27.5.11

Lepanto rivisitata. Una battaglia di armi e di retorica (di Marina Montesano)

Da “il manifesto” del 17.12.2010 recupero questo intrigante scritto di Marina Montesano che espone e discute alcuni recenti studi, tra cui  il saggio di Alessandro Barbero La battaglia dei tre imperi, che ribalta il radicato luogo comune secondo il quale l'evento ebbe un'importanza epocale. Nell’articolo assai fruibile e godibile si accenna anche alla storia di Occhialì, il calabrese che si fece turco, e che da turco fu prima corsaro e poi gran dignitario dell’impero, una storia su cui dovremo tornare. (S.L.L.) 

Il monumento a Uluç Alì (Occhialì) a Le Castella, Crotone
A cavallo fra Quattrocento e Cinquecento, l'avanzata ottomana nel Mediterraneo sembrava una forza inarrestabile. Dopo la presa di Costantinopoli nel 1453, con l'affermazione del grande Solimano, quello che noi chiamiamo generalmente «il Magnifico», ma che la tradizione musulmana conosce come al-Kanuni, il restauratore del Canone, ossia della legge dell'imperatore Giustiniano, i turchi avevano definitivamente sconfitto i mamelucchi, impadronendosi della Palestina e dell'Egitto, e si erano ormai saldamente imposti in tutto il Mediterraneo orientale, anche a danno delle potenze europee, in particolare di quelle che avevano sbocchi e basi importanti in quel mare che allora era ancora il centro dei commerci e delle ricchezze principali.
Se la scomparsa di Solimano nel 1566 fu accolta in Europa come la tanto auspicata tregua, ben presto il suo successore Selim II (1566-1574), dopo aver sistemato con la pace di Adrianopoli del 1568 il fronte balcano-danubiano, riprese la sistematica conquista del Mediterraneo. Venezia, soprattutto, soffriva per questa situazione che le erodeva tutte le roccaforti mediterranee. Non era, tuttavia, una guerra tra cristiani e musulmani, tra Oriente e Occidente, nonostante da entrambe le parti la propaganda non mancasse di insistere su questi temi. La Francia, pur non potendo agire troppo ufficialmente, manteneva infatti una salda intesa con gli ottomani. Ma non si tratta solo di diplomazia.
Al di là delle guerre persistevano interessi economici che rendevano il Mediterraneo uno scacchiere unico, denso di relazioni. E ancora, oltre i commerci, c'era ormai un crescente interesse di una parte per l'altra. Lo si era visto bene proprio con Solimano: ritratto tre volte da Tiziano, lodato in quanto magnanimo e giusto da un intellettuale umanista come Paolo Giovio. Ma era l'intero mondo turco ad affascinare: nonostante la fama di estrema durezza, di crudeltà, di barbarie molti viaggiatori del XVI secolo ne lodavano la giustizia e la pace con le quali i suoi imperatori governavano un insieme di genti tanto diverse fra loro. E nell'Europa sconvolta e massacrata dalle guerre di religione non era cosa da poco, anche perché all'interno del mondo turco vigeva invece ampia libertà di culto, almeno per i «popoli del libro».
Prigionie, conversioni, riscattiOltre alla pervasività dei conflitti, l'Europa era anche sempre più una società nella quale la mobilità verticale era resa difficile dal peso esercitato dalle aristocrazie economiche. Per chi nasceva contadino o pescatore, insomma, era arduo anche solo pensare di poter ascendere la scala sociale; non così nel mondo turco, dove il centralismo dirigista faceva sì che almeno nell'esercito gli alti comandi fossero aperti ai meritevoli e ai valorosi. È cosi che fecero carriera molti cristiani, catturati dai turchi e a un certo punto convertitisi all'Islam, magari per sfuggire alla schiavitù, e poi divenuti vizir o ammiragli della flotta ottomana.
Tra le varie conquiste turche nel Mediterraneo, quella della Cipro veneziana ebbe maggiore risonanza in Europa, e le dure condizioni poste dal Turco alla Serenissima per la pace spinsero la città adriatica ad abbandonare la tradizionale timidezza che aveva garantito forme di convivenza con la potenza ottomana e a cercare direttamente l'aiuto della Spagna di Filippo II. È l'inizio della vicenda che condurrà alla battaglia di Lepanto del 7 ottobre 1571. Una battaglia a lungo celebrata con infinita retorica come vittoria della Cristianità contro il Turco e come argine finalmente posto dall'Europa unita all'avanzata musulmana nel Mediterraneo. Proprio per questo bisogna salutare con entusiasmo l'uscita del nuovo libro di Alessandro Barbero, Lepanto. La battaglia dei tre imperi, (Laterza 2010, pp. 769, euro 24 ), che presenta una ricostruzione non soltanto della battaglia, ma anche dell'anno e mezzo che la precedette e che bene ne spiega il significato.
