7.7.11

Fratello e sorella. Un racconto di vita di Liliana Genovese.

Ancora un racconto di vita della mia mamma, Liliana Genovese, che a me sembra un capolavoro di leggerezza. Ma quasi certamente non sono un buon giudice. La foto ritrae la mia carissima nonna Carmelina di cui tra l'altro si narra l’agire. (S.L.L.)
29 luglio 1947. Ho immagini molto sfocate del mio matrimonio, però ricordo molto bene la sera prima che avvenisse. La mia casa era completamente trasformata. La camera da letto dei miei nonni, attigua al salotto, sembrava una chiesa. La mia madrina Clementina, sorella di padre Muratore, aveva fatto lì un altare bellissimo, c’era perfino l’organo e le sedie: si sarebbe svolto in casa il mio matrimonio.
In quel periodo si usava così nelle famiglie che se lo potevano permettere. La mattina il mio fidanzato era andato a Caltanissetta a prendere tutti i vestiti che mi aveva fatto confezionare da una bravissima sarta, la Capizzi, così si chiamava. Il mio abito da sposa si poteva immaginare solo nelle favole e c’erano tutti gli accessori che servivano. L’usanza del paese era che il fidanzato vestisse di tutto punto la fidanzata. Io non riuscivo a credere che tutto ciò fosse reale.
La sera vennero a trovarmi tutte le mie amiche. In casa era un viavai di persone, parenti, e a tutti si offrivano dolci. Di cosa avvenne l’indomani non so raccontare niente. La cerimonia, la persone che intervennero, non me le ricordo. So solo che, quando apparvi al braccio di mio padre, il mio fidanzato aveva gli occhi pieni di lacrime.
Erano le quattro del pomeriggio quando mi tolsero l’abito bianco e indossai un vestito da viaggio. Era di lino celeste scuro, la giacca aveva le tasche tutte lavorate a punto inglese traforato, la camicetta sotto era senza maniche con un gran collo anch’esso ricamato. La gonna era lunghetta, scarpe e borsa di cuoio chiaro. Partimmo sul calesse con due cavalli e l’ombrellino, tra i baci e i saluti di tutti. I miei genitori non mi fecero alcun discorso. Arrivati che fummo alla stazione prendemmo il treno che portava a Palermo. Io purtroppo non potevo sopportare i grandi viaggi, mi veniva il mal d’auto. In treno era un po’ meglio e avevamo deciso di fermarci in quella città. Con la testa mi appoggiavo alla spalla di mio marito e fu così che arrivammo. Siamo andati all’Hotel del Sole (mi pare che si chiamasse così), con la tessera che diceva “coniugata”.
Che dirvi? Per mio marito ero una persona preziosa, credeva che potessi rompermi o scomparire da un momento all’altro. Siamo stati assieme 56 anni.
Palermo è una città splendida. Io c’ero stata da signorina, ma da sposata era tutt’altra cosa. C’era in quel periodo la Stagione Lirica all’aperto. Non ne abbiamo persa una di opera. A mattina ci svegliavamo e cantavamo i vari pezzi che avevamo sentito e che ci erano piaciuti. La sera alla Sirenetta, a Mondello. Giravamo per i negozi. Insomma tutto era bellissimo, mi ero perfino un po’ ingrassata.
Ma tutte le cose finiscono, si doveva tornare al paese, dove avevamo arredato un bell’appartamento e io dovevo occuparmi di tutto. Quando arrivammo, salutai i miei genitori, i miei fratelli, i miei nonni e fu come se io arrivassi dall’America, tanto mi erano mancati ed io ero mancata a loro. Mia suocera c’invitò a pranzo, pollo ruspante ripieno; a pensarci riesco a risentirne il sapore.
Il pomeriggio andavo da mia madre e poi da mia suocera, mi davo da fare a fare la signora. In quel tempo non c’erano i telefoni in casa; io avevo una ragazza che mi aiutava nelle cure domestiche e scrivevo bigliettini che mandavo a mia madre: “Come si fa questo? come quell’altra cosa?”.
Il tempo passava. Un giorno che mi trovavo in casa dai miei, una parente mi si avvicinò e, con fare confidenziale, cominciò a farmi delle domande: mi piaceva mio marito? stavo bene con lui? “Raccontami – mi diceva – voglio sapere tutto”. Oggi le ragazze parlano con molta disinvoltura, non ci sono tabù, io invece mi sentivo terribilmente a disagio. Ho pensato un poco e poi, con voce sicura, ho detto: “Ma che vuoi sapere? Io e mio marito siamo come fratello e sorella”. E lei ad insistere: “Fratello e sorella?”. “Certo”- risposi - e di quest’argomento non voglio più parlarne”. Ma invece se ne parlò eccome…
La tipa andò da mia madre e cominciò a dire che mi avevano rovinato: un uomo che si comportava come un fratello che uomo era? Bisognava approfondire, parlare con me, forse magari fare annullare il matrimonio dalla Sacra Rota.
Mia madre cadeva dalle nuvole. Pensava: se era vero, perché confidarmi con una estranea e non con lei? Che forse non mi avrebbe capita? I miei avevano sotto casa un magazzino e in un angolo c’era un forno a legna. Mia madre stava facendo le focacce e il parlare di quella cornacchia l’aveva fatta impallidire, ma era nell’impossibilità di dire qualcosa. Erano le quattro del pomeriggio, era l’estate di san Martino, il sole di novembre era caldo, ma il vento piacevole e fresco. Mia madre non stette a pensarci neppure un momento, me la vidi arrivare con il fiatone, tanta era  la fretta di parlare con me. In quei giorni, non so perché, ma avevo sempre la nausea e, qualsiasi cosa mangiassi, mi veniva da vomitare, stavo proprio male. Quando vidi mia madre la gioia fu grande: lei sapeva i rimedi per tutte le cose e bastava vederla perché io mi sentissi meglio.
“Cara – mi disse – stai tranquilla, questi malori vengono quando si aspetta un bambino”. Mi coccolò, mi fece distendere e mi preparò l’allorata (come diceva lei), mi disse che dovevo essere felice, come era felice lei di diventare nonna: “La maternità è l’evento più bello nella vita di una donna”. Andò via leggera come una piuma. Cara mamma mia.  

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