16.5.11

Culturalume, culturame. Un'antica polemica molto attuale (Luigi Russo)

Luigi Russo
Noterelle e schermaglie era su “Belfagor”, la rivista di letteratura e cultura diretta da Luigi Russo, la rubrica di polemiche, spesso espressione dura e sprezzante, “di piede”, di sentimenti ed umori intestini, “di pancia”.
Ne era redattore in molti casi lo stesso direttore, l’italianista siciliano (era nato a Delia nel 1892, per l’esattezza) trapiantato in Toscana, iroso e brillante, estroso e geniale, lo “scopritore” di Verga e delle sue religioni (del focolare e della roba) e il fustigatore degli strafalcioni, dei vizi e dei vizietti dell’Italia piccolo-borghese del dopoguerra, che, dismessa la camicia nera, aveva generalmente indossato una tonaca altrettanto nera. Altre volte la cura della rubrica veniva affidata ad altri redattori e collaboratori di “Belfagor”, in genere antipatizzanti per la preterìa e in ciò affratellati a Russo: un esempio tra gli altri Gaetano Salvemini.
Alcune delle noterelle, insieme ad altri scritti laicisti pubblicati da “Belfagor” nel periodo 1946-1973, vennero raccolte, a babbo morto (lo “zio Luigi” – così lo chiamavano i nipoti – morì a Marina di Pietrasanta nel 1961), dal figlio Carlo Ferdinando Russo nel 1974 nel volume L’Italia clericale, edito da Samonà e Savelli, i cui testi - di vari autori - vengono oggi ripresi da “Notizie radicali”, il giornale telematico diretto da Walter Vecellio.
La noterella di Luigi Russo, da me scelta e qui “postata”, mi sembra un piccolo capolavoro di vis polemica e risale al 1949. Ne era stata occasione un discorso di Mario Scelba tenuto a Venezia nel giugno di quell’anno, in un momento topico della costruzione del “regime democristiano”. Con accenti tipici della destra italiana (e che spesso anche oggi, più di 60 anni dopo, ci tocca di sentire) il famigerato ministro dell’Interno se la prendeva con gl’intellettuali italiani, in blocco, e li bollava come “culturame”.
Russo, per replicare, prima giocava di fioretto sulla parola e ne cercava ascendenze e risonanze letterarie e sociali; poi tracciava un ritratto tranchant del politicante di Caltagirone, collocandolo nell’ambiente a lui più consono, la gretta piccola borghesia agraria e mercantile matrice del fascismo e baluardo del democristianismo.
Questo passaggio è condito con una felicissima citazione crociana sull’“onagrocrazia”, rivelatrice di una forte continuità nel governo dell’Italia dal fascismo ad oggi, un paese in cui l’ignoranza, la volgarità e la maleducazione prendono spesso e volentieri il sopravvento sulla civiltà e la gentilezza. Di sfondoni, strafalcioni ed altre manifestazioni d’ignoranza e di matta bestialità è lastricato il trionfo del berlusconismo. Basta pensare che il più colto e intelligente membro del governo è uno che proclama “la cultura non si mangia”, uno che ha fatto fortuna aiutando i redditieri grandi e piccoli ad evitare il pagamento delle tasse e a fregare lo Stato, un mito per un popolo di piccolo borghesi, eroici evasori ed elusori. (S.L.L.)   
Mario Scelba
“Culturalume” e “culturame”
Quando si cominciò a parlare del discorso veneziano del ministro Scelba, la prima forma che si sentì dire e si lesse sui giornali fu “culturalume”. Culturalume io pensai, come cardinalume, clericalume, borghesume, canagliume, vaticanume ed altri nome in ume. E mi affrettai a prenderne nota in un scheda linguistica, in cui misi in testa subito la parola coniata da Vittorio Alfieri, “cardinalume”. Perché l’on. Scelba non pensi che io dica per celia, riporto il testo preciso dei versi dell’Astigiano: “Sia pace a i frati. /Purché sfratati./ E pace ai preti. /Ma pochi e quieti. /Cardinalume /Non tolga lume; /Il maggior prete /Torni a la rete. /Leggi e non re, /L’Italia c’è”.
