16.5.11

Mino Maccari (di Leonardo Sciascia)


Il fascicolo n.1-2 della rivista “Galleria”, del gennaio-aprile 1970, pubblicata a Caltanissetta da Salvatore Sciascia, di cui Leonardo Sciascia (amico, ma non parente dell’editore) era animatore e direttore, fu interamente dedicato a Mino Maccari. Conteneva scritti di Carlo L.Ragghianti, E.F. Acrocca, Marziano Bernardi, Attilio Bertolucci, Italo Cremona, Libero De Libero, Ennio Flaiano, Roberto Longhi e dello stesso Maccari; e l’intervento di Sciascia che è qui riproposto. (S.L.L.)
Mino Maccari, Signorine.

Guardo, per così dire in anteprima, i quadri di Maccari che usciranno nella mostra della galleria “La Tavolozza”. Ed ecco che prendendo avvio e ritmo da quella (direbbe il lucchese Nieri) nudabruca che fa da chepì all’ufficiale austroungarico, tutte le donnine schizzano dai quadri a far da carosello mentre nella memoria mi affiorano due versetti, sei nomi che quasi conferiscono a ciascuna una identità:
Lolo Dodo Joujou
Margot Cloclo Froufrou”.
Da dove vengono questi due versetti, questi sei nomi? La memoria cerca, trasceglie; e finalmente estrae, così come il pappagallino fa col pianeta della fortuna, un foglietto, una pagina. Stranamente, è una pagina di John Dos Passos: del “Quarantaduesimo parallelo”, e più precisamente di quell’“occhio fotografico” che qualcuno che non ha mai letto Dos Passos crede di avere ora, proprio ora, inventato. E non c’è dubbio che i due versetti li ho letti la prima volta in Dos Passos, ma per Maccari il contesto in cui la memoria esattamente li ritrova non mi serve molto. Occorre cercare altro contesto, quello originario, quello in cui l’“occhio fotografico” di Dos Passos li colse. Ancora uno sfaglio della memoria: Maurice Chevalier – e dal suo labbro asburgico quei sei nomi vengono fuori graficamente, come nel fiato di un personaggio dei fumetti: Lolo Dodo Joujou, Margot Cloclo Froufrou. Un piccolo passo indietro – dalla vesione cinematografica di Lubitsch al teatro del mio paese, anno 1930, compagnia Petito-D’Aprile – ed ecco che ci sono. “Donne donne eterni dei!”. La vedova allegra di Franz Lehar. Prima rappresentazione (e qui la memoria cede al dizionario): “Theater ander Wien, 1905”. Un anno molto lontano per un pittore nella pittura così giovane. E lontano anche il mondo di Lehar, quella superficialità, quella leggerezza, quella svagata felicità. Ma non bisogna diffidare degli imprevedibili giuochi della mente: e tutto sommato un Lehar calato in Dos Passos non andrebbe poi male come chiave per certi quadri di Maccari. Si può anzi dire che andrebbe meglio di quella, spesso usata, della “toscanità”, della “strapaesanità” toscana; e senz’altro serve a sollecitare richiami più vasti, riferimenti meno angusti; a collocarlo insomma in più ampio respiro di esperienza, di storia. Senza dire che da questo giuoco forse gratuito e certamente di superficie, da questa piccola serie di evocazioni (le donnine di Maccari che evocano, attraverso l’evocazione di Dos Passos, La vedova allegra di Lehar), si può andare più a fondo – così come più a fondo va Maccari. A Maupassant. Ai Goncourt (e penso, si capisce, al Journal). E naturalmente sto richiamandomi a dei contenuti: visione della vita, sentimenti, giudizi, modi di assumerli, di giuocarli, di filtrarli; l’intelligenza delle cose abbastanza libertina (“libertino”, diceva Bayle, “è colui che pensa liberamente”): il tipo di scelta operato sulla realtà, il taglio; e il gusto dell’aneddoto, della battuta, del calembour. Ché su come Maccari dipinge c’è da far altro discorso, e da altri: ma un discorso che in ogni caso tenga d’occhio l’Europa, tutto quello che nella pittura europea si è mosso tra le due guerre.
