse replicato che si trattava di capretti di tre anni, il signore Gesù esclamò dicendo: venite qui, capretti, presso il vostro pastore. Allora i ragazzi, sotto forma di capretti, uscirono e presero a saltellare intorno a lui”.
“Piene di ammirazione e tremanti di paura, alla vista di ciò, quelle donne si diedero subito ad adorare supplichevoli il signore Gesù, dicendo: o signore nostro Gesù, figlio di Maria, tu sei proprio il buon pastore di Israele. Abbi misericordia delle tue ancelle che ti stanno di fronte e mai dubitarono: tu, infatti, signore nostro, sei venuto a sanare non a perdere. E, avendo Gesù soggiunto che i figli di Israele sono come gli Etiopi in mezzo ai popoli, le donne dissero: tu, signore, sai tutto e non c’è nulla che ti sia celato. Ora noi ti preghiamo e chiediamo alla tua pietà di restituire a questi ragazzi, tuoi servi, il loro pristino stato”.
“Rispose dunque il signore Gesù: su, ragazzi, andiamo a giocare! E immediatamente alla presenza di quelle donne, i capretti si mutarono in ragazzi”.
Così il Vangelo arabo sull’infanzia del Salvatore. Ma non la racconta tutta. Uno di quei ragazzi, trasformato in capretto nero, non aveva voglia di saltellare attorno a Gesù, preferiva farlo per conto suo, si allontanò per balze e fratte e non se ne seppe niente, anche perché, orfano di padre e di madre, non c’era nessuno che avesse un vero interesse a cercarlo.

2.
Nella novella di Pirandello Il capretto nero c’è molto colore locale.
Vi si descrive la Valle dei Templi non ancora devastata dalla speculazione edilizia con le greggiòle di capre che vengono “a stendersi e a ragumare il magro pascolo all’ombra solenne dell’antico tempio della Concordia, integro ancora” e  “il caprajo, bestiale e sonnolento come un arabo, che si sdraja anche lui sui gradini del pronao dirupati e trae qualche suono lamentoso dal suo zufolo di canna”. Ben s’intende perché a molti visitatori inglesi sembrasse “non privo di poesia” il riposo delle capre nei templi “ormai solitarii in mezzo al grande e smemorato abbandono della campagna”.
Nella valle la giovanissima e vivacissima miss Ethel Halloway, figlia di un pari, chiede ed ottiene che le sia comprato un tenerissimo capretto nero, con cui ha giocato sui gradini del tempio. Se lo porta in albergo. Poi parte, per la Grecia, e da lì per l’Egitto e dall’Egitto per le Indie. Dopo otto mesi di viaggio, tornata a Londra, scrive per farsi spedire il capretto, ma le arriva un orribile bestione cornuto, fetido, tutto incrostato di sterco e di mota. 
Ma neanche Pirandello ce la racconta tutta.
In realtà la nera zampettante bestiolina che rabbrividiva dello spettacolo della vita, diventata poi l’immondo caprone imbarcato sul mercantile, era discendenza diretta, per linea paterna, del capretto fuggito a Nazareth. Miracolo nel miracolo: da mille e novecento anni accadeva che tra la prole di un nero caprino crescesse un capo perfettamente identico a lui e che questi a sua volta ne generasse un altro identico a se stesso e al padre e così, di secolo in secolo, senza bisogno di clonazioni e simili. Ancora più sorprendente era che l’Identico, generazione dopo generazione, sopravvivesse a macellazioni pasquali precoci, carestie, epidemie, migrazioni e trovasse sempre il modo di impregnare di un altro se stesso una fattrice.

3.
Sbarcato nella perfida Albione, rifiutato dalla miss, il caprone akragantino di Pirandello fu regalato ad un piccolo allevatore di pecore merino in un borgo del Galles. Incerto sulla sorte da riservargli, questi lo aggregò provvisoriamente al suo gregge. Non lo avesse mai fatto! L’animale  si scatenò e, senza tenere in alcun conto le differenze di specie e di razza, montò ed ingravidò in un solo pomeriggio tutte le pecore in età.
Quando il britanno s’accorse del disastro, s’incazzò come una bestia e afferrò un coltellaccio per scannare senza pietà il colpevole per la sua sudicia libidine. Passava da lì un gentleman, patito di zoologia, che, reso edotto dell’accaduto e curioso di sapere cosa ne sarebbe venuto fuori, persuase l’allevatore a risparmiare il caprone e ad attendere i frutti della sua impresa, con la garanzia di ristorarlo di ogni danno eventualmente subito con un lauto indennizzo.
Ne vennero fuori mirabilie. I teneri feti delle pecore, ad onta di ogni mendelismo, erano tutti femmine, tutti agnelline, senz’ombra di caprinità, e fin dal primo impelamento esibivano una lana morbidissima e ad un tempo di tempra robusta,  tutta di un colore, un grigio medio tutt’altro che smorto, con un sentore di viola, pervinca e lilla, di calendula e zafferano, che lo rendeva strepitoso.
