10.5.11

Rivoluzione culturale, un'utopia attuale (di Edoarda Masi)

Ho riguardato la collezione di "Vento dell'Est", la rivista che Maria Arena Regis lanciò nel 1966, quasi ad accompagnare la Rivoluzione culturale in Cina, pubblicando trimestralmente documenti, testimonianze, interpretazioni. E mi rendo conto del perché e del percome intelligenze assai vive come quelle di Rossanda e di Natoli guardarono con interesse e speranza a quella elaborazione e a quella ricerca.
Forse - come ora ci dicono in tanti, primi fra tutti gli eredi cinesi degli sconfitti di allora (i "dirigenti del partito decisi a intraprendere la via capitalistica"), oggi incontrastati vincitori - ci ingannavamo. Forse la grande lotta - in primo luogo giovanile, poi operaia - per l'uguaglianza, per il potere dal basso, per il superamento della separazione tra lavoro intellettuale e lavoro manuale, tra città e campagna, tra educatori ed educandi, tra dirigenti e diretti era tutto un abbaglio e le proclamazioni democratico-libertarie di Mao e dei maoisti ("Bombardare il quartier generale", "Ribellarsi è giusto", ecc.) erano una mistificazione, che celava una sordida lotta per il potere con scontri durissimi, epurazioni, massacri di oppositori.
O forse no: forse la storia che, con una scarsa documentazione, i vincitori di oggi, in Cina e nel mondo, vanno raccontando nasconde il terrore che il vento dell'Est torni a soffiare. Ne è convinta Edoarda Masi che, con la competenza di chi in Cina è stata a lungo e sa ci che cosa parla, dalle pagine dei "Quaderni piacentini" ci raccontò delle Guardie Rosse, delle lotta contro "i quattro vecchi", della Comune di Shangai, delle contraddizioni in seno al popolo. Qualche anno fa (25 maggio 2006), nel quarantennale della grande rivolta universitaria di Pechino, sul "manifesto" ripropose la Rivoluzione culturale come utopia attuale. Io credo che, di fronte alla barbarie che dappertutto sembra avanzare, quel sogno sia attuale oggi ancor più che allora. (S.L.L.) 

