5.5.11

Mafia e pallone. Le mani sul calcio dai dilettanti alla Serie A (di Giuseppe Nicoletti)

Da "A sud Europa", periodico del Centro Studi Pio La Torre, riprendo quest'articolo di Giuseppe Nicoletti, anticipazione di un libro, che uscirà prossimamente. La foto del calciatore (raffigura l'inglese Alf  Ramsay e risale al 1952) ha scopo esornativo e non ha alcun rapporto con le mafie. (S.L.L.)
Riciclaggio, scommesse clandestine, procuratori e agenti collusi, scuole calcio in mano alla criminalità, presidenti prestanome. È il “gioco del calcio” come lo descrive il dossier dell’associazione Libera, anticipazione del libro inchiesta di Daniele Poto, La mafia nel pallone, pubblicato da Edizioni Gruppo Abele. Una ricerca completa, alimentata da numerose indiscrezioni
investigative, che raccoglie le principali inchieste su infiltrazioni mafiose e corruzione nel mondo del calcio. Dalla Lombardia al Lazio, passando per la Campania, la Basilicata e la Calabria, con un radicamento profondo in Sicilia, lo sport, e in particolare il calcio, è sempre stato un terreno fertile per gli interessi voraci dell’economia criminale. A spartirsi la torta il gotha delle mafie, più di 30 clan direttamente coinvolti. Dai Lo Piccolo ai Casalesi, dai Mallardo ai Pelle, dai Misso alle cosche dei Pesce e Santapaola.
“Questo dossier dimostra che la criminalità organizzata nel calcio c’è, è sedimentata sul territorio, serve a dare prestigio ai boss e ad arruolare il loro piccolo esercito”, commenta don Luigi Ciotti, presidente di Libera. Un “piccolo esercito” di fedelissimi, radicato nel territorio, rispettoso delle gerarchie e dedito al culto del capo. Emblematico quanto accaduto nel novembre 2009 a San Luca, il paese della Locride teatro della faida culminata con la strage di Duisburg del Ferragosto 2007. Nell’occasione, i giocatori della squadra locale che militava nel girone D della prima categoria, all’insaputa del loro presidente, il parroco don Pino Strangio, scesero in campo col lutto al braccio per rispetto al boss Antonio Pelle, detto “la mamma”, un nome storico della ‘ndrangheta, morto il 4
novembre per cause naturali dopo essere stato arrestato il 12 giugno 2009 dopo una latitanza durata nove anni. Il sistema football, non sempre conscio del pericolo e poco aiutato dalle istituzioni, il cui grado di consapevolezza è molto relativo, offre molti “assist” alla criminalità organizzata. L’esplosione del fenomeno delle scommesse sportive, per esempio, scatenato in Italia dalla liberalizzazione del settore, ingolosisce oltremodo le associazioni mafiose, sempre pronte a fiutare l’affare. “Mi chiedo davvero se un Paese in crisi come il nostro abbia bisogno di tutti questi centri scommesse”, si chiede Daniele Poto. “I regolamenti sono molto liberali, a volte basta solo un’autocertificazione, ma credo che sarebbe importante controllare cosa c’è dietro questi lussuosi punti di giocata che aprono in continuazione”, conclude l’ex giornalista di Tuttosport.
Lascia perplessi, a questo proposito, la decisione della Lega di serie B di far sponsorizzare il campionato dalla società di giochi e scommesse Bwin. L’accordo è stato formalizzato con grande entusiasmo delle società cadette, anche in ragione dell’assonanza concettuale: campionato di serie b = Bwin. Peccato che a scommettere siano molti calciatori, in evidente conflitto d’interesse con i valori di lealtà sportiva. Le scommesse hanno cambiato le abitudini del calcio, dei suoi protagonisti, e le puntate su internet hanno reso praticabili un gran numero di scorciatoie. Così commenta Ludovico Calvi, amministratore delegato di Lottomatica scommesse, intervistato nel maggio scorso da Corrado Zunino di Repubblica: “Quest’anno siamo riusciti a salvare la pelle. Basta distrarsi 48 ore e ti lasciano in mutande. Ci sono organizzazioni capaci di muovere un gran numero di picchettisti sulle agenzie del territorio. Tutti i giorni, più volte al giorno”. Emblematica la partita Chievo-Catania dello scorso campionato, un vero e proprio bagno di sangue per i bookmakers inglesi. “An italian Job”, titolò il Sun. I banchi di Londra, Manchester e Liverpool videro bruciarsi oltre due milioni di sterline per non aver dato credito alle voci di un pareggio annunciato. Eppure, la Snai aveva chiuso le puntate sulla partita già da qualche giorno, insospettita dal generoso
affluire di denaro sul pareggio di Verona. Per la cronaca finì 1-1, con rigore di Maxi Lopez e undici errori sotto porta di Pellissier e compagni.