Il gentleman e il pecoraio temperarono lo stupore con l’imprenditorialità. Arrivarono trecento nuove pecore da fecondare. Al caprone, di nuovo libero di scorrazzare nel gregge, non sembrava vero, ma ci mise più di due mesi.
Nelle Langhe i contadini calunniano il caprone, insinuano che, quando una bestia non sa lavorare e si tiene soltanto da monta, diventa distruttiva e va strettamente sorvegliata. Ma il nostro caprone veniva dal Sud ed era, pertanto, un gentiluomo vero; con quelle pecore era andato una volta soltanto, eppure la sua gratitudine rimaneva eterna: le guidava ai pascoli migliori, le assisteva nei malesseri, le proteggeva dai pericoli meglio di un cane.
Quando sgravarono, i nati erano di nuovo agnelline tutte grigie, fuorché uno, uno scalpitante capretto nero. Fu registrato l’ibrido con il nome di Girgenti’s goasheep, come a dire “capecora di Girgenti”, e si avviò la produzione di filato e di tessuto, grigi senza artifici. La qualità era eccelsa, anche per l’inimitabilità del colore, ma la quantità obbligatamente limitata. Le capecore, come capita sovente ai bastardi, erano senza eccezione sterili e, dopo le prime esaltanti performance, il bestione si era impigrito e non provava più interesse per le pecore. Tentarono di stuzzicarlo con le capre, ma niente. Forse si saziava di ricordi.
Bisognò attendere che crescesse l’erede, ma fu la stessa storia: tre o quattro mesi di iperattività e poi un anticipatissimo stato di quiescenza.  Così tutti quelli che vennero dopo.
Il pregiatissimo prodotto rimase pertanto appannaggio esclusivo dei grandi della terra e delle loro donne, ignoto ai più, quasi coperto da segreto. Anche ai grandi, del resto, re, principi, capi di stato, granduchi, generali, ammiragli, capitani dell’industria e della finanza, veniva concesso in quantità assai ridotte, data l’esiguità delle scorte.
Solo a Mao Tse-tung se ne forniva con una certa abbondanza. Il Grande Timoniere indossava sempre la divisa dell’Esercito di liberazione, il cui taglio era di spartana semplicità, ma, raffinato com’era, esigeva che il tessuto non fosse altro che  “lana capecora di Girgenti”.

4.
All’inizio degli anni sessanta una nuova classe dirigente comunista si stava affermando nelle città e nei paesi della Toscana: erano quelli che ventenni avevano fatto i partigiani, ma poi, nel partito, avevano dovuto cedere il bastone del comando ai vecchi, ai fuorusciti.
Per fortuna erano venuti l’ottavo congresso, la via italiana al socialismo, la cacciata di Secchia, il rinnovamento nella continuità. Finalmente toccava a loro. Così, in massa, furono  promossi dirigenti di prima fila, nelle federazioni e nelle organizzazioni di massa, e diventarono deputati, assessori, sindaci.
Amendola, che dal centro curava la selezione e la formazione dei quadri, pretendeva che, soprattutto nelle zone rosse, i nuovi non fossero soltanto buoni agitatori o, peggio, indottrinati pappagalli dell’ideologia, ma esperti di economia, legislazione, produzione, in grado di affrontare i problemi materiali del popolo lavoratore. Tollerava che nelle scuole di partito si trasmettesse in pillole un po’ di catechismo marxista, ma pretendeva che anche lì ci si applicasse leninianamente all’analisi concreta di situazioni concrete. Non riusciva tuttavia ad impedire che andassero a fare tirocinio a Mosca, per tre mesi, sei, o addirittura un anno. Alcuni tornavano rimbambiti, altri ammogliati, ma ce n’erano tanti che usavano quel soggiorno come una lunga, rilassante vacanza e dal paese dei Soviet riportavano dilettose memorie di Katiusce e di Irine, giovevoli a tirarli su nel duro lavoro di organizzazione e di realizzazione che li attendeva in Italia, non privo di gratificazioni, ma pure alle volte noioso e stancante.
Birocci, trentacinque anni nel 1960, era uno dei “giovani” su cui più si puntava nei paesi toscani del pecorino. L’origine di classe era di tutta tranquillità: figlio di mezzadri aveva partecipato in gioventù alle attività della fattoria e nel 46 aveva fatto anche l’operaio, per due mesi, in una fornace di laterizi. Non aveva pertanto le fisime dell’intellettuale piccolo borghese, ma una grande curiosità e una grande voglia di fare: tendeva forse alla semplificazione, ma questo non era necessariamente un male.
Nei tardi quaranta e nei primi cinquanta aveva fatto la gavetta del funzionario, s’era guadagnato la pagnotta con i bollini delle tessere, aveva dormito in sezione avvolto nella bandiera rossa, aveva saltato molti pasti, aveva battagliato con parroci ed agrari, aveva chinato la testa di fronte a federali e responsabili organizzativi prepotenti e stupidi.
