1.7.11

Le radici di un’eresia comunista. Novembre 69, il Pci radia il «manifesto».

Nell’autunno del 2009, per i quarant’anni della radiazione del Pci del gruppo del “manifesto”, il quotidiano che ne raccoglie l’eredità, ha pubblicato un inserto di rievocazione (manifesto 1969-2009). Lo apre con un articolo a quattro mani (Luciana Castellina e Rossana Rossanda), che cerca di incardinare le scaturigini di quella rottura nella vicenda storica del Pci togliattiano e posttogliattiano e di contestualizzare nel “terremoto” di fine anni Sessanta. Mi pare utile riproporre la prima parte dell’articolo, che ho diviso in capitoletti in modo pedantemente didattico e probabilmente arbitrario al solo scopo di facilitarne la lettura. (S.L.L.)
Castellina, Pintor e Rossanda
 Il 24 novembre del 1969 si riuniva a Roma in via Botteghe Oscure il Comitato centrale del Partito comunista italiano per radiare Aldo Natoli, Luigi Pintor e Rossana Rossanda. Natoli era stato un antifascista processato nel 1936 e poi dirigente della federazione romana; Pintor era il più brillante
giornalista dell’Unità e Rossanda aveva diretto la sezione culturale del partito. «Radiati» voleva essere meno grave che «espulsi», come negli altri partiti comunisti, con l’accusa di tradimento o comunque di indegnità morale. Noi eravamo accusati di aver costituito una «frazione»; in realtà non avevamo costituito nessuna frazione, non eravamo per nulla clandestini né avevamo cercato sotterranei contatti con altri gruppi di compagni; ma avevamo fatto forse di peggio: pubblicavamo dal giugno precedente un mensile di cultura politica che al primo numero aveva venduto oltre cinquantamila copie, era diretto da Lucio Magri e da me, e firmato da Luigi Pintor, Vittorio Foa, Ninetta Zandegiacomi, Daniel Singer, Enrica Collotti Pischel, Edgar Snow e K.S.Karol, Michele Rago e Lucio Colletti.
Ci era stato richiesto di chiuderlo o modificarne la direzione, e avevamo rifiutato. A quelle del Comitato Centrale seguirono la radiazione di Magri e Luciana Castellina, nonché di quelli che avevano diretto e firmato la rivista e dei membri di diverse federazioni che, quando la questione del manifesto era stata discussa, ci avevano appoggiato. Raramente il Pci si risolveva a espellere, se
non chi fosse stato pescato con le mani nella cassa o simili; l’ultima volta per il Comitato Centrale erano stati i deputati Aldo Cucchi e Valdo Magnani, accusati di essere seguaci di Tito, il dirigente jugoslavo scomunicato dal partito comunista dell’Unione Sovietica. In un partito che si figurava come un esercito in guerra, la discussione era ammessa all’interno di una singola istanza e in presenza di un rappresentante delle istanze superiori, dopo di che si votava a maggioranza e tutto rientrava nell’ordine. Questo sistema, il «centralismo democratico» era un metodo di comando che
consentiva alle istanze superiori non solo un controllo, ma di capire che cosa avevano nella testa quelle inferiori, stabilendo il limite delle eventuali mediazioni. La vera discussione, fino ad autentici scontri, avveniva nella direzione, senza che ne uscissero e tanto meno fossero sottoposte al Comitato Centrale e alla base le linee di divisione, che si potevano soltanto intuire dai diversi accenti che i membri della direzione mettevano nei loro discorsi e comportamenti. La virtù più elogiata, di buono o cattivo grado, era la lealtà, forma onorevole di obbedienza.
L’uscita della rivista, e il suo clamoroso successo, spezzavano, lealmente ma fuori di ogni disciplina, questo meccanismo. La nostra scommessa era di legittimare nel Partito una discussione
di fondo sui temi che erano maturati nel decennio Sessanta, culminati nel ‘68 degli studenti e nel precipitare dell’autunno caldo del ‘69. Una divergenza era venuta alla luce nel gruppo dirigente con la morte di Togliatti, nell’agosto del 1964. Non che fossero mancati scontri precedenti al vertice, sulla natura del «partito nuovo», quindi sulla svolta repressiva del 1948 all’est e nel 1951 con il rifiuto di Togliatti di lasciare l’Italia e spostarsi sul Cominform come chiedeva Stalin, quindi sull’esplodere della insurrezione ungherese del 1956 e nel congresso del Partito che la seguì. Il punto era sostanzialmente lo stesso: quale tipo di partito doveva essere quello italiano e a quale legame era tenuto di fronte non più alla III Internazionale, sciolta nel 1943, ma alla funzione di «guida» del partito dell’Urss?