Se, come ricordavano in un'intervista sulla «Repubblica» del 29 novembre lo stesso Barbero e il suo intervistatore Giuseppe Leonelli, l'opera dello storico è, secondo quanto affermava Cicerone, «opus oratorium maxime», cioè un'opera di convinzione, bisogna dire che La battaglia dei tre imperi convince pienamente il lettore, proprio a partire dallo stile dell'esposizione. Ogni capitolo si intitola con una frase che ne illustra il contenuto secondo lo stile picaresco; due esempi tra i più esilaranti: «Capitolo 22: Dove il kapudan pascià riceve l'ordine di attaccare la flotta cristiana, ma poiché questa non si fa vedere spadroneggia nell'Adriatico; sicché a Venezia si fortifica il Lido e si attende il peggio»; «Capitolo 28: Dove il Venier impicca un capitano spagnolo, don Juan sta per fare impiccare lui, poi ci ripensa; faticosamente si riesce a fare la pace fra i cristiani, e la flotta fa vela per Lepanto, anche se ormai nessuno più crede che il nemico uscirà dal porto».
Il modello che viene in mente è ovviamente il Don Chisciotte della Mancia; scelta puramente stilistica da parte di uno storico che è anche un romanziere? Oppure, chissà, forse anche un ammiccamento letterario al suo autore, quel Miguel de Cervantes che nel 1569 si era arruolato in Italia e due anni più tardi aveva partecipato alla battaglia di Lepanto, durante la quale, a causa di un nervo tranciato, perse per sempre l'uso della mano sinistra. Quando nel 1575 stava rientrando da Napoli in Spagna, la nave su cui viaggiava fu intercettata da pirati barbareschi che lo condussero in schiavitù ad Algeri. Dopo molte vicissitudini e tentativi di fuga, fu infine portato presso il beylerbey di Algeri, Hassan Pascià, che decise di tenerlo presso di sé fino a quando, nel 1580, non venne riscattato.
A sua volta, Hassan era un rinnegato cristiano, il veneziano Andrea Celeste, liberato dopo la conversione e avviato a brillante carriera dal Uluç Ali, corsaro e poi ammiraglio della flotta ottomana, ma a sua volta un rinnegato di origine calabrese. Insomma, un quadro affascinante di prigionie, di conversioni e di riscatti, del quale lo stesso Cervantes darà testimonianza in alcuni capitoli del Don Chisciotte, nonché in tre commedie.
Al di là dei rimandi intertestuali, Lepanto. La battaglia dei tre imperi, è un libro storiograficamente solido e documentato, nel quale si ribaltano alcuni luoghi comuni sull'invincibilità dei turchi (e sulle convinzioni a riguardo degli europei), sulla presunta unità del fronte cristiano, ma soprattutto sull'importanza epocale dell'evento: la guerra per Cipro, alla fine, fu vinta dagli ottomani, non da Venezia e dai suoi alleati. Inoltre, sottolinea come già a Lepanto cominciava a manifestarsi quella superiorità tecnologica degli europei e delle loro armi da fuoco che avrebbe messo presto in crisi l'impero ottomano. Certo, la sconfitta subita fu importante: come scrive lo storico svedese Jan Glete in un libro del 2000 oggi pubblicato in Italia (La guerra sul mare. 1500-1650, Il Mulino, pp. 446, euro 28). «Con la perdita di circa 180 galee e 60 navi più piccole da parte ottomana contro 12 galee cristiane, Lepanto è stata etichettata come una battaglia da annientamento. Le galee, tuttavia, si rimpiazzavano facilmente. Molto più importanti erano le perdite umane, che furono pesanti e molto più equamente distribuite»
Un libro, quello di Glete, che - pur dedicando poche pagine a Lepanto - si inserisce nel nostro discorso, in quanto mostra, nel suo ampio affresco, come il Mediterraneo stesse ormai perdendo la sua centralità: mentre i «tre imperi» del titolo di Alessandro Barbero, ossia l'ottomano, l'asburgico di Spagna e il veneziano si combattevano per Cipro, nei mari del nord sorgevano potenze che, restando in disparte, affilavano quelle armi che le avrebbero condotte ben presto a dominare il mondo e a sostituirsi ai vecchi dominatori di un tempo. Insomma, per dirla con Barbero, «l'importanza storica di Lepanto sta soprattutto nel suo enorme impatto emotivo e propagandistico» e «sotto il profilo dell'informazione e dell'opinione pubblica, assai più che per la qualità degli archibugi e dei cannoni, l'impero ottomano soffriva già, nei confronti dell'Occidente, di quel ritardo che un giorno lo avrebbe perduto».