Caspeta!, mi scappò detto, leggendo nello Scelba la parola “culturalume”, e mi scappò detto con un colorito fortemente dialettale. Il che mi succede quando sono fortemente sorpreso ammirato e commosso: il nostro ministro, checché ne dicano i malevoli, che lo presentano come un avvocatucolo di provincia, può stare accanto a Vittorio Alfieri come coniatore di vocaboli nuovi e spregiativi. La prosa del ministro Scelba a molti ha ricordato la prosa di Roberto Farinacci o di Achille Starace: io invece lo collocavo molto più in alto e gli creavo una araldica lessicale, per fagli onore.
Ma la mia illusione, o la mia euforia, durò soltanto qualche giorno: una commissione di filologi, riunitasi di urgenza, accertò la lezione critica di alcune parti salienti del discorso, e il testo genuino trionfò rapidamente negli annunzi e nei commenti dei giornali. Non di “culturalume” aveva parlato il ministro, che sarebbe stata parola troppo dotta, e che si apparentava con altre parole di aristocratica origine, ma di “culturame”, così come nel linguaggio dei corsari neri si dice “scatolame”, “biscottame”, “budellame” e i campieri siciliani, assidui frequentatori di fiere, parlano di “bestiame”, “pollame”, “letame”. La parola “letame”, è vero, è essa stessa parola troppo dotta, e poi, non è un collettivo spregiativo, dal latino laetamen, anche se il solito Boccaccio tentò di popolarizzarla, ricordando, nella novella di fra’ Cipolla, le poppe della Nuta, che “parean due ceston da letame” (spero che la frase boccaccesca non mi sia censurata, come è stata censurata la povera Venere del Botticelli). Il mio momentaneo squilibrio, di storico linguistico del costume e di critico, rapidamente si ricompose, e preparai subito un’altra scheda, dove passavo in rassegna molte fonti popolaresche, o popolaresche derivate, cioè di origine dotta, ma ricondotte dall’uso diffuso al significativo volgare (che qui ometto per amore di brevità). Il linguaggio di Scelba accanto a quello dei corsari neri e dei campieri siciliani, io mi convinsi, sia pure a malincorpo, rispettava di più la convenienza storica.
Il campiere è un personaggio ragguardevole delle nostre campagne meridionali, che col frustino negli stivaloni se ne va tra i contadini chini sul lavoro, distribuendo santi e santissimi a destra e a sinistra e qualche frustonata sulle spalle dei più riottosi e dei più pigri. E’ il difensore degli interessi del padrone, il più fanatico, il più animoso e il più coscienzioso. Di De Gasperi, Gonella, Piccioni, Dossetti, La Pira, si può dire che sono dei cattolici, perché in loro è in giuoco sempre una fede religiosa, di diversa intensità e sfumatura storica, ma che male o bene si intreccia e si contamina con la loro passione politica: Scelba invece non è nemmeno un cattolico, un democratico cristiano, un “pipista”, come si diceva un tempo (ci aveva ingannato il suo segretariato giovanile presso Sturzo): del cattolico egli conserva solo il senso greve del peccato originale, cioè l’abitudine al turpiloquio pessimistico e alle bestemmie, le quali sono sempre bestemmie contro chiunque e qualunque cosa sian rivolte. Egli invece è il campiere siciliano, il quale è devotissimo al “baroname”, ed è nemico giurato del “contadiname” e del “servitorame”, quindi anche del “culturame”, di tutti quelli che danno fastidii in un modo o in un altro a quei tali suoi padroni. Un campiere darebbe la vita per proteggere la sacra persona del suo principale. La formazione psicologica e sociale e rurale del campiere si perde nella notte dei tempi; bisogna risalire alle età feudali dell’Alto Medioevo, e forse anche più in là ai tempi dei Romani, quando la Sicilia era oppressa e Verre vi compì le sue malefatte. L’on. Scelba a me par nato due o tre secoli prima della venuta di Cristo. Quindi il democratico cristiano, e sia pure nel significato deteriore, in lui io non ce lo vedo. Ma io per non dargli dei dispiaceri, da ora in poi scriverò sempre la parola “parentario”, e non “parentame”, perché quest’ultima, se non altro per la rima, attrarrebbe la parola “culturame”.