Togliatti, Sereni e Di Vittorio
I limiti e le contraddizioni del partito nuovo togliattiano
Fin dall’arrivo in Italia, nella primavera del 1943, Togliatti aveva affermato che non si sarebbe seguito il modello sovietico. Poteva parere un’astuzia, ma era sua persuasione che si sarebbe dovuto costituire, nella zona del mondo che gli accordi di Yalta lasciavano sotto influenza occidentale, un partito di massa, non un gruppo leninista di «professionisti della rivoluzione»; un partito democratico e progressista, cioè socialmente avanzato e costituzionale, che avrebbe cercato la maggioranza per far compiere alla nostra società una trasformazione di fondo.
Una «rivoluzione»? Non nel senso di presa del potere e conseguente dittatura del proletariato, anche se fino al 1956 questo «no» non venne argomentato come né necessario né possibile in un paese a capitalismo maturo.
Il partito si dichiarava «marxista e leninista», ma sulla sua natura concreta Togliatti si era scontrato sia con i «vecchi» compagni sia con quella parte della resistenza che non accettava quella che avevano digerito come una tattica, un «per ora», utile anche a Stalin, l’Unione sovietica essendo uscita dalla seconda guerra mondiale con 22 milioni di morti e terribili urgenze di ricostruzione. E infatti la stretta del 1948 e 1949 nel campo dell’est, con i conseguenti processi ed esecuzioni, non era stata contestata dal Pci, né la condanna di Tito, anche se in quella occasione si verificò la prima grossa perdita di iscritti. Il Pci tacque anche sulla prima sanguinosa repressione operaia nella Germania del 1953.
La polemica su «quale partito» parve risolta nel 1954 con l’allontanamento di Pietro Secchia dalla responsabilità dell’organizzazione, dove aveva costituito «per ogni eventualità» una rete clandestina, ma lo scontro si riaprì nel 1956 e percorse per la prima volta anche la base con l’insurrezione ungherese e poi l’invasione sovietica del novembre 1956. Era evidente la richiesta di una democrazia negata.
Ora il nostro gruppo dirigente, dopo avere vantato il XX congresso del Pcus, che con la tesi della coesistenza pacifica pareva andare nella nostra direzione, aveva ricevuto un duro colpo dal cosiddetto «rapporto segreto» sullo stalinismo, ma difese ugualmente l’intervento armato, pur evitando sanzioni disciplinari contro chi aveva protestato.
Fu un turbamento profondo che male era schematizzato nel «rivoluzione subito» o «rivoluzione mai»: si schematizzava assai quel che poteva o non poteva fare un partito comunista in occidente.
Di più, ma sottotraccia, quel che il gruppo dirigente trovava auspicabile che fosse e facesse: lo stalinismo poteva essere avallato come dura necessità per la Russia ma non ne derivava necessariamente, per chi l’aveva conosciuto, che fosse auspicabile per la società italiana. Ma il discorso non poteva essere aperto con questa brutalità senza rompere con l’Urss e in piena guerra fredda.


Amendola con Togliatti
Il neocapitalismo e le vie al socialismo
Soltanto dal seguente X° congresso, alquanto tormentato, e nella forma delle «vie al socialismo» proprie a ciascun paese uscì vincente la linea di Togliatti, che condannava ogni  «duplicità»: in Italia il socialismo sarebbe stato raggiunto con lotte sempre più estese di massa e una crescita della partecipazione in grado di produrre profonde «riforme di struttura». E dopo la levata antifascista dell’estate del ’60, si giunse per un momento a parlare ai giovani di una «rivoluzione italiana» che tornava all’ordine del giorno (1961).
La crescita impetuosa del Pci, assieme al nuovo protagonismo giovanile, andava inoltre in parallelo con l’ammodernamento del paese: la riconversione postbellica era stata dura ma aveva veduto grandi lotte, le migrazioni dalle campagne del sud alle industrie del nord ne cambiavano la fisionomia, l’entrata delle donne nel lavoro cominciava a mutare la struttura familiare. E negli stessi anni parve ridursi la stretta della guerra fredda: Kennedy parlava di «nuova frontiera», la Chiesa si apriva al Concilio Vaticano II°. E la Dc doveva accettare, dopo quindici anni di dominio incontestato, un governo di centrosinistra.
Si apriva una fase riformista? E se sì, quale era la collocazione che il Pci doveva assumere in questo scenario? Esso avrebbe favorito un avanzamento del movimento operaio o costituiva un pericolo di assorbimento delle masse fino allora combattive? Il capitalismo italiano restava vecchio, miope e fascisteggiante o si sarebbe ammodernato anch’esso, capace di innovazione e di una contrattualità meno repressiva? Gran parte del gruppo dirigente sosteneva l’incapacità storica del nostro capitalismo di crescere con un più di apertura ai lavoratori e un sistema politico realmente costituzionale, mentre una minoranza, anche nel sindacato, segnalava già qualche innovazione (il neocapitalismo) e un management non riducibile al «supersfruttamento» finora denunciato. Per la maggioranza, se la Dc era ormai costretta a far «passare» il Psi, sarebbe «passato» anche il Pci; per la minoranza il Psi stava manifestamente cambiando di campo, il capitale aveva armi più sottili e il Pci doveva intelligentemente spostarsi su una fase di lotta più avanzata.


