22.8.11

Dall’estremo possibile. L'ultimo libro di Mario Tronti (di Ida Dominijanni)


Il bello dell'età è la storia che hai vissuto; e la sapienza dell'età sta nel sentirsi sontuosamente ricchi della storia vissuta più che in ansia per quella da vivere. Non per caso, nei regimi biopolitici contemporanei, il mito della giovinezza plastificata va di pari passo con la distruzione sistematica del senso della storia. Mario Tronti, che pure al termine 'politica' resiste strenuamente ad aggiungere il prefisso bio, lo sa bene, e non è un caso se oggi possiamo festeggiare un suo importante compleanno, l'ottantesimo, con in mano il suo ultimo libro, Dall'estremo possibile, che è un'arma affilata contro questo dispositivo di cancellazione della storia e della memoria, lo stesso dispositivo che dopo l''89 è riuscito a saldare nel senso comune la damnatio del Novecento con quella della sua eredità politica. Né è un caso che Pasquale Serra, curatore di questa come della precedente raccolta di scritti trontiani (Non si può accettare, titolo dichiaratamente «rubato» a Rossana Rossanda, come Dall'estremo possibile a Massimo Cacciari; entrambi i volumi sono editi da Ediesse), la dedichi con intenzione ai giovani e giovanissimi che oggi sperimentano la «contraddizione sempre crescente» (celebre incipit del frammento hegeliano Libertà e destino, su cui ruota il saggio d'apertura del libro, in memoria di Cesare Luporini) «fra la prigione invisibile in cui l'assetto esistente li tiene avvolti e il desiderio di romperla».
Non è che Tronti stia cedendo, anche lui, a una retorica giovanilistica che molto promette e nulla mantiene («solo i partiti senza futuro, quando non sanno che fare, fanno largo ai giovani»); è che «un discorso di libertà è destinato a incontrare una condizione di inquietudine», e nessuna condizione è più inquieta, esistenzialmente e socialmente precaria, di quella della prima generazione globale costretta a fare i conti «con le promesse non mantenute della postmodernità». A differenza della «generazione di mezzo», quella, per intenderci, del Sessantotto e del femminismo, che a giudizio dell'ultimo Tronti (si veda, in Non si può accettare, il saggio sul Sessantotto e in quest'ultimo libro Il politico al maschile, la politica al femminile) le promesse della postmodernità le ha invece rincorse, finendo col subire le sirene della modernizzazione senza contrastare la valanga della restaurazione e perdendosi in una critica della politica risultata alla fine connivente con la valanga dell'antipolitica. Incassiamo - momentaneamente - la provocazione e procediamo nella lettura.
Cominciando dall'ultimo dei testi raccolti, che è bene leggere invece per primo. Si tratta di una autobiografia filosofica, composta tre anni fa per le «Grandi Opere» del Corriere della Sera (Filosofi italiani contemporanei, Bompiani), in cui Tronti racconta Tronti, vita e opera, fornendo tutte le chiavi necessarie, autoironia inclusa, per cogliere tutt'intero il suo percorso al di là dell'icona del «padre dell'operaismo italiano» cui il successo internazionale di Operai e Capitale lo ha consacrato ma anche, per così dire, inchiodato («Un consiglio: mai scrivere un libro di successo da giovani. Si rimane per tutta la vita quella cosa lì»). Il percorso intero, dunque: l'incontro con Marx del Capitale e dei Grundrisse contro la tradizione storicista del marxismo italiano, la scoperta negli anni '60 del punto di vista operaio inseparabile dalla scoperta del pensiero negativo e della cultura della crisi, ma già nel '72 la svolta dell'autonomia del politico, con il seguito di un trentennale «corpo a corpo» con gli autori e le categorie del pensiero politico moderno, da Machiavelli a Nietzsche. Intanto, anni '80, l'esperienza di “Laboratorio politico”, l'incontro «determinante» con l'opera di Carl Schmitt, il confronto con il pensiero teologico e mistico nella redazione di Bailamme e nell'eremo camaldolese di Monte Giove. Da ultimo, dopo l'89 e il '91, il pensiero della fine - fine del Novecento, finis Europae, fine della politica moderna - che, «in decisa polemica con le letture democratico-progressiste» del cambio di stagione, apre il fronte, tutt'ora centrale nel lavoro trontiano, della «critica della democrazia politica»: «il fatto che la democrazia realizzata d'Occidente porti in corpo il virus di un totalitarismo di tipo nuovo, liberamente accettato da una massa di individui omologati sulla base di una servitù volontaria, è un drammatico punto di riflessione per il pensiero politico contemporaneo».
Su questa griglia autobiografica si fa più nitido il ventaglio di temi che Dall'estremo possibile propone, ripensa, aggiorna. Di nuovo l'operaismo, nel testo in memoria di Raniero Panzieri e nell'introduzione all'edizione spagnola di Operai e Capitale; ma inquadrato nell'arco di tempo che dal punto più alto del conflitto operaio contro il neocapitalismo degli anni '60 porta al punto più basso della sconfitta operaia nel neoliberismo degli anni '80 e seguenti.