La definizione di “avvocatuccio di provincia”, adottata altre volte, è impropria: il nostro ministro è l’idea platonica di quel Turi Passalacqua, che abbiamo ammirato nel felicissimo film In nome della legge. Un giorno o l’altro noi vedremo Scelba calarsi e incarnarsi direttamente in un personaggio da cinematografo o da romanzo, e io spero sempre che il mio amico e quasi parente Vitaliano Brancati (quasi parente, poiché in Sicilia, se si va a vedere, si finisce col ritrovarci un po’ tutti parenti: però è provato, è sicuro che io non sono parente di Scelba Mario), che è lo scrittore siciliano più notevole e più felice in questo momento, storici e critici compresi, ne prenda ispirazione per qualche suo mordente racconto, come quello del suo “Bell’Antonio”, testé edito, che ha interessato tanto le giovani donne, et pour cause, ma ha interessato anche molti altri che non sono donne, per certi scorci di vita catanese sotto il fascismo, ritratti con piena coerenza di stile e con un humour che non va mai nel caricaturale. Il Brancati sa trovare nomi d’arte assai azzeccati, come quello di Aldo Piscitello, del “Vecchio con gli stivali”, e poi degli “Anni difficili”, nome che almeno per conto mio è già passato in proverbio.
Oramai anche Mario Scelba comincia ad esulare dalla politica vera e propria s’avvia ad appartenere piuttosto alla letteratura popolare e orale d’Italia, con quello stesso rilievo con cui vi appartennero in altro tempo Roberto Farinacci e Achille Starace: egli non è ancora arrivato e forse non arriverà mai a Mussolini, perché il Mussolini, in coscienza, era più colto, ed era più felice proverbiatore, e aveva anche una certa virtuosità coreografica, da grande attore di arena popolare, che al nostro sicilianuzzo manca del tutto, nonostante le sue pugna puntate sui fianchi.
Tutti ci siamo trovai d’accordo nel sottolineare la frase inopportuna e infelice del nostro ministro dell’Interno, senza distinzione di partito e di fede politica: i liberali proletari, a cui è iscritto l’autore di questa nota, e i liberali proprietari della rivista “Il Mondo” (le due denominazioni affini, ma lontane, indicano un’ideologia formalmente identica, ma sostanzialmente assai diversa per gli umori segreti che scorrono nelle due opposte schiere); i socialisti, i comunisti, e perfino gli austeri e gravi repubblicani e i nostalgici aristocratici monarchici. Anche “l’Europeo”, che non si scandalizza mai di nulla, perché vive negli scandali altrui e ci si diverte, questa volta ha preso duramente posizione contro, e ha parlato degli applausi venuti al ministro dal banco degli asini. Ci sono certe battute che definiscono un regime e che definiscono un partito o un uomo. Il “bagnasciuga” fu l’epigrafe di Mussolini. Il “culturame” e i “quattro cialtroni” potrebbero essere la epigrafe tombale non della Democrazia Cristiana (di cui non abbiamo mai auspicato la sparizione) ma del clericalume e del baroname più rozzo e ignorante, di cui Scelba è il più leale paladino, il vero pugno di ferro.