A Mosca era stato due volte, per un anno intero nel 52-53 e per sei mesi nel 58, e aveva imparato benissimo il russo. Di quel mondo non capiva tante cose e molti aspetti dell’organizzazione produttiva della grande patria socialista più che illiberali gli apparivano insensati. In compenso c’erano gli Sputnik e Nikita Khrushev, il grande rinnovatore.
Nel 1960, appunto, Birocci fu scelto per fare il sindaco nel suo paese, al posto dello stalinista che aveva occupato quel ruolo per quindici anni, un omarino di un metro e sessanta, secco e livido, che tutti intimidiva con la sua glacialità siberiana e sembrava ritrovare un minimo di socialità solo nel caloroso vinello di Toscana, che peraltro trangugiava assai di rado.
Birocci inaugurò un nuovo stile: parlava anche con i peggiori avversari e con gl’imbecilli, giacché anche loro votano e in tutti si può trovare del buono; si interessava di ogni problema, delle strade interpoderali come delle fogne, della nettezza urbana come dei certificati di nascita, dei cantieri scuola come dell’Eca, suscitando le lamentazioni di qualche assessore a cui toglieva spazio. Ma al popolo questo suo attivismo piaceva.
Per la festa del Battista, patrono del paese, il 23 e 24 giugno, si teneva in un grande spiazzo sul fiume una fiera del bestiame. Vi si vendevano soprattutto pecore e montoni, ma anche mucche, cavalli, maiali, billi, colombi, conigli e vario pollame. Birocci, fin da bambino innamorato di quella fiera, era deciso a farne una cosa grande e moderna, con la partecipazione di allevatori da tutto il centro Italia, con l’immissione nel mercato di razze nuove, più redditizie, convegni di zootecnia, macchine agricole, aste e concorsi.
Convinse i capi degli allevatori della zona, tutti democristiani, e con loro andò ad Arezzo, da Amintore Fanfani, per un adeguato finanziamento. Al cavallo di razza, che era tornato al governo dopo la crisi di luglio, non sembrò vero di poter fare un favore a un sindaco rosso, garantendosi nel contempo la gratitudine e la fedeltà elettorale dei suoi. La non ostilità dei comunisti era infatti un tassello importante della sua risorgente ambizione presidenzialistica. Prese pertanto l’impegno e lo mantenne.
Il 22 giugno del 1961 il nastro fu tagliato nientemeno che dal Presidente del Consiglio e c’erano fanfare, granatieri, il Vescovo, i padiglioni ricoperti di Eternit e tante, tante bestie. Il Sindaco andava dicendo in giro che la cosa più importante di tutta la fiera era l’asta e che lui personalmente aveva preparato per gli allevatori una sorpresa.

5.
Nell’ultimo soggiorno moscovita Birocci aveva conosciuto un giorgiano, uno del giro stretto di Stalin, una specie di domestico o segretario. Avevano fatto amicizia, ma, malgrado le insistenze, nonostante la vodka ed altri ammennicoli, mai niente aveva voluto confidargli dei misteri del palazzo. Nutriva un timore matto della Siberia. “Lì non c’è disgelo”- diceva.
Ma del Maresciallo - così lo chiamava - parlava con malcelata simpatia ed un segreto, uno solo, lo rivelò. Il baffuto dittatore, quando vestiva in borghese, indossava assai volentieri un completo di lana grigia naturale, specialissima, che veniva dall’Inghilterra. Se ne faceva allestire uno all’anno e dai ritagli dello stesso tessuto faceva confezionare anche una gonnellina che regalava ogni Natale alla figlioletta Svetlana.
Questa rivelazione aveva non poco incuriosito Birocci tant’è che, tornato in Italia, alla prima occasione, volle parlarne con la persona giusta. Conosceva un sensale di bestiame espertissimo, di Bastia Umbra, Leopoldo Cortellini. Comprava e vendeva soprattutto suini, ma pare che sapesse tutto di ogni specie, razza e varietà di animali di allevamento.
Leopoldo non ebbe esitazioni quando Birocci gli parlò degli abiti di Stalin: era lana di capecora gallese, un incrocio infecondo tra fattrici merino e una specie di caprone di cui tutto si ignorava, se non che dovevano essercene pochissimi e poco efficienti, data l’eccezionale rarità del filato.
Ma Birocci si era fissato al punto che, quando si trattò di organizzare l’asta per la fiera, mandò a chiamare il Cortellini e gli propose di provvedere all’acquisto, per conto del Comune, di un riproduttore di capecore.
Leopoldo si diede da fare, più per l’amicizia che per il guadagno, e riuscì a rintracciare nel Galles gli eredi del pastore e del gentleman fondatori dell’azienda. Gli inglesi stramaledetti non mostrarono per l’occasione alcuna correttezza commerciale. Recitarono una commedia truffaldina, dissero di avere soltanto tre caproni in età da monta, ma non dissero di averne solo uno efficiente, finsero di tirare sul prezzo, pretesero che nel contratto di vendita fosse inserita una clausola che inibisse gli incroci con merino e Leopoldo, pur espertissimo, ci cascò. A trattativa chiusa e contratto firmato, per cinquanta milioni di allora gli consegnarono, impacchettato e in perfetto stato di conservazione, il becco che non fotte.

