Nel 2008, in concomitanza con una mostra e una serie di convegni organizzati dalla Biblioteca nazionale, “Il Sole-24ore” diffuse un dossier dal titolo Leopardi a Napoli, tuttora reperibile negli archivi in rete del quotidiano, con un corredo di materiali audiovisivi. Qui propongo un testo di Paola Villani, una italianista che è docente all’Università Suor Orsola Benincasa, che contiene molte notizie sulla vita quotidiana del poeta nel suo sodalizio partenopeo con Antonio Ranieri. Una attenzione particolare è rivolta alle abitudini alimentari e ai gusti del Leopardi. (S.L.L.)
Il testo della lapide a Giacomo Leopardi dettata dall'amico Ranieri
Al conte Giacomo Leopardi
recanatese
filologo ammirato fuori d'Italia
scrittore di filosofia e di poesie altissimo
da paragonare solamente coi greci
che finì di XXXIX anni la vita
per continue malattie miserissime
fece Antonio Ranieri
per sette anni fino all'estrema ora congiunto
all'amico adorato MDCCCXXXVII
Foto di Sergio Izzo |
Leopardi a Napoli
Il 2 Ottobre 1833 Giacomo Leopardi e Antonio Ranieri giungono a Napoli, dove sono accolti affettuosamente dai parenti di Ranieri che abitano nelle vicinanze di Piazza S. Ferdinando. I due amici si sistemano lì vicino, in Via San Mattia n. 88, al secondo piano di Palazzo Berio, in un appartamento ammobiliato di tre stanze.
I numerosi fratelli di Antonio Ranieri fanno ogni giorno la spola tra le due case, per cui Giacomo sente subito quel clima familiare e di affetto a lui certamente sconosciuto, anche nel proprio nucleo familiare. Il viaggio e il cambiamento d'aria giovano al poeta, ma non quanto sperava nel venire a Napoli.
Tre giorni dopo l'arrivo, il 5 ottobre, il poeta scrive una lettera al padre manifestandogli, a caldo, le prime impressioni della città: "…giunsi qui felicemente cioè senza danno e senza disgrazia. La mia salute del resto non è gran cosa e gli occhi sono sempre del medesimo stato. Pure la dolcezza del clima, le bellezze della città e l'indole amabile e benevola degli abitanti mi riescono assai piacevoli".
Napoli, in un primo tempo, sembra offrirsi al poeta come la "città grande" per eccellenza. In quel 1833 conta, infatti, circa trecentosessantamila abitanti e viene superata per popolazione, in Europa, soltanto da Londra, Parigi e San Pietroburgo. La vita nella città partenopea, dunque, infonde nel Leopardi non solo ottimismo, ma anche speranze di crescita professionale.
La vita del poeta recanatese scorre piacevole, eccetto i suoi malanni più vari, tra cui la tisi. Ranieri stesso, nel noto volume I sette anni di sodalizio, ricorda le pessime abitudini dell'amico che aveva "un mostruoso disordine delle ore" aggiungendo che "quando gli uomini e gli animali si adagiano al riposo, Leopardi si leva, e viceversa".
Nei primi tempi del soggiorno a Napoli, ciò che piace subito al recanatese non è solo l'aspetto folklorico della città, ma più semplicemente la vitalità e il vigore, la gioia di vivere del popolo napoletano. Leopardi è un solitario e un malinconico, ma la folla anonima riesce a rasserenarlo. Prova tanta gioia nel passeggiare per Toledo e Santa Lucia.
Sembrano essergli penetrati dentro i rumori di un'esistenza precaria, che si svolge come in un palcoscenico in cui ogni emozione è gridata, esagerata, enfatizzata: Napoli è la città dai mille volti e mestieri, così vitale e così disperata, il vero reame della "marioleria universale", è la città dall'incessante metamorfosi, tenuta insieme da una sorta di fratellanza collettiva nell'inganno.