Pietro Ingrao
Ingrao contro Amendola
Le due tesi erano schematiche ma chiare. Nel 1962 un convegno indetto dall’Istituto Gramsci ne avrebbe messo in rilievo i protagonisti, da una parte Amendola, dall’altra Bruno Trentin della Cgil e Lucio Magri, con la simpatia di Longo. Le elezioni dell’anno seguente, il 1963, parvero dimostrare, con la grande avanzata del Pci e la costernazione della Democrazia cristiana, che una «modernizzazione» era in corso, ma non faceva perdere al Pci nessun voto, divideva i socialisti, raccoglieva i primi sintomi di un acutizzarsi del conflitto sociale con le nuove figure operaie. Il paese parve svoltare a sinistra.
L’improvvisa morte di Togliatti nell’agosto del 1964 eliminava il mediatore più autorevole fra le due posizioni, «spostando in avanti» – come si usava dire – il discorso. La direzione temette che se la successione si fosse giocata subito fra Amendola e Ingrao, i due capofila simbolici della discussione, ci sarebbe stato uno scontro, e preferì far durare l’interim di Longo, scegliendo a medio termine un successore terzo, come pareva Enrico Berlinguer. Ma era un armistizio: nel 1966 l’XI° congresso, tutta la direzione, Longo incluso, mise intanto fuori gioco Ingrao, che sosteneva la necessità di prendere atto d’un cambiamento, di andare a un’alleanza non già fra Pci e Psi, come aveva proposto fuori tempo Amendola, ma con le sinistre dei socialisti e dei cattolici, politiche e sindacali, per un «diverso modello di sviluppo» e nello stesso tempo consentire libertà di dissenso nel partito. La formula «diverso modello di sviluppo» lasciò perplesso il partito e la libertà di dissentire lo spaventò. Molto applaudito, Ingrao fu però spostato a un incarico onorevole, ma meno decisivo e i sospetti «ingraiani» furono tutti rimossi dagli incarichi. Il primo scontro pubblico fra due linee finì con la sconfitta di una fin troppo ragionevole sinistra.