Un bravo e dotto prete, col quale io intrattengo affettuosa dimestichezza, mi diceva: “Quello Scelba è un vero castigo di Dio. Discorsi come quello di Venezia ci costringono a dare ragione perfino a Lei, caro professore, a cui non vorremmo dare mai ragione”. Ma invero io non saprei giovarmi di questa nuova gaffe del ministro dell’Interno per battere contro la Democrazia Cristiana; la vera religione e la Democrazia Cristiana o non cristiana, qui non c’entrano. Tutti siamo mortificati per i trascorsi verbali del ministro, perché pare proprio che un triste destino pesi sull’Italia da trent’anni a questa parte, con la minaccia sempre allarmante che sia per ritornare la voga dei governanti rozzi e ignoranti. L’onagrocrazia, cioè il governo degli asini selvatici, come scriveva il Croce a proposito di certi ministri fascisti, deve continuare dunque ad opprimere e ad offendere il nostro paese, che ha sempre, nonostante tutti i furiosi rivolgimenti di questi ultimi trent’anni, una fondamentale gentilezza umanistica? La piccola borghesia forse favorisce questo ingrossamento di linguaggio, quella piccola borghesia che s’iniziò al governo col fascismo e che oggi torna a prosperare e a istupidire allegramente sotto lo Scelba.
Questa Italia senza galateo, facinorosa, minacciosa, contumeliosa, spocchiosa, costituisce lo stato d’inferiorità cronico della nostra civiltà politica. Forse soltanto in Spagna potremmo trovare regole di vita e regole di lingua analoghe a quelle che dominano alcune frazioni del partito dominante in Italia. Però non si dispiaccia l’onorevole Scelba, se anche noi che in altri tempi lo abbiano onorato chiamandolo Scelba Del Carretto per la potenziale ferocia della sua politica repressiva (il paragone con un marchese era di troppo), oggi ci uniamo al coro generale di riprovazione per le sue parole poco democratiche e poco ragionevoli. Il suo delitto di oggi può apparire minore di altri delitti, ma il compiacimento verbale del Faraone indurito nell’opera sua con l’ostentato disprezzo degli avversari, è peccato ai nostri occhi assai più grave. Et induratum est cor Faraonis, ma Dio quel cuore lo seppe spezzare! (L’on.Scelba lo sa chi è il Faraone? Certamente non vorrà credere che sia il gallo, il marito della gallina faraona). Non si tratta di riprovazione politica, ma di una riprovazione di civiltà, che auspica la fine di ogni linguaggio triviale, il quale rinnova e riapre tante cicatrici incise sul nostro corpo durante il ventennio nero. Governi pure la Democrazia Cristiana, ma ci risparmi l’insulto. Tali grossolane ingiurie deprimono non solo tutti noi poveri sudditi, ma lo stesso partito al governo e fanno passare l’Italia nella schiera delle nazioni politicamente più arretrate.
Un brigadiere siciliano che ho incontrato per le vie di Firenze, mi diceva malinconico e desolato: “Non basta il bandito Giuliano, ma ci si mette anche il ministro Scelba! Protesti lei, professore mio, per la nostra isola. Negli uffici ci deridono e ci dicono: compaesani del ministro Scelba e del bandito Giuliano”. “Ma la Sicilia è molto più civile, noi abbiamo tutto il nostro galateo e la nostra gentilezza. Anche la nostra biancheria è più netta di quella di quassù, che ha sempre qualcosa di calloso e di lezzoso, come dicono e riconoscono talvolta le stesse massaie fiorentine. Il nostro sole asciuga molto bene i panni sulle rive dei fiumi e dei ruscelli. Il linguaggio del ministro Scelba è soltanto in uso in qualche stallazzo e in qualche osteria di campagna”.
Avevamo scritto e pubblicato questo articolo sull’“Unità” del 19 giugno, quando ci è capitato di leggere la notizia che il ministro Scelba con la parola “culturame” intendeva colpire Luigi Russo e Gabriele Pepe. Almeno queste sarebbero state le dichiarazioni fatte dal ministro al giornale “Oggi” di Milano. Ma perché non Benedetto Croce? E perché non Adolfo Omodeo? E perché non Guido De Ruggiero? Omodeo e De Ruggiero sono stati esclusi certamente perché defunti, e i defunti non danno più noia; e Benedetto Croce, con i suoi 83 anni per il ministro Scelba probabilmente è come se fosse un defunto.