6.
Gesù ogni tanto si stufava di starsene lassù, nel più alto dei cieli, e si reincarnava. Era stato mandarino alla corte dei Ming, sguattero nella cucina di Filippo II, calzolaio a Madera, guardiano di porci, caporale nell’esercito napoleonico, nostromo su una nave pirata. Ma in tutte queste parti non aveva mai esibito miracoli, né provocato adunate oceaniche con le prediche, né conseguito trionfi, né reclutato seguaci. Aveva preferito mimetizzarsi tra gli umili e i semplici. E non si era fatto crocifiggere.
Ora faceva il banditore e il battitore nelle aste del bestiame, ed era il migliore di tutta Europa. Italiano ma poliglotta, lo chiamavano in Normandia come in Stiria, per i cavalli come per le capre, non soltanto per la conoscenza degli animali, ma più ancora per la conoscenza degli uomini, per la sua capacità di sedurre, di eccitare in ciascuno degli allevatori la voglia matta della bestia. Era scontato che per la fiera di san Giovanni chiamassero lui.
Non usava passare in rivista gli esemplari, gli bastava consultare gli appunti del venditore durante il bando, poi le parole le trovava lui; ed era sempre la verità. Del resto, non l’aveva creata e non continuava a crearla lui, la verità?
Giunse al mattino e volle prendere un bagno nel fiume. Poi si mise a passeggiare con un altro banditore, un druso libanese stranamente umile che aveva accettato di fargli da spalla nell’asta. Gesù era alto, biondo, barbuto come nei quadri e la sua pupilla fiammeggiante d’amore ispirava in tutti fiducia, sicché il suo occasionale compagno, violando il segreto, s’era messo a raccontargli la dottrina della metempsicosi propria della sua setta. Lo stimolavano il Chianti, peccaminosamente bevuto di prima mattina a somiglianza dei pecorai presenti in gran numero, e l’abbondanza degli animali nei capannoni e nelle gabbie all’aperto. Dai  loro comportamenti credeva di indovinare i mestieri e i vizi in precedenti vite umane. Di altre bestie diceva che sarebbero a loro volta diventate uomini e che gran parte del loro umano destino poteva leggersi nei movimenti delle code applicando una sorta di divinazione.
L’altro stava ad ascoltarlo con curiosità ed attenzione: mostrava di prestare fede a fregnacce di tal fatta. Era il frutto di una distrazione programmata: se sempre avesse tenuto aperto il gran volume dell’Onniscienza, si sarebbe annoiato da morire. Per questo gli dava gusto incarnarsi; uomo tra gli uomini, poteva abbandonarsi alle loro favole, alle loro sciocche elucubrazioni, alle loro poetiche superstizioni, ai loro castelli d’ombra e di fumo, ed avere l’impressione di crederci, come capita ai pargoli quando aspettano il regalo dei morti, del bambino o della befana, come capita ai personaggi delle commedie, ai giocatori del lotto, o ai filosofi: non è vero ma ci credo.
Così arrivarono all’ora del pranzo.
Tutto sembrava ben organizzato, alla sovietica. Un solo turno per il pasto, i tavoli già pronti dal mattino, con tovaglie e tovaglioli quadrettati, con piatti, posate e bicchieri di varia foggia e colore, presi a prestito dagli allevatori locali. I centoventi posti su rustici panchetti erano numerati e per entrare e sedersi bisognava mostrare il  buono, anch’esso numerato, ritirato nell’improvvisato botteghino dell’organizzazione, dopo una coda snervante anche per i primi, visto che gli incaricati se l’erano presa comoda. L’attesa, per tanti, era stata ulteriormente allungata dalle innumerevoli questioni intorno alle gratuità per gli espositori, che pretendevano di far mangiare gratis le loro famiglie allargate per il solo fatto di aver portato due pecore e pagato la quota. Era intervenuto il sindaco in persona a sedare i tumulti, con una soluzione anticipatrice dei tempi a venire: tutti pagano, nessuno escluso, ma l’espositore paga due e prende tre. Molti comunque erano rimasti senza biglietto, dopo aver aspettato lì due ore buone, e se non avevano perso la pazienza era perché, lì presso, un omino, a prezzi stracciati, distribuiva fettoni di pane toscano imbottiti di prosciutto e pecorino fresco e, venti metri più in là, due produttori offrivano in assaggio gratuito il loro vino rosso, in bicchieri piccoli, ma raddoppiabili.
Per i banditori non c’erano stati problemi, ai loro tagliandi aveva provveduto l’organizzazione: numeri 10 e 12. Si erano presentati, puntuali, all’una, ma il servizio non sarebbe cominciato se non quando tutti, o quasi, i commensali avessero preso posto, e i ritardatari, secondo il rito italiano, non mancavano.
Per ammazzare il tempo il druso propose un esperimento geomantico: “Cosa vuoi sapere del futuro?”.
