14.5.11

Caino a Roma. I complici romani della Shoah. Quasi tutti assolti, tutti nel Msi.

“Posto” qui  da “Tuttolibri” de “La Stampa” del 26 novembre 2005 una recensione del volume di Amedeo Osti Guerrazzi, ch’era appena uscito per l’editore Cooper, Caino a Roma - I complici romani della Shoah. Dell’articolo titolato Quanti avidi caino nella Città aperta è autore lo storico Giovanni De Luna, che del libro fornisce una eccellente sintesi critica. Vi si racconta del fascismo romano negli anni della seconda guerra mondiale, dei delatori che si arricchirono collaborando alla caccia agli ebrei, dei tribunali e dei magistrati che li processarono per la sola delazione o per il “saccheggio” delle abitazione dei loro concittadini di religione ebrea, rifiutando di prendere in considerazione le conseguenze omicide del loro collaborazionismo (la morte nelle camere a gas naziste). Questa gentaccia, insomma, la fece quasi sempre franca e diventò la colonna portante, insieme alla burocrazia ministeriale e alla sbirraglia poliziesca e magistratuale, del neofascismo romano organizzato nel Msi. I suoi eredi (in senso generalmente figurato, ma in qualche caso proprio) sono tornati a maneggiare il potere intorno ad Alemanno. (S.L.L.)
A Roma, nel 1943 - 1944, ci furono molti italiani «giusti» che rischiarono la vita per salvare gli ebrei dalle razzie dei tedeschi; più di quattromila, romani e non romani, trovarono rifugio e scampo negli edifici religiosi della capitale. Pure, dietro ogni «giusto», si profilò l'ombra sinistra di un delatore, dietro ogni atto di generosità e di abnegazione affiorò puntualmente la malvagità del tradimento e dell'impostura. «Italiani brava gente»: forse; ma con un cuore di tenebra al cui interno la stessa storiografia fa fatica ad entrare, quasi nel timore di incrinare uno degli stereotipi più consolidati che si sono addensati sulla nostra identita' nazionale. Un libro scarno ed efficace di Amedeo Osti Guerrazzi ci aiuta ora a varcare la soglia della retorica e a confrontarci con uno degli aspetti piu' inquietanti della storia italiana nella Seconda Guerra mondiale: il coinvolgimento diretto degli italiani negli arresti e nelle deportazioni degli ebrei. I tedeschi, dopo la razzia dimostrativa e devastante del 16 ottobre 1943 (quando furono catturati 1.007 ebrei romani mandati a morire a Auschwitz), in pratica si disinteressarono della questione, affidando ai loro gregari italiani, che oltretutto conoscevano meglio la citta', il compito di arrestare gli ebrei. In una oscena gara a chi si mostrava piu' zelante, entrarono cosi' in azione le varie bande che affollavano la galassia armata del neofascismo: la Federazione del PFR, insediata a Palazzo Braschi, agli ordini del federale Gino Bardi e dei suoi scherani Guglielmo Pollastrini e Lamberto Pesci; il gruppo di Giuseppe Bernasconi (che pure operava nell'ambito della Federazione di Palazzo Braschi); la Polizia agli ordini del Questore Caruso; la famigerata banda guidata da Piero Koch: un universo variegato, affollato di avventurieri e di rinnegati, «un gruppo di volgari briganti di strada dediti ai furti e alle estorsioni», come li definisce Osti Guerrazzi. Non ci furono granitiche convinzioni ideologiche dietro quelle azioni nefande, ma solo un sinistro disegno di arricchimento personale, un progetto di spoliazione sistematica dei beni patrimoniali delle vittime che lasciavano case e negozi alla merce' dei criminali. A fianco delle forze armate di Salo' (era a questi che Alleanza Nazionale pensava quando ha proposto la legge sul riconoscimento dello status di belligeranti alle truppe repubblichine?), operavano gruppi di civili come la banda capitanata da Giovanni Cialli Mezzaroma, che fece arrestare oltre settanta ebrei, la maggior parte dei quali fucilati alle Fosse Ardeatine. Nei ricordi di Michael Tagliacozzo, affiorano altre figure particolarmente sinistre, come quella di «Luigi Rosselli, portinaio del gruppo rionale fascista di Piazza Lovatelli» e della moglie Filomena Mastrani «la quale, bene introdotta nell'ambiente ebraico, fissava appuntamenti, ricattava, chiedeva danaro promettendo il ritorno o il rilascio dei razziati. La banda annoverò anche due tristi figure di ebree collaborazioniste: Celeste Di Porto, la "pantera nera", e Enrichetta Di Porto, detta l'"incipriata"». Senza l'attiva collaborazione di questi italiani sarebbe stato impossibile per i tedeschi arrestare e deportare 2 mila ebrei oltre a migliaia di partigiani e di renitenti alla leva.
Osti Guerrazzi nella sua ricerca ha lavorato sulle carte dei processi svoltisi tra il 1944 e il 1947, negli archivi della Corte di Assise speciale e della Corte di Assise penale. La sua conclusione è tanto sconcertante quanto amara: «Nessuno dei delatori degli ebrei romani, tranne Federico Scarpato, fu processato per concorso in omicidio, ma solo per collaborazionismo o saccheggio». I giudici delle Corti di Assise Straordinarie si rifiutarono di prendere in considerazione le conseguenze della delazione (la morte nei campi di sterminio). Senza quell'aggravante le pene risultarono particolarmente miti e quelle pesanti furono cancellate dalla restaurazione del dopoguerra: Bardi fu condannato a 22 anni e sei mesi di reclusione nel 1947, ma nel 1950 fu liberato. Bernasconi fu condannato all'ergastolo, ma scontò appena una dozzina di anni. Tutti transitarono impunemente nell'Italia repubblicana, trovando comodo asilo nelle file del Msi.

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