Elegia al padre
Ora che il dolore s’allontana e il tempo
della tua morte, mi si rischiara intera
la solitudine che seppero i tuoi
ultimi anni dopo che un cardiologo
ti trovò danneggiato il miocardio
e compromesse, al limite, le arterie…
Come un animale ferito, sedevi
la gran parte dei tuoi giorni nel tuo
angolo di stanza e il tuo silenzio,
come un rimorso senza colpa,
mi feriva e offendeva. Poi ti guardavo,
così esile, così perduto nel lembo
di vita che t’avanzava e si scioglieva
la mia rancura in una pena muta.
Fuori il paese squallido e inerte,
la tua antica nostalgia, la pietra
di paragone mentre, di lontano,
solo, senza studi e ambizioso
ti faticavi il tuo povero successo
nella carriera della Guardia di Finanza.
Io pensavo al ritorno, una stupita
mattina d’infanzia.
Ho ricostruito la tua vita sull’ordito
dei tuoi avari ricordi, delle rare
confidenze: l’infanzia
miserabile e orgogliosa, le lodi
dei maestri di scuola per il tuo
forte ingegno, le vuote esortazioni
a continuare gli studi, il futuro
segnato, di stenti e umiliazioni
nella squallida bottega di tuo padre…
E già i tuoi antichi compagni
di scuola s’erano mutati: quelli
avviati agli studi, con gli occhiali,
i discorsi tra loro, il disagio
d’ignorarti; quelli chiusi nella
fatica con un cupo orgoglio
di condannati; gli altri, irrassegnati,
emigravano in America o
popolavano – col pietoso sdegno
del parroco, dal pulpito, le domeniche –
violenti e neghittosi le osterie.
Nelle sere di luna, di strade
deserte, di rare finestre illuminate
ai palazzi, di silenzio, solitario
suonavi la chitarra e ti nasceva
dal ritmo, soave e dolorosa,
d’emergere alla chiusa dignità
del medico, del maestro, dell’avvocato,
una smania lunga che credevi invidia
ed era, inerme e inconsapevole,
un senso di giustizia e di rivolta.
Fin quando un manifesto affisso
nell’atrio del Comune
ti persuase ad arruolarti
nel corpo della Guardia di Finanza.
E venne l’ora della partenza, un giorno
gelido e tempestoso di febbraio
del millenovecentosedici. Avevi
diciotto anni. A piedi, solo
t’avviasti verso la lontana
stazione ferroviaria di Soverato
piangendo d’incertezza e di nostalgia.
Io so di una notte che trascorresti
all’addiaccio, tremando
di freddo e di paura in un cimitero
sul fronte d’Albania. Di tutta
la guerra che ti travolse
nel delirio d’Europa non mi resta
da te, che questo fragile ricordo.
Poi la pace, rapidi avvenimenti
di violenze, di sangue e di silenzio
duro, improvviso, lungo. Non potevi
capire, nessuno t’aiutava, oltre
uno smarrito senso di sconfitta
vasta, invisibile. Frequentavi il corso
allievi sottufficiali, diventasti
vice-brigadiere.
Ora, di quando in quando, ritornavi
Al paese e i notabili, con una
punta (sempre meno palese)
di condiscendenza ti tenevano
uno di loro, e gli antichi
studenti era come se
non ti avessero mai dimenticato. Ma
quelli dell’osteria
usavano con te una rancurosa
confidenza simile a un rimprovero
immeritato.
Poi fu la nostra infanzia, Zara,
Orsera, Fiume, S. Martino, Mattuglie,
Caisole. Di quegli anni non mi restano
che questi nomi, come un’eco
smarrita della memoria.
L’Europa s’estenuava in un’angoscia
di terrori e speranze quando
ti vinse la nostalgia dei ritorni.
Il mio ricordo degli anni che seguirono
è di prati e di colline
perpetuamente nel sole oltre le case
e i vicoli squallidi,
di donne sulle soglie attente ad una
violenza lontana
come una leggenda, che le scuoteva
a giorni, in urla di dolore.
Definitivamente entrato nell’accolita
dei notabili del paese ne scoprivi,
antichi e irrimediabili, l’inganno,
l’ipocrisia, il vuoto che si nutriva
d’odi meschini, di grottesche risse,
di vile prepotenza…
Non avevi scelta. Accettare quel mondo
non sapevi. Ma era
la meta di lunghi anni, di tenaci
sogni, non osavi distaccarti. Fuori
d’esso era maggiore il vuoto,
più sordo, più corrotto, ostile
a quella che solo potevi dare,
inutile pietà. Eri prigioniero
della tua vita.
Ora intendo i tuoi lunghi silenzi
delusi e amari, l’ire
eccessive e improvvise, l’ironie
il disprezzo. Ora intendo
la confusa, tenace, smisurata
speranza del mio avvenire. Con la fede
d’un escluso credevi
alla cultura come a un bene
sicuro e vasto
d’umanità, di forza e di giustizia.
Non si vince da soli. È assai
che tu abbia salvato
lungo la tua vicenda, fra le nebbie
dell’ignoranza, dell’orgoglio
lusingato, il senso
della giustizia e della
misura, l’ironia, il rispetto
agli altri, la dignità dinnanzi
a te stesso. Di più
non potevi.
T’aveva anche deluso la viltà
della mia solitudine, quando
come un’insidia certa e inevitabile
prese a serpeggiarti nelle vene,
la morte. Era ormai
la vecchiezza. Il paese nella
sua vicenda incessante
di risse e di miseria, di fughe
e di ritorni, straniava. T’avanzava
di tutta la tua vita, un senso
scontroso di vuoto e intense
tenerezze. Io non potevo capire
che a tratti, in silenzio.
Ora è un giorno d’ottobre, Satriano
è lontana, la giovinezza
è finita, da anni sei morto. E io
non voglio credere ch’è stata
inutile la tua vita.
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In "Galleria" XXI, n. 6, nov-dicembre 1971, Sciascia editore, Caltanissetta
In "Galleria" XXI, n. 6, nov-dicembre 1971, Sciascia editore, Caltanissetta
Un caro amico di Enzo Guarna, il Prof. Barbuto, che insegna letteratura italiana alla Sapienza e che aveva presentato l'“Elegia al Padre”, sulla rivista su cui fu pubblicata, "Galleria", diretta da Mario Petrucciani e Leonardo Sciascia, ha reso nota una lettera di Sebastiano Timpanaro” a cui aveva mandato il testo. Il 26 febbraio 1972 Timpanaro gli scrisse a proposito dell'“Elegia”: “Io ho scarse letture di poesia contemporanea, e spesso non riesco a capire e ad apprezzare. Ma questa volta credo di aver capito tutto e sono rimasto ammirato: molto raramente, mi sembra, ho letto versi di questa forza: la rappresentazione, commossa e lucida al tempo stesso, di un dramma individuale che è, insieme, il dramma di una società... Se ha occasione di vedere Vincenzo Guarna, vorrei che gli esprimesse la mia sincera ammirazione”.
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