Gesù rispose, tra sorpreso e indispettito: “Io? Qui? Io non voglio conoscere il futuro”.
Ma l’aiutante insisteva: “Qui o in un altro posto è lo stesso. Deciderò io la questione: se farai o no una buona asta”. Val la pena di precisare che i battitori lavorano a percentuale.
Gesù così si lasciò trascinare a tracciare su una pagina di quaderno un numero a sua scelta di trattini verticali, da 13 a 21 per ciascuna delle sedici righe, come gli veniva richiesto, ma scartò decisamente il tredici. Quando gli fu consegnato il foglio, il druso, con abile rapidità, collegò con il lapis i trattini a due a due, poi su un altro foglio disegnò una sorta di scudo, con interne sezioni rettangolari, su cui, secondo misteriose regole, andava collocando stelline e cerchietti.
“Le case decisive - proclamò - su questo tipo di questione sono la prima madre, la seconda figlia e il testimone di destra. Il giudice se ne lava le mani”. Il banditore sembrava turbato e lo fu ancor più quando il libanese aggiunse: “Le figure sono ambigue, di incerta interpretazione. Sulla madre c’è una Coda di Dragone che sembrerebbe buona, ma sulla figlia c’è il Carcere e sul testimone di destra il Popolo che può essere amico, ma anche nemico”.
L’interpretazione ad alta voce fu troncata da un arrivo. Col numero 11 veniva a sedersi tra i banditori una pastorella ricca di fiorini e di malìe, generosa di cosce, di petto e di fianchi, vestita alla zingaresca, con un coloratissimo fazzoletto sul capo.  Senza alcun timore o riverenza, anche perché conosceva l’abituale remissività del druso, acchiappò i foglietti dalla tavola e li appallottolò. Rivolta a Gesù disse: “Codesto è un grullo. Che lo stai a sentire? Ti farò io i tarocchi”. Prese posto e da un tascone sulla lunga gonna tirò fuori un mazzo di minchiate fiorentine, forse antiche, sicuramente vecchie e bisunte, con tre millimetri di grascia sugli orli, spostò piatti e posate, fece il mischietto e cominciò a sistemate le carte sul tovagliato bianco e blu: “Ahimè, - esclamò - c’è l’appeso!”. Il bel volto barbuto si fece scuro: “Ci risiamo”.
Per fortuna anche la mantica nostrana venne interrotta. Arrivavano le pietanze, il primo dei due primi, la ribollita, servita da una ridente fanciulla. L’inflessibilità dell’organizzazione l’aveva fatta freddare, ma aveva una bella faccia. “Basta! - disse Gesù - mentre si mangia non si parla”. Tolte di mezzo le carte, tutti immersero i cucchiai nel piatto. Era buonissima, nonostante tutto, in grazia dell’olio, quant’altri mai santo.
La seconda portata erano i pici, con un ragù denso, saporito e raro, di cinghiale, come sentenziarono gli esperti. E intanto che silenti gustavano quel ben di Dio, Gesù tagliava una fetta di pane in tocchetti simili per forma e dimensioni al pezzo lungo delle costruzioni di legno, li inzuppava nel vino e li succhiava, come taluno fa coi diti, estraendone l’anima rossa, la linfa vitale che lui stesso vi aveva introdotto. Tutto molto maleducato, ma la  mobile felicità del viso, la luce allegra degli occhi facevano obliare agli astanti gesti e rumori e li trasportavano dritti dritti, se non in paradiso, almeno in Olimpo, tra le ambrosie.
Quando i grezzi e ruvidi pici, così intimamente impregnati di sugo, furono tutti ingoiati, il signore spezzò con le sue mani la spaccata di pane che stava integra nel canestrino e, dalla porzione crostuta che ne prese, ricavò tozzetti irregolari e ne fece scarpetta fino alla ripulitura integrale del piatto da ogni traccia d’intingolo.
Fu distribuita la grigliata mista, preparata su enormi bracieri all’aperto da tre omoni accaldati in grembiule. Su ogni piatto veniva collocato un terzo di bistecca di chianina, un rocchio da cinque di salsiccia mista di maiale e cinghiale ed agnello a volontà, costolette, tocchetti di coscia, di spalla, col grasso croccante e trasparente, fumanti, impepati. Gesù lasciò volentieri al druso la ciccia vaccina al sangue e l’insaccato e sacrificò lo scottadito d’ovino, accompagnandolo con abbondanti libagioni. Volle fare anche un brindisi, ma non disse che “Prosit”.
Rapidamente i piatti si vuotarono, ma in alcuni rimase, vedovella negletta, l’insalata di lattuga romana.
Per il dessert, secondo l’uso volgare, venne servita  prima la frutta: ciliegie, amarene, albicocche a lavarsi nell’acqua di grandi conche in Moplen. Poi arrivò il dolce, un tortino di pasta frolla farcita di una crema speciale, ricotta di pecora a lungo lavorata di forchetta con lo zucchero, una vaghezza di cacao e una scorza di limone tritata; e arrivarono i bicchierini di vinsanto ed i tozzetti.