Giacomo è attratto irresistibilmente da questo mondo, si confonde spesso tra la folla, tra le grida di ambulanti che decantano la loro merce, nei quartieri popolari affollati da pizzaioli che sfornano pizze bollenti, pasticcieri che sfornano sfogliatelle calde, personaggi d'ogni genere. Esuberanza, chiasso e violenza cittadina esercitano una strana attrazione su di lui. Ranieri descrive queste sue passeggiate: indossa un vecchio soprabito turchino, che lo fa scambiare quasi per un mendicante, le calze sono logore e rattoppate, ma in compenso ha un bel fazzoletto al collo. Spesso si ferma a discutere di letteratura a casa di amici, ma ama anche soffermarsi al famoso Caffè "Due Sicilie" in Largo alla Carità, dove, seduto all'aperto, sorbe uno dopo l'altro gli insuperabili gelati di Vito Pinto, che deciderà di celebrare in un verso de I Nuovi Credenti per "l'arte onde è barone".
E Leopardi non disdegna di comperare un biglietto del lotto o, addirittura, di suggerire un numero "vincente" a qualcuno dei passanti che, ritenendo di buon augurio i gobbi, glielo chiede. Anzi, spesso studia le combinazioni insieme al cuoco Pasquale per poi cercare di racimolare qualche spicciolo per i numeri più probabili o "sicuri". Ogni tanto si reca da solo al più importante "Caffè d'Italia", in Piazza San Ferdinando, luogo di riunione degli scrittori e degli artisti napoletani.
Ranieri soffre di una gelosia intensa e possessiva nei confronti dell'amico poeta; nel Sodalizio allude, a un certo punto, "all'inesplicabile desiderio" provato dal Leopardi "di uscire da solo", e commenta che ciò può essere motivato soltanto dal piacere che l'amico prova "a confabulare liberamente" con uomini che lui non "stimava".
Il rapporto con Napoli e i napoletani, però, è tutt'altro che sereno. Gli intellettuali partenopei non amano il poeta, non tollerano il suo "umor misantropico", la sua aria altera e sdegnosa. Si scambiano battute su "o' ranavuottolo…"; e lo deridono, ogni volta che lo vedono rannicchiato e tutto solo dietro un tavolino d'angolo del caffè delle "Due Sicilie" in Via Toledo, la strada più affollata e più gaia della città, con la gran testa affondata tra le spalle alte, gli occhi arrossati e semichiusi, mentre gusta, muto e immobile, una dopo l'altra, tazzine di caffè zuccheratissimo, dannoso alla sua salute, o davanti ad una montagna di gelati, di cialde o di granite di limone, di cui è estremamente ghiotto, seppure gli siano state rigorosamente vietate.
Leopardi appare smodato in tutto; fa anche grandi scorpacciate di mitili, cozze e "cannolicchi". Sembra proprio che, non riuscendo i medici a guarire l'origine "nervosa" dei suoi mali e non giovandogli il clima meridionale più di quello settentrionale, egli si senta autorizzato ad abbandonarsi a vivere quasi con cinismo verso il suo corpo. Tra le "carte Ranieri" vi è un elenco autografo dello stesso poeta che comprende almeno quaranta pietanze (spaghetti, formaggi, budini di riso, sformati di patate, ecc.), evidentemente preferite, o che crede di poter mangiare impunemente.
A Capodimonte "vi è un fine negozio di pane condotto da un'ottima donna genovese, che tutti chiamano Madama Girolama. Qui si lavorano certi bastoni, credo alla genovese, dei quali Leopardi si contenta tanto che non vuole altro pane", scrive il Ranieri. Le pizze dolci devono, poi, essere confezionate soltanto dall'artigiano Vito Pinto, famoso, come già sappiamo, anche per i suoi gelati.
Dopo appena due mesi di soggiorno, Leopardi si trasferisce sempre con Ranieri in un ampio appartamento in Via Santa Maria Ogni Bene n. 35, alle pendici del Vomero, dove si può respirare "la migliore aria di Napoli", e dove Giacomo, a detta del Ranieri, "rinvigorisce notabilmente […] Leopardi si rifà ogni dì di più di quell'aria, forse unica ai suoi malanni, ne acquista il benefizio quotidiano". Lì si fermano dal 4 dicembre del '33 al 4 maggio del '35. Il 9 maggio dello stesso anno il Ranieri sottoscrive il contratto per la nota casa di Vico Pero n. 2 di proprietà del signor Prospero Jasillo.