Sono passati quaranta anni dall’inizio della rivoluzione culturale in Cina, o meglio, da quando il movimento sfuggì dalle mani della burocrazia, dopo il dazebao della giovane Nie Yuanzi il 25 maggio 1966: per breve tempo, giacché nel corso del 1968 (febbraio o dicembre, secondo le varie interpretazioni) era virtualmente conclusa.
Esporre nelle linee essenziali le vicende di quel movimento, i suoi contenuti, i motivi della sua eccezionale importanza nella storia mondiale, le ragioni della sua sconfitta e, ad un tempo, della sua attualità, risulta impossibile. Infatti il pubblico al quale ci si rivolge ha subìto trent’anni di lavaggio del cervello, più che mai intenso e distruttore nell’ultimo decennio, a proposito non tanto o non solo delle questioni cinesi, quanto della conoscenza e dell’interpretazione della storia degli ultimi due secoli, delle origini e dello sviluppo del movimento operaio internazionale, degli attacchi violenti e ininterrotti ai paesi socialisti (che hanno contribuito a deformarne irrimediabilmente il carattere); per non parlare dei contenuti del pensiero socialista nelle sue diverse correnti, del marxismo critico e antistalinista, della lunga lotta dei popoli asiatici e africani, nel secondo dopoguerra, per formare un fronte di «terzo mondo» disimpegnato dai due blocchi di potenza (distrutto al prezzo di un milione di morti in Indonesia fra il 1965 e il 1966, ad opera dei servizi segreti Usa).
Sbaglia chi lamenta l’assenza di valori nella società di oggi, che in realtà assume il profitto a valore dominante e universale - come Dio indiscutibile e onnipotente. Non solo la conoscenza del pensiero socialista è stata interdetta, ma si è disgregato lo stesso contesto dei valori borghesi, di cui tutti si riempiono la bocca: democrazia, tolleranza, libertà... come le «menzogne viventi» di cui scriveva Sartre nel 1962, lanciate dalle città d’Europa in Africa, in Asia: «Partenone! Fraternità!», risuonano vuote oggi fino nel centro delle metropoli. Hanno la stessa funzione dei «variopinti legami» della società feudale di cui dice il Manifesto del partito comunista. Li ha spazzati via, divorando la stessa borghesia, un padrone anonimo come Dio indiscutibile e onnipotente, che chiamano «mercato» per non usare il termine «capitale», che sarebbe più corretto.
Il padrone anonimo domina oggi nel mondo, semina degrado dolore e distruzione anche nei paesi che avevano cercato la via socialista; anche in Cina, dopo che, con la morte di Zhou Enlai e di Mao Zedong, ebbero fine le lunghe lotte con cui prima, durante e dopo la rivoluzione culturale, si era tentato disperatamente di bloccarne l’ingresso. Si era arrivati, da parte dei rivoluzionari cinesi, a riconoscere il dominio effettivo del capitale anche nell’Unione sovietica staliniana e brezneviana (le stesse conclusioni alle quali, per altra via, è giunto Istvàn Mészàros); e ad attaccare quanti, nel Pcc, intendevano seguirne la strada: quelli che oggi sono al potere. Come già da un pezzo e ripetutamente è stato dimostrato, il degrado e la distruzione, l’allargamento oltremisura della forbice che divide i ricchi dai poveri, la stratificazione sociale sempre più rigida, la perdita di ogni reale cittadinanza da parte dei poveri - la stragrande maggioranza – non sono fenomeni marginali, difetti ai quali porre un rimedio, né residui di un passato di «arretratezza» da superare, ma il risultato del meccanismo universale in atto e la condizione stessa della sua esistenza. Rapidamente avanzano dalla periferia verso il cuore delle metropoli: chiunque non sia del tutto cieco ne fa esperienza quotidiana.
Più si aggrava l’infelicità della vita senza scopo, del lavoro idiota, del lavoro con pericolo di morte e del non lavoro, dell’assenza di umanità, della solidarietà ridotta a beneficenza, anche nelle felici metropoli, dove il nemico da combattere ha perduto anche i connotati culturali positivi della borghesia, più diventa indispensabile per quest’ultimo che la massa degli infelici sia accecata: che sia cancellata la nozione stessa di un’alternativa possibile, e la storia di quelli che per essa sono morti, a milioni nel corso di due secoli. Le figure più grandi delle rivoluzioni borghese e socialista e dei movimenti anticolonialisti vengono dipinte come quelle di pazzi e di criminali (Robespierre, Lenin, Mao) o di sognatori (Gandhi, Ho Chi Min), con l’aggiunta magari di qualche pettegolezzo da rotocalco sulla loro vita sessuale. Non solo, ma si arriva ad attribuire ai dirigenti rivoluzionari la responsabilità dei guasti provocati dalle politiche attuali contro le quali si erano battuti. Quel che importa è eliminare la possibilità che si arrivi a credere in qualcosa, che si scopra che esistono verità più vere dei «variopinti legami» ai quali per convenzione e conformismo si deve fingere di credere - solo fingere.
Come raccontare allora che i giovani cinesi in rivolta già in quegli anni lontani avevano sollevato questi problemi, tentato di fare un passo oltre, verso una dimensione comunista dei rapporti umani (economici e sociali); che avevano posto con grande libertà le questioni del rapporto fra dirigenti e diretti, fra partito e popolo, fra stato e individuo; fra colti e incolti; fra le esigenze della produzione e quelle del benessere immediato di chi lavora. Nelle grandi città industriali e nei loro hinterland sperimentando forme audaci di organizzazione «orizzontale», di gestione decentrata del territorio, di imprese miste agricolo-industriali; in alcune comuni, realizzando forme inedite di gestione «dal basso». Il punto d’approdo di oltre un secolo di movimento dei lavoratori, e anche il momento che ne ha segnato per ora la sconfitta (assai più del crollo del muro di Berlino, rilevante per la politica delle potenze: il socialismo di Urss e satelliti era in coma da molto tempo).
Tutta ideologia, ti diranno gli apologeti del presente, i cinici ideologi del «mercato». La sola cosa possibile, allora, è di consigliare a qualche volenteroso di ricercare i vecchi documenti, ricominciare a studiarli: anche per vedere se alla fine non possano essere di qualche utilità qui e ora.

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