27.8.11

Addio Bellezza. Il piccolo purgatorio di Anna Maria Ortese (Salvatore Lo Jacono)

Da “A sud’europa” del 9 maggio 2011 recupero questa recensione di Salvatore Lo Iacono, che rievoca due figure significative della storia letterararia italiana del Novecento (S.L.L.)
Anna Maria Ortese nel 1995 nella sua casa di Rapallo
Qualche anno fa, sulle pagine del quotidiano “Avvenire”, Goffredo Fofi auspicava che un giorno venisse alla luce la raccolta di lettere indirizzate da Anna Maria Ortese a Dario Bellezza. Un desiderio tramutato in realtà, l’editrice Archinto – che, fedele alla propria vocazione, pubblica i più bei carteggi in circolazione – ha dato alle stampe Bellezza, addio. Lettere a Dario Bellezza (1972-1992), volume curato da Adelia Battaglia, già autrice nel 2008 di Ortese segreta, libro pubblicato da Minimum Fax. L’epistolario consta di trentanove lettere, scritte dalla scrittrice al poeta (quelle di Bellezza sono andate perdute) in vent’anni: è uno spaccato su due delle personalità più complesse del Novecento, sulla loro corrispondenza umana e letteraria, sul sostegno reciproco che si assicurarono, ma anche su certe miserie quotidiane con cui fecero i conti, almeno fino all’assegnazione del vitalizio secondo la legge Bacchelli: Bellezza, per sopravvivere, scriveva anche articoli per alcune case farmaceutiche; Ortese, per una vita raminga di città in città e di editore in editore, preferisce rifiutare le rare occasioni di collaborare a grandi organi di stampa, come chiarisce in una lettera all’amico nell’agosto 1982: «Spiegarti – con la speranza di farmi capire – questo orrore segreto di partecipare alla cultura italiana di buon livello – è impossibile. Sai, sarebbe come rientrare malvestiti e invecchiati in una casa di potenti – dove tutti sono sempre vestiti in modo impeccabile, e soprattutto sono rimasti gli stessi».
Nel suo ultimo rifugio di Rapallo (da cui sogna di andar via, vagheggiando le più disparate destinazioni), l’autrice de Il cardillo addolorato – il romanzo che negli anni Novanta rinsaldò la sua labile fama – si divideva tra piccole commissioni, la cura della sorella, la lettura e la scrittura (fino a sedici ore al giorno). Fu strappata all’oblio dall’editore Adelphi e dalla corrispondenza con alcuni rari amici, su tutti il poeta Bellezza e Beppe Costa, editore di Pellicanolibri.
La coltissima autodidatta Anna Maria Ortese è figura chiave della letteratura del ventesimo secolo, «zingara assorta in un sogno» la definì Vittorini, l’unica che forse ha avvicinato le vette di Elsa Morante, ammirata immensamente da Ortese. Il lirismo delle sue trame è sempre in bilico tra l’odiato reale e il fantastico, immerso nel dolore e nello straniamento del mondo; le sue pagine sono inattuali, spietate e candide, misteriose e cristalline, metafisiche e visionarie anche quando, agli esordi, si rifacevano apparentemente ai moduli neorealistici, comunque febbrili, inclassificabili, lontane dalle mode, a volte fuori dai generi, o dentro a tutti: nei toni fiabeschi delle sue grandi architetture romanzesche, come in certi reportage giornalistici (quelli de La lente scura). Di trent’anni più giovane di Ortese, il poeta “maledetto” Dario Bellezza (quasi sparito dalle librerie e dai cataloghi delle case editrici) ebbe in lei, in Amelia Rosselli e in Elsa Morante – fino alla clamorosa rottura, senza riconciliazione, dopo la pubblicazione di Angelo – punti di riferimento, contrapposti ai circoli letterari che rifiutava perché «putrefatti e fascisti». Il poeta si fece seppellire con una copia de L’iguana, il romanzo della Ortese pubblicato nel 1965 da Vallecchi e ristampato tredici anni dopo dalla Bur, con una sua introduzione. Bellezza e Ortese sono accomunati da una fine solitaria, a due anni di distanza l’uno dall’altra, dall’essere ai margini del “salotto buono” delle lettere, dall’amore per i gatti e soprattutto dal male di vivere.
Dalla lettura delle lettere del prezioso volume edito da Archinto emerge vivida la figura di Anna Maria Ortese, ritrattasi nel «piccolo Purgatorio» di Rapallo: modesta e orgogliosa fra grandi malinconie e rare allegrie, disincantata sulla letteratura («un gioco, che io avevo preso sul serio»), refrattaria alle comunicazioni non scritte (il telefono è una «macchinetta mangiasoldi» e «al telefono le parole pesano poco»), protettiva nei confronti della sorella che soffre di crisi depressive, spietata critica dei propri versi («i miei “tic-tac” da Corriere dei Piccoli»), con un’eterna sensazione d’inadeguatezza addosso, oppressa da ingiunzioni di sfratto e ristrettezze economiche. Nelle lettere di Ortese fanno spesso capolino i folletti, un po’ creature un po’ bestiole, in cui trasfigurava – facendo prevalere la fantasia sulla ragione – gli umiliati e offesi della storia. Gli stessi delle sue storie più belle, quelle che val la pena leggere e rileggere.

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