7.7.11

La luna di Ingrao (di Roberto Monicchia - "micropolis ottobre 2006)

Da “micropolis” di ottobre 2006 riprendo una delle splendide recensioni di Roberto Monicchia sull’autobiografia di Pietro Ingrao Volevo la luna. Solo una piccola obiezione, non so se a Monicchia o a Revelli. Siamo certi che quel soldato tedesco che, nel pieno della guerra, cavalcava all’alba in cerca di pace fosse “nazista”? (S,L.L.)

Chi non è stato ingraiano? Al di là delle posizioni contingenti, è indubbio che il dirigente ciociaro, classe 1915, abbia affascinato intere generazioni di militanti di sinistra, per lo spirito di ricerca, l’inquietudine costante, pur nella fedeltà ad una tradizione, a una storia collettiva. Spesso gli sono stati rimproverati astrattezza e utopismo, che il titolo di questa autobiografia (Volevo la luna, Einaudi, Torino 2006) sembra confermare: poi si scopre che quella richiesta si riferisce all’infanzia, quando l’astro gli era stato promesso in cambio dello sforzo di fare pipì. “E allora rivoglio la piscia mia!” - grida il bambino di fronte al mancato adempimento della promessa. Anche questa ironia scettica fa parte della capacità ingraiana di tenere insieme e rendere vitali contraddizioni anche laceranti. Il suo lungo percorso si chiarisce lentamente dai brevi capitoli del libro, la cui semplicità nasconde un prosa controllatissima, increspata di personalismi lessicali, talvolta dispiegata in pagine manzoniane: il ritorno a Lenola attraverso il paesaggio dolente di distruzioni del dopoguerra richiama quello di Renzo nel paese sconvolto dalla peste. Il richiamo agli aspetti “formali” del racconto non è inutile. Ingrao sottolinea come fin dagli anni del Liceo e del Centro Sperimentale di Cinematografia agisca in lui il fascino delle avanguardie artistiche del ‘900: Joyce, Svevo, Montale, Sbarbaro, il primo cinema sovietico, la musica di Schonberg; ne derivano forti riserve sulla linea culturale togliattiana del “nazional-popolare”, che sull’asse De Sanctis-Gramsci allinea un classicismo pedante che non va oltre Carducci. In qualche modo il “non sono persuaso” di Ingrao matura molto prima dell’XI Congresso, senza trovare uno sbocco, ma agendo in profondità nel costituire una personalità, un atteggiamento.
Quella delle avanguardie è la cifra del secolo, la voce capace di registrare le scosse sismiche determinate dall’irrompere della dimensione di massa. Questa è a sua volta l’origine della scelta di vita che porta Ingrao dalle glorie e dalle inquietudini dei Littoriali alla militanza clandestina: la molla dell’azione si carica della curiosità di conoscere da vicino le classi sociali subalterne, di cui si intravede la spinta possente a dare un volto nuovo alla storia. Ma la febbrile passione politica è contrappuntata dal dubbio, non solo quello sui mezzi dell’agire, ma quello esistenziale, che attinge a un fondo oscuro e inesplicabile. Così nella storia di Ingrao convivono senza distruggersi reciprocamente professionismo e ricerca eccentrica, conformismo di partito e “disubbidienza”, presenza nelle istituzioni e attenzione ai movimenti. Si dimostra una volta di più non l’ipocrisia, semmai il paradosso della militanza comunista.
Cooptato nel gruppo dirigente del partito nuovo, Ingrao vive a “l’Unità” il quindicennio postbellico; è una posizione privilegiata per valutare la strategia di Togliatti, centrata sul rendere le classi lavoratrici il perno di una “ricostruzione nazionale”. E’ una politica di grande spessore e lungimiranza, ma col tempo emergono anche i suoi limiti di fondo, in qualche modo legati al concetto leninista e bolscevico di partito e potere. Da un lato l’analisi della società italiana pecca di una visione statica e frontista, poco adatta a cogliere l’evoluzione della composizione delle classi.
Sul piano internazionale, il vincolo di ferro con l’Urss impedisce di cogliere l’emergere - con la decolonizzazione - di protagonisti nuovi, difficilmente includibili negli schemi cominternisti: tardiva e timida è l’apertura del “policentrismo”. In altri termini Ingrao scopre e approfondisce la pluralità del soggetto della trasformazione, la sua articolazione politico-culturale, la sua irriducibilità a una strategia unica.
Negli anni ’60 questa consapevolezza si fa strada in relazione a impetuose trasformazioni  economiche e sociali. Il protagonismo dei popoli oppressi rimette in movimento il quadro dei blocchi, mentre in Italia, tra boom ed emigrazione, novità nel mondo cattolico, crisi del ’56 e centrosinistra, avanza una nuova stagione di lotte operaie e popolari. Su questo versante spiccano due punti. Il primo è il forte impulso democratico e riformatore della battaglia regionalista, esemplificato sulla pluriennale frequentazione dell’Umbria, dalle lotte contadine all’elaborazione del piano regionale di sviluppo. L’altro è l’esplosione di un’inedita soggettività operaia, all’incrocio di emigrazione e fabbrica fordista, che nella stagione dell’autunno caldo giunge a porre il problema del potere sul terreno dei rapporti di produzione, una specie di percorso a ritroso “da Lenin a Marx”.
E’ una riflessione per niente avulsa dall’impegno militante. Capogruppo alla Camera e membro dell’ufficio politico, Ingrao si ritrova protagonista assoluto dello scontro nel Pci post-togliattiano. La lettura della fase, il rapporto con i socialisti, la democrazia nel partito sono al centro della battaglia dell’XI congresso, quello dell’applauso della sala e della dura reazione del gruppo dirigente vincente.
L’errore che Ingrao si rimprovera è di non avere agito apertamente come una frazione, lasciando aperta la strada alla emarginazione del gruppo di compagni schierati con lui. L’errore diventa imperdonabile, una capitolazione che pesa ancora, nell’avallo dato col proprio voto alla radiazione del gruppo del “manifesto”.
Dopo l’XI Congresso Ingrao è un isolato nel partito, anche nella fase del compromesso storico e dell’assunzione (1976- 1979) della presidenza della Camera. La narrazione si arresta qui, resta il dubbio (e il rammarico) per la mancanza di almeno una tappa fondamentale, quella della fine del Pci. Ma la chiusura lascia il segno. Ingrao richiama la vicenda (narrata da Nuto Revelli) del soldato nazista che cavalcava solitario all’alba, in cerca forse di un’isola di pace, prima di cadere in un’imboscata partigiana.
La lunga militanza di Pietro Ingrao è stata attraversata da quella tentazione, ma in realtà è illusorio pensare di star fuori della guerra: quell’isola non c’è. Come si fa a non essere ingraiani?

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