Resta tutta valida, di quell'esperienza, la radicalità teorico-pratica, ma con un'autocritica: «malgrado tutto, malgrado il passaggio attraverso la cultura della crisi, il nichilismo europeo, c'era ancora troppo storicismo, troppo progressismo, troppa fede nella finale vittoria del bene sul male». Di nuovo la catastrofe dell'89-91, e al suo interno quella del Pci, nel testo del '96, e forse oggi più pungente di allora, intitolato Sinistra e partito nel crollo della politica, e poi in quelli più recenti che dialogano con Lucio Magri e Alfredo Reichlin: nell'89 «non bisognava svendere, bisognava reinvestire», e invece «aver rinunciato alla necessaria critica della propria storia in favore di un pentimento a buon mercato ha aperto quell'età della subalternità, della non-differenza, della irriconoscibilità, che tuttora pesa sull'offerta simbolica di una possibile nuova sinistra». Di nuovo, infine, la lettura del presente finalizzata alla critica della democrazia, che in questo libro si arricchisce di due autentiche perle: i testi, uno in onore di Pietro Ingrao l'altro di Gianfranco Miglio, che sbrogliano l'intricato nodo del rapporto fra persona, personalità e personalizzazione nella deriva dalla politica novecentesca weberianamente incentrata sul beruf e sul carisma al populismo democratico di oggi incentrato sul gradimento e sui sondaggi.
Qui Tronti afferra la continuità e la discontinuità fra i totalitarismi novecenteschi e il virus neototalitario che minaccia le nostre democrazie con un colpo d'ala che vale la pena di riportare quasi integralmente: «I due esperimenti contrapposti, la nazionalizzazione delle masse da un lato, la socializzazione delle masse dall'altro, hanno generato un figlio unico, la personalità autoritaria. Oggi scorgiamo un fenomeno analogo: i due schieramenti politici che confusamente si confrontano in Italia, in Europa e in Occidente finiscono per produrre quell'effetto comune che è la personalità democratica». Ma se «la personalità autoritaria era la figura della decisione senza rappresentanza, la personalità democratica e la figura della rappresentanza senza decisione. Il capo populista non esprime il lato del potere ma il lato dell'obbedienza: è il terminale individuale di pulsioni di massa a cui deve obbedire, perché ha promesso di rappresentarle... Il capo eletto direttamente dal popolo non comanda, obbedisce». E le democrazie populiste ci consegnano il problema di una «sovranità popolare antipolitica» che sarebbe l'hic Rhodus della sinistra, se solo ci fosse una sinistra intenzionata ancora a saltare.
Torno da qui alla provocazione iniziale sulla «generazione di mezzo», perché come dicevo sopra è di questo che Tronti ha preso di recente a imputare il Sessantotto e il femminismo: di aver remato, declamando «un nuovo modo di fare politica», a favore dell'antipolitica. È un'imputazione che non cancella i riconoscimenti sia alla soggettività radicale del «biennio rosso» del '68-69 sia all'apporto culturale del pensiero della differenza sessuale (sulla critica dei diritti e del formalismo giuridico, sulla coppia potere-autorità etc.), ma che mira a destituire entrambi di valenza e di efficacia politica. Operazione in cui Tronti non è solo (si veda, sul manifesto, il recente dibattito fra Luigi Cavallaro, Guido Viale e Giuseppe Prestipino), e che non da oggi è oggetto, all'interno del Crs che Tronti presiede, di un confronto tutt'altro che diplomatico. Qui dico solo questo. Carissimo Mario, quella di mezzo è una generazione divisa: fra donne e uomini, fra chi il 68 l'ha fatto, chi non l'ha fatto e chi l'ha visto dal Pci, fra chi ha vissuto il femminismo e chi no, fra chi del 68 e del femminismo ha tratto certe conseguenze e chi altre, fra chi s'è invaghito dei nuovi inizi e chi non ci ha creduto neppure per un momento, fra chi ha fatto confusione e chi ha saputo distinguere fra libertà e neoliberismo, fra chi si è iscritto fideisticamente alla religione democratica e chi lavora, come te, «per la critica della democrazia». Perciò è proprio vero che, come scrivi, «bisognerebbe impiantare una ricerca seria, accurata, particolareggiata, sulla stagione che dal '68, attraverso i '70, porta al cambio di egemonia e al trionfo di tutte le pulsioni antipolitiche, di destra e di sinistra»: ma a patto di non confondere i percorsi della critica con quelli della crisi della politica, e di non scambiare il conflitto per connivenza, le rivoluzioni passive per convergenze, i rovesciamenti del senso per continuità; pena il farsi complici, sul Sessantotto e sul femminismo, di quella stessa damnatio memoriae che sacrosantemente combatti sul comunismo. Sarà che il bello di avere un'età, cioè una storia di cui dar conto, appartiene ormai anche alla «generazione di mezzo». E che il bello di avere dei maestri è l'unconditional love che ci lega a loro anche e di più quando, ti rubo l'espressione, l'accordo con loro si fa divergente.

“il manifesto” 21 luglio  2011

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