A questo punto fece ingresso il Birocci. Aveva pranzato in casa, un po’ perché in quel tempo dai comunisti era considerato disdicevole approfittare dei pubblici incarichi per mangiare a sbafo, un po’ per non lasciare troppo sola la moglie, bellissima, stupenda massaia, ma riservatissima e perciò del tutto restia a partecipare a pubbliche manifestazioni. Si guardò intorno come per cercare qualcuno, poi deciso si avviò al tavolo dei banditori dicendo: “Ecco l’uomo!”.
Era Gesù che cercava. Poiché voleva essere certo che l’asta andasse nel modo desiderato, chiese se avesse visionato gli animali e, al suo diniego, lo invitò pressantemente a farlo, data l’eccezionalità dell’occasione: “Ascolti. I capi messi all’asta dai privati, sono stati selezionati dall’associazione degli allevatori e sono certamente ottimi esemplari. Ma sono bestie normali, che lei ha avuto modo di battere tante altre volte e saprà presentare nel migliore dei modi. Quelli offerti dal Comune sono tutt’altra cosa. Sono specie rare e qui da noi sconosciute, e potrebbero fare l’avvenire dei nostri ragazzi. Ci abbiamo impegnato tra l’una e l’altra settanta milioni. Non importa di rientrarci con le spese, ma che finiscano in buone mani, di gente esperta e appassionata, meglio ancora se del posto”.
Il banditore non poté negarsi.
Nel congedarsi Birocci aggiunse: “Mi raccomando: il caprone nero!”.
Gesù rispose: “Abbia fede e vada in pace”. Poi chiese del caffè.

7.
Sulle aste del bestiame ci sono due partiti. C’è chi pensa che tenere in mostra l’animale prima del bando agevoli la vendita. L’allevatore lo osserva, ne ammira la bellezza, ne segue i movimenti, lo fissa negli occhi e si innamora alla follia, desidera portar via quell’incanto, farlo suo, ad ogni costo. Ma ci sono quelli che, sapendo di non essere all’altezza, cominciano a denigrare, a scoprire difetti veri o presunti, nei garretti, nelle zampe, nel pelame, nelle corna, a far notare i vizi, gola, irascibilità, infingardaggine, e questo di sicuro non aiuta a fare il prezzo.
Anche nella giunta municipale c’era stata discussione, ma come sempre l’aveva spuntata Birocci, che contava sull’effetto sorpresa. Sicché i capi erano stabulati in un capannone chiuso e sorvegliato.
Satolli e non del tutto sobri, i battitori vi furono ammessi alle tre del pomeriggio, dopo che l’organizzazione aveva consegnato a Gesù le schede tecniche contenenti ogni utile informazione, ma, più che esaminare le bestie, si limitarono ad attraversare i corridoi, degnandole sì e no di uno sguardo. Solo davanti al caprone il signore si arrestò per un attimo e disse perplesso: “Quella faccia non mi è nuova”. Come nei film di Totò.
Dall’esterno giungeva l’eco delle ovazioni: si esibivano i butteri di Maremma, più agili dei cow-boy delle praterie, più giocosi del  gaucho della pampa.  All’uscita ne videro uno che, roteando il lazo, lo teneva in verticale per un minuto intero,  con il cappio fermo che sembrava un cerchio di fil di ferro. “Fa miracoli” - commentò il druso, e Gesù lo guardò male.
Fecero il chilo seduti sotto una tettoia; intanto il rodeo era finito e l’organizzazione provvedeva con efficienza a sistemare gli spazi per l’asta. S’era costruita una sorta di sala all’aperto: un grande tavolato poggiato su caprette e sopra un megafono, un martello, dattiloscritti, moduli, e di fronte un ottantina di seggiole pieghevoli ordinate in file. Tutt’intorno uno steccato, per separare i concorrenti dai curiosi. Per evitare confusione, infatti, era consentito fare offerte soltanto a quegli allevatori, commercianti e mediatori che dessero garanzie di serietà, secondo il giudizio insindacabile di un’apposita commissione, e che avessero depositato entro la mattinata una congrua cauzione in solido.
Alle cinque della sera presero posto i banditori, il sindaco, il presidente degli allevatori, il rappresentante della bonomiana, il notaro, il capufficio dell’anagrafe bestiame e il veterinario condotto, che con diligenza aveva verificato e curato le condizioni sanitarie di tutti gli animali in mostra e soprattutto garantiva la perfetta salute dei capi all’incanto. Birocci fece un discorsetto di ringraziamento, alle autorità, agli allevatori, ai visitatori, e stimolò l’interesse per gli esemplari acquistati dal Comune. “Le razze ovine nazionali - disse tra l’altro - l’appenninica, la sarda, la bergamasca, la maremmana,  ci hanno dato per secoli alimento e protezione contro i rigori invernali. Ora daranno nuovo impulso allo sviluppo economico e sociale della zona e dell’intera regione. A Prato non lavoreranno più soltanto stracci: le nostre pecore, opportunamente ibridate, saranno in grado di fornire materia prima di qualità pregevolissima”.
