6.6.11

Chaplin e il cinema. Impressioni di un naïf (Robert Musil)


Berlino.
I teatri invernali non erano ancora aperti, i cinema ronzavano. Che fare? Sconfessai tutta la mia vita e andai in una sala cinematografica.
Se c’era un uomo tra Berlino e Charlottenburg (distanza che si può paragonare a quella Eydtkuhnen – Pechino - New York) che non conosceva ancora Chaplin, quello ero io. Mi fece coraggio il fatto che, intanto, tutto ciò che di rilevante si poteva dire sul cinema era già stato detto da molto tempo: la voce di uno che viene dalla foresta si presenta sempre molto bene vicino allo spirito raffinato degli intenditori.
Chaplin non mi ha stupito, quello che ho visto non mi era nuovo. Avevo visto all’operetta il padre di Chaplin, che apparteneva alla generazione di mio padre. Il meraviglioso e brillante fisionomista, gettato in qualche modo in pasto ai porci, con un ombra di rassegnazione in ogni gesto e in ogni sciocchezza. Avevo visto il Knock About (gruppo di clown d’origine americana, che eseguiva numeri comici nel varietà, n.d. r.) molto tempo prima che arrivasse qui – ad esso si legava un’anima dai tratti sublimi, che lasciava trasparire un senso di umorismo amaro. Sì, vi erano buoni comici e tutti erano acrobati: forse Chaplin è migliore, ma subito mi colpisce quello che è l’elemento comune, la linea di sviluppo che ha creato la fortuna nel cinema. L’andatura rapida e bizzarra, l’agilità che permette di salire sugli armadi come se fossero sgabelli, il travolgere, il venir travolti, gli schiaffi, gli scambi di persona, le pedate, le capriole, le cadute, i salti, non è sempre stato questo l’elisir di lunga vita dell’attore in cui egli ha raggiunto la sua fortuna? Si tratta di un’antichissima tradizione che iniziò con Hanswurst (personaggio grottesco del teatro popolare tedesco nato alla metà del Cinquecento, n.d.r.) e le maschere napoletane. L’attore, infatti, dopo si è rifugiato nell’operetta, abbandonando quella serietà impostagli, suo malgrado, dallo sviluppo del teatro europeo, le cui rappresentazioni avevano il carattere di un rito religioso. Ora questo attore viene liberato in modo esplosivo dal cinema.


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Postilla
Il brano è tratto dall’articolo di Robert Musil Impressioni di un naif , in “Die Muskete”, n.14, 1923. La traduzione italiana, di Laura Olivi, è stata pubblicata su “Alfabeta” n.58 del marzo 1984. 
La parte dell’articolo che ho trascritto di certo ridimensiona Chaplin, considerato la forma attuale di una figura di “attore” che lo sviluppo del teatro europeo aveva mortificato confinandolo nei circhi, nell’operetta o nel varietà e che il cinema, invece, avrebbe liberato. In realtà anche il cinema, nel tempo, ha poi realizzato una sorta di sottomissione dell’attore, al testo e al regista, che col montaggio lo usa a suo piacimento e ne corregge l’esuberanza. E parallela alla sottomissione dell’attore anche nel cinema è avvenuta una sorta di sottomissione del pubblico, costretto al silenzio di un “rito religioso”, costretto a contenere nella sua interiorità le forti reazioni partecipative che al tempo di Musil, ma anche in quello della nostra infanzia, si scatenavano in forma aperta e talora collettiva nelle sale cinematografiche. 
E tuttavia l’impressione “nativa” di Musil, di un carattere “speciale” del cinema, come luogo e come forma di spettacolo, permane anche in noi, come la domanda e la risposta contenute in un passaggio dell’articolo che non ho trascritto: “Che cosa c’è dentro di noi, che ci lega a questa tecnica? Non lo so. Ma esiste”. 

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