Il libro di Poto illustra anche come i meccanismi d’inquinamento del sistema calcio vengano innescati a partire dalle fondamenta. Questo fenomeno è molto evidente in Sicilia, soprattutto nei meandri del calcio giovanile. Dove la mafia decide i destini di molti giovani calciatori, si truccano le partite e perfino le date di nascita. Si pensi ad Alfonso Sclafani, uno dei tanti talenti precoci del calcio isolano, nato nel 1982, che diventava un classe’85, cambiava nome e categoria quando c’era da vincere le partite e sfruttare il vantaggio dell’età. Era un giovane promettente e riuscì ad ottenere un provino con l’Empoli calcio. I dirigenti toscani, però, conosciuti i brogli del suo passato lo rispedirono a casa. Oggi Sclafani fa l’idraulico occasionale, “ha perso il treno” si dice in questi casi, e arricchisce le fila dei talenti falliti del calcio siciliano. Ma per una promessa non mantenuta altri ancora riescono a sfondare. È il caso del palermitano Gaetano D’Agostino, oggi alla Fiorentina. Classe 1982, è passato per Bari, Roma, Messina e Udine. Il suo caso è particolare perché il giovane cresce e si afferma calcisticamente grazie al suo indubbio talento, anche se rimane provata la segnalazione di Marcello Dell’Utri al Milan, rivelatasi poi poco influente per le sua futura carriera. Certamente il “battesimo” resta un favore non da poco rispetto ai tanti non raccomandati, fermi per definizione ai nastri di partenza, falliti nel calcio e dunque costretti a cercarsi un lavoro.
È difficile affermarsi partendo dalla Sicilia. Da noi s’investe poco nei settori giovanili e il minimo di calciatori che approdano in serie A non è in sintonia con l’alta densità delle nostre scuole calcio. Abbiamo detto che la mafia s’infiltra nel pallone a partire dalle radici, in quella zona grigia compresa tra i settori giovanili e le serie minori. Proprio in questi ambiti muove i primi passi da imprenditore Marcello Dell’Utri, che inizia come direttore sportivo della Bacigalupo. Ecco il suo profilo calcistico, tracciato dai pm che lo accusano di estorsione nell’ambito di un’inchiesta che parte dal ’92, quando Dell’Utri, già presidente di Publitalia, avrebbe taglieggiato il patron della pallacanestro Trapani: “La nascita dei primi rapporti tra Dell’Utri e l’associazione mafiosa è di difficile datazione. Dovendoci basare sugli elementi raccolti, non ancora appurati pienamente in dibattimento, si può dire che è presso il club calcistico Bacigalupo, cioè in un ambiente, come dirà Dell’Utri stesso, “interclassista”, che si registrano i primi certi rapporti tra esponenti mafiosi e il Dell’Utri stesso”. Un esempio su tutti; Gaetano Cinà, condannato a nove anni per associazione mafiosa, che lo chiama “allenatore” e che gli raccomanda il figlio Filippo prima al Varese e poi al Palermo. Non soltanto serie minori, dunque, anche il Palermo calcio nel 2007, è al centro di una vera e propria bufera giudiziaria a causa delle frequentazioni societarie con numerosi esponenti di spicco di Cosa nostra. Un gran numero di personaggi “discutibili” gravitavano, in quel periodo, attorno alla sede di viale del Fante e sembravano molto vicini all’allora direttore sportivo Rino Foschi. C’erano i procuratori Marcello Trapani e Giovanni Pecoraro, arrestati nel 2008 per concorso esterno in associazione mafiosa ed estorsione, accusati di essere “amici” dei boss Sandro e Salvatore Lo Piccolo. I pm della Dda sostengono che Pecoraro e Trapani avrebbero esercitato pressioni su Foschi per far esordire in serie A alcuni giovani calciatori di cui seguivano gli interessi. C’erano anche un gruppo di calciatori, tutti ex Palermo (Brienza, Aronica e Montalbano), indagati dalla procura del capoluogo per frode sportiva. Avrebbero cercato di “aggiustare” una partita, nel 2003, per favorire la scalata del Palermo verso il calcio che conta. Ma non solo procuratori, dirigenti e calciatori collusi, nel Palermo di qualche anno fa.