La città mostra al povero Leopardi anche la sua faccia feroce, nonostante l'aspetto melodico e bonario delle sue vie, nonostante il panorama stupendo che Giacomo può ammirare dal suo appartamento, "da Posillipo al Vesuvio"; di quest'ultimo può contemplare "ogni giorno il fumo ed ogni notte la lava ardente". Il poeta, però, nei momenti di malumore, non ama il verde e il carattere selvatico di quei luoghi, perché la collina del Vomero si presenta come periferia rurale ai margini della città, e l'amico Ranieri, ne scrive: "Nessun uomo ha tanto odiato la campagna quanto Leopardi, dopo averla inimitabilmente cantata".
All'inizio del 1836 lo stato di salute di Giacomo peggiora sempre di più, finché le sue condizioni precipitano nel 1837. Leopardi non può quasi più scrivere e neppure leggere, ai alza tardi e si nutre di pochi cibi. Qualche volta, verso l'una del pomeriggio, esce per una breve passeggiata fino al largo delle Pigne, quasi sempre accompagnato o da Ranieri o dal fratello di lui, Giuseppe. Nella tenue speranza di trovare qualche sollievo alla sua salute, il poeta accetta di buon grado l'affettuosa proposta di Giuseppe Ferrigni, cognato di Antonio Ranieri, illustre giurista, che offre ai due amici la sua casa di campagna a Torre del Greco, alle pendici del Vesuvio.
Il colle è quello che sovrasta Pietrarsa. La villa, "è fornita di tutte le masserizie convenienti a gente ben nota e, per giunta, alcune fra esse d'una certa forma ampia ed antiquata, che riesce di speciale comodità all'affezione rachitica onde l'ospite nostro è travagliato".
La villa, con il podere che si estende tutt'intorno presso i Camaldoli di Torre del Greco, è stata costruita alla fine del ‘600 ed è appartenuta ad un antenato dell'avvocato Ferrigni, Monsignor Simioli, vicario capitolare dell'Arcivescovado di Napoli e professore universitario; questa casa ha ospitato, all'epoca in cui il Simioli vi abitava, il ministro Tanucci, il letterato Signorelli, e l'architetto Vanvitelli. Estintasi la famiglia Simioli, la proprietà è passata alla famiglia Ferrigni.
Quando vi arriva Leopardi, sono passati appena vent'anni da un'eruzione del Vesuvio particolarmente violenta, che ha devastato tutto quel versante del monte. Nella villa di Torre del Greco Ranieri, con il bravo Pasquale e con una fidatissima "familiare" di casa Ferrigni, di nome Costanza, conduce dunque l'infermo Leopardi agli inizi di aprile del 1836 e vi rimangono fino alla fine di giugno. Nell'estate, infatti, il poeta, per sfuggire al calore del luogo, si trasferisce di nuovo a Capodimonte, ove l'aria è più fresca, in una casa più piccola della precedente, per poter risparmiare sull'affitto.
Il soggiorno a Torre del Greco piace e giova al poeta. Tale certezza si coglie dai suoi versi e si ricava dalla lettera dell'amico Antonio Ranieri inviata a Monaldo Leopardi il 26 giugno 1837: "La villeggiatura del marzo dell'anno scorso ci è riuscita così deliziosa, Giacomo ha composto così belle cose sulle vette ora aride ora selvose di quel bellissimo e formidabile monte".
Del resto, lo stesso poeta, dopo essersi scusato con il padre per le "lunghe tardanze" nel rispondergli, lo informa della sua nuova residenza, dove si è trasferito già prima del colera, manifestatosi a Napoli con fulminea violenza. Così egli scrive entusiasta: "Io fortunatamente ho potuto prima dello scoppio ritirarmi in campagna, dove vivo in un'aria eccellente, e in buona compagnia, distante da Napoli undici miglia". I medici gli hanno consigliato, infatti, l'aria di Torre del Greco come misura efficace per la sua malattia e stando a quel che dice Ranieri, la villetta di proprietà del cognato Ferrigni "è stata comperata dai suoi maggiori assegnatamente come il più miracoloso rimedio dell'idropisia".
