“il manifesto” del 18.07.2008 anticipava ampi stralci da un saggio di Gianpasquale Santomassimo, tratto dalla Rivista “Passato e presente” con il titolo Segnali di non sottomissione. Si tratta di una rivisitazione del mito del Che Guevara soprattutto attraverso le canzoni a lui dedicate. Un testo interessante e pieno di curiosità di cui recupero una parte. (S.L.L.)
Alberto Diaz («Korda») e Carlos Puebla furono, senza volerlo, i più grandi artefici della costruzione del mito di Ernesto Guevara, offrendo ad esso la forma visiva e sonora che diverrà inscindibile dal suo ricordo. L'icona inconfondibile del Che e la sua colonna sonora obbligata nascono entrambe, è ancora il caso di ricordarlo, prima della morte. Gli scatti fotografici di Korda risalgono al 5 marzo del 1960, e sono solo due fotogrammi in un rullino dedicato soprattutto a Castro, Sartre e Simone de Beauvoir durante la manifestazione di cordoglio e di protesta per l'esplosione (forse dolosa) di una nave carica di esplosivi proveniente dal Belgio e attraccata all'Avana.
Guevara si affacciò brevemente sul palco, restando pochi minuti; Korda riuscì a fissare il suo sguardo fiero e intenso, senza attribuire grande valore a quello scatto. Furono Giangiacomo Feltrinelli e il suo collaboratore Valerio Riva (poi divenuto fervente anticomunista, che rivendicò a sé la scelta dell'immagine) a scoprire all'inizio del 1967 quel particolare che poi, ingrandito, divenne un poster nelle Librerie Feltrinelli. Con la tecnica della serigrafia quella immagine fu convertita in migliaia e poi milioni di t-shirts , riprodotta sui muri, soggetta a variazioni grafiche ancora più fantasiose della Marilyn di Andy Wahrol. E poi si ritrovò in gadget, sigari, tazze, cappucci, accendini, portachiavi, portafogli, protezioni di baseball, cappelli, fazzoletti, canottiere, magliette, borse, jeans, e nei tatuaggi di personaggi illustri (Diego Armando Maradona) come di uomini comuni. La parabola di quella immagine, fervore e speranza suscitati, successiva consuetudine banalizzante, sono stati ricordati benissimo da José Saramago nella Breve meditazione su una foto di Che Guevara : «Al Portogallo infelice e imbavagliato di Salazar e di Marcelo Caetano arrivò un giorno una foto clandestina di Ernesto Che Guevara, quella più celebre di tutte, con intensi colori neri e rossi, che divenne l'immagine universale dei sogni rivoluzionari del mondo... il ritratto di Che Guevara fu, agli occhi di milioni di persone, il ritratto della dignità suprema dell'essere umano. Però fu usato anche come ornamento incongruente in molte case della piccola e della media borghesia intellettuale... frivolezza mondana che non poteva resistere al primo confronto con la realtà, quando i fatti esigevano il compimento delle parole. E allora il ritratto di Che Guevara... è stato rimosso dalle pareti, occultato, nella migliore delle ipotesi, in fondo a un armadio, oppure radicalmente distrutto, come se uno avesse voluto fare in passato qualcosa di cui ora dovesse vergognarsi. Una delle lezioni politiche più istruttive, nei tempi attuali, sarebbe sapere cosa pensano di loro stessi queste migliaia e migliaia di uomini e donne che in tutto il mondo hanno avuto un giorno il ritratto di Che Guevara al capezzale del letto, o di fronte al tavolo da lavoro, o nel salotto dove ricevevano gli amici, e che ora sorridono per aver creduto o aver fatto finta di credere».
Il ragazzo dalla barba nera
Hasta siempre Comandante di Carlos Puebla, contrariamente a quanto molti pensano, non è una elegia mortuaria; come recita lo stesso Puebla nella versione più diffusa della sua interpretazione, la canzone fu scritta quando el comandante en jefe lesse in pubblico la carta despedita del Che. È certo una canzone di addio, ma è rivolta a un Guevara che ha reso pubblica la sua decisione di cercare nuove terre che reclamano il suo impegno: Tu amor revolucionario / Te conduce a nueva empresa / Donde esperan la firmeza / De tu brazo libertario. È la canzone politica più diffusa nel mondo e in assoluto una delle più incise. In rete se ne trovano oltre duecento versioni, che restituiscono stili, ritmi, linguaggi diversi. Con netta prevalenza, ovviamente, dei suoni diversi del continente latinoamericano, dai vecchi cantori del Buena Vista Social Club al samba brasiliano di Chico Buarque, da Oscar Chavez alla versione ritmata di Son Y la Rumba nella colonna sonora di Puerto escondido. Tra le voci femminili, sono particolarmente suggestive le versioni di Nathalie Cardone, Soledad Bravo e Inès Rivero. Tra le traduzioni, quella tedesca di Wolf Biermann (Kommandante), quella francese di Pierre Barouh e quella greca di Vasilis Papakonstantinou. Tra le versioni jazz spiccano quella di George Dalaras e Al Di Meola e soprattutto il lungo e struggente assolo di Jan Garbarek al sassofono.
Il tema di Hasta siempre è mascherato e stravolto in una marcia funebre jazz da Charlie Haden in Song for Che - mascherato fino a un certo punto, se si pensa che Haden fu arrestato a Lisbona per avere eseguito questo brano, pur avendolo omesso per prudenza nel programma del suo concerto. Ma la fortuna «musicale» di Guevara non si esaurisce con Hasta siempre .