Intanto, per quello che io posso dire, si può appunto cominciare dalle donnine. Che non sono propriamente allegre, anche se così possono essere denominate per la categoria di appartenenza. Di nessuna allegria, anzi: spesso malinconiche fino alla tristezza, dietro il sorriso stereotipo da ballerine di fila, qualche volta macerate nel rancore e torve. Sono sorelle di Boule de suif, e di altre più o meno intrepide prostitute di Maupassant, che non senza disprezzo e vendetta si sacrificano al borghese ricco, al politico pasciuto, al burocrate, all’ufficiale, al gerarca: insomma, al potere sempre abietto, sempre bestiale, sempre nauseante. E si direbbe che a differenza di Maupassant, in ciò che Maccari lascia intravedere la sua fondamentale anarchia. Un atteggiamento di radice ottocentesca, che in Maupassant, in Tolstoi, in Kuprin ha avuto declinazioni umanitarie e non prive di sentimentalismo (e con qualche riverbero di ipocrisia), passando attraverso Lautrec arriva a Maccari come una specie di reagente capace di suscitare una satira precisa e al tempo stesso fantasiosa. E poiché ho fatto il nome di Lautrec, non gratuitamente, credo, si può passare ad applicare a Maccari quel che Dunoyer de Segonzac diceva di Lautrec: “il est significatif que l’art de Lautrec se soit instinctivement limitè au domaine de l’humain et des etres vivants; le monde végétal ne l’a pas intéressé, il parlait ave un peu d’ironie du peintre paysagiste intallé devant son chevalet et peignant d’après nature sous un parasol”. E non so se anche Maccari parla con ironia di coloro che ritraggono la natura stando sotto un parasole, ma è certo che il paesaggio entra nella sua pittura soltanto come sfondo al trascorrere dei fatti umani, dei personaggi. E forse raramente ha sentito il bisogno di dare un ambiente se non per accenni, bastandogli l’aneddoto, il personaggio. E senz’altro non ha mai dipinto una natura morta. E degli animali s’interessa come a caricatura dell’umano, a ripetizione dei caratteri, dei costumi, delle abitudini sciagurate o durevoli degli uomini. Perché sono le apparenze divertite, sotto una fantasia che sembra ilare, c’è nelle cose di Maccari qualcosa di simile alla pirandelliana “pena di vivere così”, il senso della “trappola”, lo smarrimento della creatura di fronte allo specchio, di fronte alla natura, di fronte al destino.
E per finire con una fantasia questa nota su un pittore fantasioso. C’è una sua incisione che rappresenta un uomo curvo, il sigaro in bocca, che scende una scala appoggiandosi al corrimano mentre una donna proterva, sigaretta con bocchino, scollatura generosa, sale. Questa scala, questo incontro, mi ha sempre fatto pensare a un aneddoto raccontato da Goncourt: “Baudelaire scendendo dalla scala di una prostituta, incontra Sainte-Beuve. Baudelaire: “Ah! Io so dove vuole andare!”. Sainte-Beuve: “E io so da dove lei viene”. Quest’ultima battuta nella xilografia di Maccari, la donna la pensa trionfalmente sbirciando l’uomo curvo, guardingo, vergognoso che scende le scale. Ed è un po’ come un apologo: dell’uomo sempre in fallo sulle scale della vergogna. Solo che non bisogna prendersela, ci insegna Maccari: perché se c’è chi sa da dove veniamo, noi sappiamo dove vogliono andare gli altri. E dunque andiamo a fare quattro chiacchiere al caffè: come quel giorno poi fecero Baudelaire e Sainte-Beuve.

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