I giannizzeri riorganizzatiPer il momento, tuttavia, la decadenza ottomana appariva lontana. Tra Cinque e Seicento il Turco aveva siglato paci con la Spagna e l'impero germanico, che cedeva la Transilvania ma teneva l'Ungheria. Nonostante Richelieu e il suo segretario-consigliere padre Giuseppe appoggiassero progetti di crociata volti addirittura al recupero di Istanbul-Costantinopoli, l'Europa stava entrando nella fase della guerra dei Trent'Anni, mentre i turchi avevano problemi sul fronte persiano. L'offensiva riprese nel 1645, con l'attacco ottomano contro la Creta veneziana, che si risolse tuttavia in una sconfitta per l'aggressore, seguita da una seconda, sempre per mano veneziana, nel 1656 al largo dei Dardanelli. Tuttavia, il nuovo gran vizir, l'albanese Mehmet Köprülü, seppe risollevare le sorti dell'impero attraverso una riorganizzazione rigorosa dei giannizzeri e una migliore politica fiscale, che dettero come frutti immediati la riconquista delle isole di Lemno e di Tenedo a danno di Venezia.
Intanto, però, la guerra si stava riaprendo sul fronte danubiano. Nonostante una importante vittoria dell'armata asburgica, per una volta spalleggiata dai francesi, nella battaglia di San Gottardo sulla Raab nel 1664, gli eserciti ottomani si spingevano ormai verso il cuore dell'Europa, prima con una campagna militare contro la Polonia, e poi soprattutto, tra il luglio e il settembre del 1683, con l'assedio che le truppe del gran vizir Kara Mustafà posero a Vienna. Questa volta però la Francia del Re Sole non aveva alcuna intenzione di appoggiare l'imperatore suo correligionario, e anzi approfittò dell'occasione per annettere l'Alsazia, la Lorena, la Saar e il Lussemburgo, e per invadere i Paesi Bassi spagnoli.
Kara Mustafà si era impegnato nell'impresa cedendo agli inviti dei nobili ungheresi filoturchi, e confidando in una facile capitolazione. L'impresa, come sappiamo, non riuscì, e l'assedio di Vienna si rivelò militarmente disastroso per gli ottomani quanto lo era stata Lepanto nel secolo precedente.
Una vicenda con molti attoriMentre la battaglia sui mari ha goduto a lungo di grande interesse e di alterna letteratura, l'assedio di Vienna del 1683 sembra aver richiamato l'attenzione di studiosi ed editori soltanto negli ultimi anni. Ultima nella serie di opere dedicate a questo episodio è Il nemico alle porte. Quando Vienna fermò l'avanzata ottomana di Andrew Wheatcroft (Laterza, pp. 410, euro 24), nella quale l'assedio è presentato come «l'ultimo grande assalto musulmano all'Occidente» e che dunque si richiama ancora una volta alla retorica dello «scontro di civiltà». Vienna, insomma, come una nuova Poitiers o una nuova Lepanto; una proposta che nasce, alla luce della corrente storiografia, a partire dall'opera dello stesso Barbero, come ideologica e obsoleta.
Non mancano, nel Nemico alle porte, motivi di interesse: l'autore si è documentato e offre un quadro puntuale degli eventi bellici, nella tradizione della storiografia militare inglese all'interno della quale si inserisce. Ciò che manca è una visione d'insieme della situazione europea del tempo, è la comprensione che lo scontro ebbe molti protagonisti, la vicenda diplomatica molti attori, e certo non si consumò schematicamente con l'Europa da una parte, il Turco (o peggio, l'Islam) dall'altra. Il ruolo filoturco della Francia, per esempio, è del tutto estraneo alla visione di Wheatcroft. Insomma, se dell'assedio di Vienna del 1683 bisogna tornare a parlare, sarebbe opportuno farlo sulla falsariga di quanto Barbero ha realizzato con la battaglia di Lepanto: all'insegna, cioè, della demitizzazione e della necessità di restituire alla storia la sua multidimensionalità.

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