Il Che è infatti indubbiamente il personaggio del Novecento al quale è stato dedicato il maggior numero di canzoni. L'elenco sarebbe sterminato, e va molto oltre i confini dell'America Latina, da cui pure viene il contributo più intenso, dagli Inti Illimani di Carta al Che a Silvio Rodriguez di Fusil contra fusil, a Caetano Veloso di Soy loco por ti, America, ai Quilapayun di Cancion funebre para Che Guevara. E su tutti Victor Jara, autore di El aparecido e interprete di Zamba al Che (Bolívar le dió el camino / y Guevara lo siguió: / liberar a nuestro pueblo / del dominio explotador); quel Victor Jara che in Cile seguì fino in fondo il destino di Guevara (torturato e ucciso dai gorilas y generales che aveva denunciato nelle sue canzoni).
Nel tempo sfuma il significato direttamente politico delle canzoni scritte a caldo, e il Che viene evocato come maestro di vita, modello di hombre vertical, come traspare in una delle canzoni più belle, di un maestro della musica andina: Me gusta mirarlo al hombre / plantado sobre la tierra / como una piedra en la cumbre / como un faro en la ribera. [...]/ El que tenga alguna duda / Que se lo pregunte al Che (Athahualpa Yupanqui, Nada más ). La produzione italiana è tra le più cospicue in assoluto, con risultati diseguali. Abbiamo due compitini svogliati di Francesco Guccini, da cui era lecito attendersi molto di più che il Terzo Mondo piange / ognuno adesso sa / che Che Guevara è morto / mai più ritornerà. Una canzone quasi sconosciuta di Domenico Modugno (Morto è il ragazzo dalla barba nera / morto è nell'aria il vento della sera), un vigoroso amplesso rock di Loredana Bertè (Quel basco nero / nel sole rosso... / sempre lo stesso / giù fino all'osso / e dentro di me / ...Comandante Che). In anni più recenti Cohiba di Daniele Silvestri. Ma più che le canzoni direttamente «politiche», risultano autentiche e significative quelle in chiave intimista di Angelo Branduardi (1 aprile 1965) e Roberto Vecchioni (Celia de la Serna), entrambe ispirate al rapporto di Guevara con la madre. Dai diari della motocicletta prende spunto con grande efficacia Transamerika dei Modena City Ramblers. La più bella resta però probabilmente la prima in assoluto, scritta a caldo e in tono malinconico da Sergio Endrigo, Anch' io ti ricorderò (Era mezzogiorno, e prigioniero / Aspettavi che si fermasse il mondo. / Fuori c'era il sole e tanti odori, /E parole antiche di soldati).
Anche in Italia, ma in forma molto più superficiale e banalizzante di quanto accada in America Latina, l'attenzione si sposta su Guevara esempio di coerenza di vita più che politico rivoluzionario. Ma è un Che «imborghesito»: Ernesto Guevara mi piace perché / ha sempre pagato ogni cosa da sé / Mitico Ernesto, comune mortale / che ha dato la vita per un ideale / facendo davvero quel che lui sognava / volendo sul serio quel che poi diceva / esempio per tutti di rara coerenza / anche per chi non approva la sua militanza... il Mitico Ernesto, di buona famiglia / diventò comandante della Santa Guerriglia.../ nessun rimpianto per la sorte che tocca / e infatti lui ride con il sigaro in bocca (Skiantos, Canzone per 'Che' - Guevara Forever ). Il testo di Freak Antoni aveva certamente una componente ironica, come era nei moduli del rock «demenziale» degli anni Ottanta. Nessuna ironia è presente invece in un testo del decennio successivo e che in qualche misura suggella la parabola del mito del Che da simbolo rivoluzionario a generico abitante di un pensiero «positivo» e conforme: « Io credo che a questo mondo esista solo una grande chiesa che parte da CHE GUEVARA e arriva fino a MADRE TERESA » (Lorenzo Jovanotti, Penso positivo, 1994, che prosegue, con disarmante innocenza critica: « passando da MALCOLM X attraverso GANDHI e SAN PATRIGNANO arriva da un prete in periferia che va avanti nonostante il Vaticano »). È l'assunzione di Guevara in un confuso pantheon giovanile di modelli più o meno virtuosi. Souvenir a prezzo d'affezione Questi accostamenti introducono il tema della trasformazione più ardua e faticosa da comprendere e motivare, ossia la metamorfosi dell'icona della guerriglia in simbolo «pacifista». A stretto rigor di termini, Guevara non è e non può essere simbolo di pacifismo: affermarlo sarebbe contraddire il senso del suo pensiero politico, che era e voleva essere esplicito fino all'estremo. (...) Nel tempo, però, quel naturale e inevitabile intreccio tra pacifismo e antimperialismo che ha segnato le manifestazioni giovanili degli ultimi decenni porta naturalmente ad accostare simboli e esperienze di origine diversa, di fatto convergenti. Incide ancor più la banalizzazione del senso originario del mito. Un mito che, nonostante le ossessive denunce del pensiero reazionario, non ha avuto burattinai e artefici occulti, ma si è sviluppato spontaneamente e altrettanto spontaneamente si è trasformato in divenire, vivendo di vita propria.
Molto interessante tutto l'articolo e le varie disquisizioni sulla figura di ernesto guevara della serna.
RispondiEliminadesideravo solo fare un appunto: il pezzo di guccini, se è vero che dal maestrone... da colui che si definisce un cantastorie alla "moda" dei cantastorie emiliani ci si poteva aspettare di piu e di meglio, è anche vero che (come lo stesso guccini ha piu volte precisato) il pezzo non è sul "ché" ma su quella generazione che è rimasta colpita dalla notizia della sua morte.