Al palazzotto Ferrigni, ove i due amici passano due lunghi periodi nella primavera del 1836 e dal 20 agosto fino al febbraio del 1837, viene riservata all'ospite di riguardo la più bella camera, giudicata la più salubre, al piano superiore, esposta ad oriente, ampia e piena di luce.
Il 9 marzo 1837 Leopardi scrive al padre: "…Io grazie a dio, sono salvo dal colera, ma a gran costo. Dopo aver passato in campagna più mesi tra incredibili agonie, correndo ciascun giorno sei pericoli di vita ben contati, imminenti e realizzabili di ora in ora; e dopo aver sofferto un freddo tale, che mai nessun altro, se non quello di Bologna, io ho mai provato di simile; la mia povera macchina, con dieci anni più che a Bologna, non ha resistito, e fino dal principio di dicembre, quando la peste ha cominciato a declinare, il ginocchio con la gamba dritta mi è diventato grosso il doppio dell'altro, facendosi di un colore spaventevole.
Né ho potuto consultare medici, perché una visita di medico in quella campagna lontana costa non meno di 15 ducati. Così mi sono portato questo male fino alla metà di febbraio, nel quale tempo, per il rigore della stagione, benché non sono uscito di casa, mi sono ammalato di petto con febbre, pure senza poter consultare nessuno.
Passata la febbre da sé, sono tornato in città, dove subito mi son riposto a letto, come convalescente, quale sono, si può dire, ancora, non avendo da quel giorno, a causa dell'orrenda stagione, potuto mai uscire di casa per recuperare le forze con l'aria e il moto. Nondimeno la bontà e il tepore dell'abitazione mi fanno sempre più riavere; e il ginocchio e le gambe sì per la stessa ragione, sì per il letto, e sì per lo sfogo che l'umore ha avuto da altra parte, sono disenfiate in modo, che me ne trovo quasi guarito…il colera, oltre che è attualmente in vigore in altre parti del Regno, non è mai cessato neppure a Napoli, essendovi ogni giorno, o quasi ogni giorno, de' casi che il Governo cerca di nascondere. Anzi in questi ultimi giorni tali casi paiono moltiplicati, e più e più medici predicono il ritorno del contagio in primavera o in estate, ritorno che anche a me pare assai naturale perché la malattia non ha avuto sfogo ordinario forse a causa della stagione fredda. Questo incomodissimo impedimento paralizza qualunque mia risoluzione, e per di più mi mette nella dura ma necessarissima necessità di fermar la casa qui per un anno: necessità della quale chi non è stato a Napoli non si persuaderà facilmente; perché non vi si trovano quartieri ammobiliati ‘a mese' se non a prezzi enormi, e in famiglie per lo più di ladri".
Le condizioni fisiche di Leopardi non peggiorano, ma non migliorano neppure, e pur non uscendo più di casa, continua a far progetti per il futuro; per scrivere si serve di Ranieri sia perché una cataratta gli minaccia l'occhio destro, sia perché, sempre nel mese di maggio, viene assalito da tale asma che non riesce né a camminare, né a giacere e né a dormire.
La lapide raffigurata, inconfondibilmente in una mia foto di qualche tempo fa, è situata all' interno del Parco della Tomba di Virgilio a Piedigrotta. Distinti saluti, Sergio Izzo
RispondiEliminaLa foto della lapide sepolcrale di Leopardi qui pubblicata è eseguita da me e su di essa grava il mio copyright, citi perlomeno la fonte: "Foto di Sergio Izzo".
RispondiEliminaSaluti, Sergio Izzo
Gentile signor Izzo,
RispondiEliminaeseguo la sua richiesta con qualche esitazione. Ho preso la foto dalla rete e da un sito ove non c'erano elementi che la riconducessero all'autore e meno che mai segnalazioni di un copyright che vi gravasse. Non ho tuttavia ragione di ritenere immotivata la sua insistenza che peraltro mi testimonia un legame sentimentale con la foto e, credo, con il poeta cui si riferisce. Saluti leopardisti. Salvatore Lo Leggio
Grazie,
RispondiEliminaSergio Izzo