Cominciò l’asta. Il proprietario o un suo incaricato portava il capo sullo slargo, legato, il druso comunicava i dati tecnici, età, razza, premi vinti, attitudini, il battitore illustrava i pregi, fissava la base d’asta, procedeva all’aggiudicazione.
Colpi di martello secchi, sonori, rimbombanti, da tribunale. Parola rotonda, stile sentenzioso e parabolico. Per incoraggiare l’acquisto di una fattrice disse: “Non mettete il vino nuovo negli otri vecchi”, di una capra: “Mangia di ogni erba, ma non di quella che porta amarezza”. Piazzava al meglio bestie grandi e piccole, stalloni maremmani, redi  di chianina, frisona o marchigiana, magroni, agnelli, arieti, pecore da lana e da latte. La più bella, una comisana,  bruna dagli occhi espressivi, solenne nei fianchi rotondi eppure sciolta come una gazzella, dal belato sommesso, umile eppure pieno di dignità, fu aggiudicata per quattrocento mila lire.
Quanto alle offerte del Comune alcune erano normali, avevano soltanto un’origine controllata, una bergamasca di Bergamo, una sarda di Orgosolo e via di seguito. Ma le sorprese non mancarono: macache furane del Giappone da allevare per ricche ereditiere bisognose di compagnia, una capra delle nevi del Nevada, una decina di cincillà.
Arguti e mordaci i toscani da dietro lo steccato irridevano con lazzi e frizzi la megalomania del Birocci, dicevano che non era un’asta, ma l’arca di Noè; un vecchietto ubriaco si mise a cantare ad alta voce una celebre aria d’operetta :“O Cin Cin Là, o Cin Cin Là, mordi, rosicchia, divora...”.  Ma Gesù toccava i cuori e le menti con la  parola e otteneva offerte.
Un brusio si levò quando, come animali da carne, vennero proposti gli struzzi, due coppie, ma il banditore non si scompose: “In verità vi dico che le loro carni sostituiranno un giorno quelle del vitello”. Qualcosa del genere sarebbe forse accaduto davvero, ma i tempi non erano maturi. Come che sia anche quel gruppo esotico fu aggiudicato, per due milioni, il doppio della base d’asta, al barone Buondelmonti della Cometa.
Ultimo venne il caprone e la sorpresa fu grande perché, dopo le allusioni del sindaco, si attendeva un ovino. Gesù sbirciò la scheda e guardò la bestia che veniva condotta da uno stalliere adolescente. “Quella faccia non mi è nuova” - ripetè. Forse sarebbe riuscito a tenere chiuso, com’era nei suoi voti, il libro dell’Onniscienza, se non fosse stato per il druso che, innocentemente, gli disse: “Forse l’hai incontrato in un’altra vita”. Non fu un soprassalto della memoria - nella mente di Dio non c’è passato né futuro, non può ricordare né sperare - piuttosto, come ad Ali Babà davanti alla spelonca, le parole dell’arabo gli spalancarono magicamente la contingenza. Tornò a sapere del caprone, del capretto, del miracolo imperfetto, comprese che era maturo il secolo per portarlo a compimento e lo volle, perché in Lui sapienza, necessità e volontà coincidono. Quando il libanese finì di leggere le notizie, il battitore disse: “Questo fico non dà frutti. Il capro è isterilito”.  E non lo mise in vendita.
Insorse il Birocci e ci fu una gran confusione, ma, essendo il sindaco un uomo pratico e saggio, trovò una soluzione. Il caprone sarebbe stato messo alla prova quella sera stessa, con le più belle capre e pecore della fiera, perché la bestia al chiaro della luna si esalta. Se aveva ragione il battitore, lo avrebbe rispedito agli inglesi colonialisti ed imbroglioni, avrebbe riottenuto il maltolto, li avrebbe portati in causa davanti a un tribunale internazionale, li avrebbe ridotti all’elemosina con i risarcimenti. Se invece il banditore si sbagliava, avrebbe pagato lui a caro prezzo quell’improvvida sortita, sarebbe stato sputtanato di fronte a tutto il mondo zootecnico e l’asta si sarebbe fatta ugualmente, l’avrebbe battuta il druso, quella stessa sera, dopo il ballo all’aperto, a mezzanotte.

8.
Il caprone quella sera deluse le capre,  le pecore e i pastori. Se ne rimase buono buono in un angolino dell’ampio recinto, nonostante gli sforzi di tutte quelle femmine che gli giravano intorno per fargli sentire l’odore, nonostante la luna piena ed il caldo di giugno. Era in pena: aveva riconosciuto quell’uomo e senza alcuna sapienza umana o divina, col solo magnetico istinto animale, ne aveva intuito le intenzioni, e non gli piacevano.