Natoli
Il 68 degli studenti, l’invasione della Cecoslovacchia, l’autunno caldo. Il Pci e il terremoto di fine decennio.
Cadde dunque su Longo il terremoto di fine decennio: il ‘68 degli studenti, inedito movimento giovanile che si apriva in diverse parti del mondo, e poi l’«autunno caldo» nel ’69 degli operai italiani, fabbriche occupate e in autogestione, che avrebbe liquidato le commissioni interne, cinghie di trasmissione delle confederazioni, e rinnovato contenuti e metodi delle lotte. Contemporaneamente nel ’68 era partito il «nuovo corso» cecoslovacco, e benché Longo avesse messo in guardia il Pcus, l’esercito sovietico invase Praga e arrestò Dubcek, insediando al suo posto Husak. Il Pci condannò come «tragico errore» l’intervento armato dell’Urss, non attaccò gli studenti ma neanche tentò un dialogo serio con loro (eccezion fatta per un incontro di Longo), lasciò alla Cgil di riportare quel forte movimento operaio, in modo soft, negli argini di un avanzato  contratto che cambiava alcuni rapporti di forza in fabbrica (anche se il «sindacato dei consigli» era un poco sospetto alle Botteghe Oscure). Insomma di fronte al pianeta in subbuglio il Pci prendeva tempo. Perdeva colpi, pensarono alcuni di noi, ex «ingraiani». E non avendo nulla da perdere riaprimmo la discussione: dicemmo al CC e altrove che l’invasione della Cecoslovacchia non era un tragico errore ma la logica conseguenza del dominio dell’Urss sulle democrazie popolari, che gli Stati Uniti stavano perdendo nel Vietnam, che il movimento degli studenti e dei nuovi operai allargavano e qualificavano negli obbiettivi il «blocco storico» della rivoluzione italiana, che il Partito, invece che frenare, doveva e poteva dare loro una sponda. Non fummo i soli anche se i più espliciti: dalla federazione giovanile alle commissioni di lavoro del CC il fremito della società premeva sull’apparato. Il Pci non offrì sponde. Non attaccò ma non si mosse. Magri, Natoli, Pintor, Rossanda decisero di sfidare il gruppo dirigente fuori della consueta procedura. Natoli, Pintor, Rossanda e Caprara intervennero dissociandosi prima sulla Cecoslovacchia poi dalle Tesi nel Comitato Centrale e ai primi tre fu concesso di parlare al XII° congresso del partito all’inizio del 1969, cosa che fecero senza reticenze, suscitando le ire della delegazione sovietica, che ostentatamente si alzò e uscì dalla sala trascinando con sé gli altri partiti «fratelli». La segreteria aveva deciso questa apertura, impensabile negli altri partiti comunisti, anche per trarre vantaggio dal suo democratismo. Il congresso fu colpito dai reprobi per dir così consentiti, li applaudì molto, ma esitò a votare una mozione assieme a loro. Berlinguer concluse con un intervento critico contro di essi, ma senza minacce, che suonò come una qualche apertura. I tre che avevano parlato furono rinominati
nel CC ma restarono sollevati da ogni incarico.

Castellina e Magri
“Il manifesto” mensile
La discussione era di nuovo bloccata. Decisero allora di pubblicare da soli un mensile di cultura e politica, ne avvertirono Berlinguer che aveva ormai sostituito Longo, gravemente ammalato, e il primo numero de Il manifesto, evidente richiamo a Marx, uscì il 23 giugno dello stesso anno, vendette oltre cinquantamila copie. Niente di simile era mai avvenuto in un Partito comunista del dopoguerra.
Il mensile, che attaccava la conferenza mondiale di Mosca contro la Cina, definiva «senza avvenire» il dialogo con la Dc (Luigi Pintor) ebbe un grande successo, agitando le acque nel partito e fuori di esso. Bufalini lo attaccò duramente su Rinascita e fu convocato un Comitato centrale nel quale il relatore, Alessandro Natta, ne criticò i contenuti e chiese ma senza toni ultimativi il rientro
nella disciplina. Nel mese seguente Berlinguer propose o di allargare la direzione della rivista ad altri membri del partito, su posizioni per la direzione più accettabili, o preferibilmente passare ad altri incarichi. Diversamente da Amendola, Bufalini e Pajetta, egli era manifestamente non ostile ad allargare lo spazio del dibattito, con qualche prudenza.
Il manifesto non cedette e ai primi di settembre usciva il numero 4 della rivista con l'editoriale «Praga è sola», scritto da Lucio Magri, che denunciava la «normalizzazione» avvenuta in quel paese nel silenzio dei partiti comunisti. Sembra che ci siano state violente proteste del Pcus presso il Pci. Si riunì la V commissione del CC (disciplina) condannandoci, e un secondo e più rigido Comitato Centrale ci chiese di rinunciare del tutto alla pubblicazione come frazionista e invitò tutte le federazioni a pronunciarsi. La consultazione si rivelò singolarmente aperta, alcune città votando addirittura a maggioranza in nostro favore. La segreteria la sospese d’improvviso indicendo per il 24 novembre un terzo Comitato centrale.
«Siete ancora in tempo, date una prova di fedeltà» ci offrì prima dei lavori Enrico Berlinguer. «Non è fedeltà che volete, ma obbedienza». Fu Aldo Natoli a rispondere per tutti a Berlinguer con la dichiarazione di voto finale: «Si può essere comunisti anche senza tessera». I risultati della votazione sono stati i seguenti: 3 contrari (Natoli, Pintor, Rossanda), 3 astenuti (Chiarante, Lombardo Radice, Luporini), tutti gli altri hanno votato a favore delle conclusioni di Natta. Sergio Garavini, assente al momento del voto, ha successivamente inviato una lettera nella quale dichiara che, se fosse stato presente, si sarebbe astenuto.
Il gruppo del manifesto era fuori dal Pci.
Luciana Castellina
Rossana Rossanda 





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