Ma questa è una sozzeria inaudita; tutti i fascisti messi insieme, con le loro periodiche parolacce a Benedetto Croce, non possono eguagliare la grossolanità di una tale discriminazione. Non solo il Croce è ben vivo e continua la sua battaglia politica per la cultura, ma egli ha l’onore meritatissimo di avere tutte le proprie opere nell’Indice dei libri proibiti. E Omodeo e De Ruggiero sono sempre presenti in noi, come è presente il pensiero di Croce, perché non si dia tregua a questo clericalume che oggi tiranneggia l’Italia.
Se si vuole conoscere poi quale è stata la reazione dei giornali clericali a quella mina nota sul “culturalume” dello Scelba, basterà che il lettore curioso legga “Il Popolo” di Roma del 21 giugno. Di quell’articolo ci piace ricordare la chiusa: “Pensiamo – e con noi quanti! – con infinita pena ai giovani che sono stati scolari del Russo. Alle tenere menti aperte al vero, al buono, al bello, straziate e travolte nella irrazionalità di un modo di pensare, di ragionare, di vivere, che è inconcepibile in un educatore. Poveri figli rovinati per la vita! Ma che importa questo al sig. Russo? Cosa sono gli scolari per lui se non strumento di carriera e di autoincensamento? Se non materia di esperimento? Ma soprattutto se non clienti della sua vasta bottega? Faccia, il sig. Russo, il sesquipedantissimo sig. Russo, faccia il suo dovere di insegnante come Scelba fa il suo dovere di Ministro. E non cerchi altro”.
Noi abbiamo definito questo pezzo la nostalgia del rogo: si rammaricano perfino cotesti signori che il fascismo non mi abbia cacciato dalla cattedra, perché io avrei avvelenato chissà quante migliaia di giovani; e con che filo di voce l’articolista si intenerisce per questi figli di mamma da me abituati a sragionare e a delirare contro santi uomini come Gonella, Scelba, ecc.! Quasi che io insegni queste cose dalla cattedra; ma per loro non c’è nessuna materia e esperienza di studio che non sia propaganda per una qualche sagrestia o per una qualche bottega. Ma questi clericali non solo sono fascisti per il presente, ma sono fascisti anche per il passato, e idealmente vorrebbero aver commesso quei delitti che altri non commisero. La prosa del “Popolo” è una segnalazione al braccio secolare perché provveda: meglio tardi che mai! Siano anche avvertiti i collaboratori di Scelba, dai repubblicani ai cosiddetti liberali e ai cosiddetti socialdemocratici, e sia avvertito anche quel sant’uomo di Giorgio La Pira, perché benedica le malefatte dei suoi colleghi, che non hanno altro scopo che quello di salvare un’anima, bruciandone il corpo e i libri.
Ma io devo dichiarare che dell’articolo non mi offendono le velate minacce e le insinuazioni volgari e maligne, ma mi offende quella concezione pecorile che l’articolista mostra di avere degli scolari. Gli scolari mostrano di essere un gregge, da condurre dove il tristo pastore vuole: gli scolari dunque non hanno cervello, gli scolari non hanno volontà, gli scolari sono delle scatole da imbottire di un certo contenuto. Ma questa è la differenza fra la concezione cattolica dell’educazione e la concezione laica! Voi volete delle pecore e noi vogliamo soltanto uomini liberi, che si ribellino agli stessi maestri, quando i maestri errano e tradiscono. Ma perché dunque non si ribellano questi trenta o quaranta mila scolari, che io avrei corrotto dal 1915 ad oggi? Di quale forza di polizia può disporre un povero maestro di scuola, per tenere a freno tutti questi rivoltosi frementi? E che tardi, ma sempre a tempo si sono accorti del mio veneficio e tradimento intellettuale?
Ma a questi nostri petulanti e interessati ingiuriatori e detrattori, noi risponderemo con le parole del Vangelo a noi più familiari, che non a loro, sedicenti settatori di quei testi sacri: Iesus autem dicebat: Pater, dimitte illis: non enim sciunt quid faciunt et quid dicunt.

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