Il battitore intanto parlò con il sindaco e lo persuase che la via della restituzione agli inglesi non era praticabile. Quelli non volevano entrare nel MEC e nei loro tribunali non avrebbe trovato ascolto. C’era una soluzione migliore: lo avrebbe comprato lui il caprone, allo stesso prezzo pagato dal Comune più le spese, sessanta milioni in tutto, e lo avrebbe portato via con sé quella sera stessa, se la bestia avesse fallito la prova. Il sindaco capiva che era una soluzione sicura e vantaggiosa per le pubbliche finanze, ma temeva che ci fosse qualche intralcio burocratico. Lo tranquillizzò il Segretario Comunale: si poteva dare per effettuata l’asta ed aggiudicare la bestia al banditore biondo. Questi peraltro provvidenzialmente portava con sé in contanti l’intera somma, messa da parte in anni di economie.
A mezzanotte si sciolse il nodo. Il barbuto versò all’organizzazione la cifra e ne ottenne regolare ricevuta, dopo di che gli consegnarono la bestia recalcitrante, legata al collo con una corda robusta di cui afferrò il capo. L’animale tentò di sottrarsi a strattonate, ma la mano dell’uomo era ferma, il caprone si buttò per terra per opporre resistenza e farsi trascinare a forza, ma la voce dell’uomo ordinò, solenne e gloriosa: “Alzati e cammina”. Obbedì e nella notte serena, sotto il cielo luminoso di stelle e chiaro di luna, lo seguì per stradelle, sentieri e viottoli, tra gli olivi che tendevano al cielo le braccia, il grano maturo, i vigneti ad alberello e i frutteti, docile ed obbediente come una pecora.
Giunsero ad un torrente e l’uomo si arrestò, si volse, fissò negli occhi la bestia spaurita e tremebonda che con il suo sguardo sembrava dirgli: “Signore, pietà”. Sull’argine lo fece uomo, un uomo di cinquant’anni circa, corto e scuro come un meridionale, che in un italiano impastato di siculo gli ripetè a voce: “Signore, pietà. Rifammi bestia”.
Il biondo lo guardò severo e gli gridò: “Tu sei uomo, ingrato come ogni uomo, e uomo resterai. Neanche prima eri capretto, o caprone, eri un becco bastardo, un cornuto, come tutti gli uomini. Non vi sopporto più, me ne torno in cielo, per sempre”
Saltò giù nel torrente, vi camminò su per un tratto, a pelo d’acqua, poi prese il volo, mentre la luna gli illuminava il volto, bellissimo ma del tutto privo di espressione, e dietro di lui una fila di anelli, di una luce vivida, rosso fuoco,  lunga come una coda d’aquilone. Ad osservarlo c’erano il Trasformato, un branco di maiali veglianti in una porcilaia all’aperto, e un cane lupo che abbaiava contro di lui, o alla luna, non si sa bene.

9.
Il vecchio che mi raccontò questa storia, un intellettuale sdentato, con gli occhi piccoli e la barbetta caprina, è uno di quei narratori che tutto vedono e prevedono, passato, presente, avvenire, che stanno dappertutto, nel vecchio continente e nel nuovo, in India e nell’Africa Australe, nel cuore, nel cervello, nel sangue, midollo e viscere degli uomini e delle bestie, che sanno il perché delle cose, del mattino, della sera, dell’amore, della morte. Ma, anche al costo di far crollare il castello, volle mettermi a parte di un orribile sospetto.
“Il banditore - disse - era Gesù, non poteva che essere Gesù, ma le sue ultime parole, odiose e volgari, giustificano il dubbio. Chissà, forse era un suo vicino di casa, un extraterrestre impazzito che si credeva il Signore e Lo imitava, o forse era addirittura il Maligno che, dal profondo del suo inferno, Ne osserva gli atti in uno specchio, se li studia e si esercita a copiarli per  tessere le sue trame e tendere le sue reti”.

10.
Quando al mattino i concittadini di Birocci trovarono l’uomo in riva al torrente,  non tennero dietro alle sue farneticazioni da mentecatto, ma, vedendolo in uno stato pietoso, lo condussero dal sindaco perché decidesse che fare.
Neanche lui credette ad una sola delle sue parole, anche se rimase stupito quando, qualche mese più tardi, seppe da Cortellini che il banditore era sparito nel nulla, che il caprone nero era scomparso con lui e che gli altri esemplari maschi di Girgenti’s goaship erano morti tutti per cause apparentemente inspiegabili nella notte tra il 24 ed il 25 giugno del 1961. Intanto, in accordo con il prefetto, con il maresciallo e con il medico provinciale, aveva risolto con l’abituale senso pratico il problema del matto senza passato e senza nome. Lo mise a far la guardia ai giardini pubblici e a dormire nella casupola che vi stava dentro. Trovò il modo di fargli avere anche le ventimila lire al mese per mangiare e bere.
La domenica mattina, dopo la Messa sociale, ed il pomeriggio, dopo il catechismo, i bambini che affollavano i giardinetti lo mettevano in mezzo, gli saltellavano intorno, gli davano la baia, gli mollavano pedate sulle cannette delle gambe, gli tiravano con la cerbottana ossicini di ciliegia e freccettine di carta negli occhi, tristi.

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