Anche Cosa nostra aveva i suoi uomini. Un mafioso condannato al primo maxiprocesso a cinque anni e quattro mesi di reclusione, Totò Milano, il cui nome ricorre spesso nei pizzini trovati nel covo del boss Salvatore Lo Piccolo. Milano avrebbe seguito direttamente il business che ruotava attorno al Palermo, informando i boss sugli affari che si potevano fare. Così com’è indicato in un pizzino dove viene riferito a Lo Piccolo di alcuni lavori in corso nel campo di allenamento di Boccadifalco, o per la costruzione del nuovo stadio che dovrebbe essere realizzato nel quartiere S. Filippo Neri. Milano era in rapporti con Giovanni Pecoraro, Rino Foschi e l’amministratore delegato Rinaldo Sagramola. Tutti ora dicono che Milano era “un tifoso come tanti”. Foschi, in particolare, si è sempre dichiarato “sereno”, negando di aver subito pressioni da personaggi vicini a Cosa nostra. Ancora non sa spiegare, però, la testa di agnello recapitatagli quattro anni fa, quando era ancora il ds del Palermo.
Non si pensi, però, che il calcio del Nord sia immune da contaminazioni. In questo campo le due Italie sono unite più che mai. Nell’ottobre 2009 il tribunale di Palermo ha sequestrato le quote azionarie di Danilo Preto, amministratore delegato del Vicenza calcio e manager del gruppo di supermercati Sisa. Ammontano a 250 milioni di euro le quote azionarie sequestrate, ricevute, secondo gli inquirenti, in seguito a cessioni spontanee da parte di prestanome della cosca Lo Piccolo. Le mafie nel calcio trovano un terreno fertile, dunque. Cercano di entrare lentamente e dove non riescono con le armi della “persuasione” provano a farlo con la forza bruta. Nel 2010 la squadra mobile di Caltanissetta scopre che un mafioso della zona, Daniele Emanuello, aiutato dai suoi picciotti, cerca di mettere le mani sulla squadra di calcio di Gela. Furono sette le ordinanze di custodia cautelare emesse dal Gip di Caltanissetta: tutti rispondono, a vario titolo, di associazione mafiosa, tentato omicidio, estorsione, danneggiamento e rapina. Emanuello voleva che Fabrizio Lisciandra, presidente della squadra di calcio Juve Terranova, rassegnasse le dimissioni per imporre l’insediamento di un proprio gruppo dirigente. Al suo rifiuto il clan decise di eliminarlo. Lisciandra se la cavò con una ferita alla gamba solo perché la pistola, dopo l’esplosione del primo colpo, s’inceppò.
“Mi stupisco di chi si stupisce”, ha affermato Don Luigi Ciotti, “da sempre le mafie hanno controllato sul territorio le squadre di calcio. Oggi più che mai gestiscono le scommesse, condizionano le partite, usano lo sport per cementare i legami della politica, riciclano il denaro”.
“Le mafie”, conclude Don Ciotti, “usano anche il calcio giovanile per arruolare nuove manovalanze. Possedere una squadra di calcio rappresenta in tante realtà un fiore all’occhiello, una testimonianza di prestigio e soprattutto uno strumento di controllo del territorio”.
È proprio vero, ha ragione Don Ciotti. Noi siciliani dovremmo saperlo bene. Non c’è niente, ma proprio niente di cui stupirsi.

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