25.8.11

Paradossi. L'ex colonia Angola conquista il Portogallo ("il manifesto" 7/8/11)

Lisbona antica
Da "il manifesto" del 7 agosto 2011 riprendo gran parte di un articolo, probabilmente di Goffredo Adinolfi, che illustra un paradosso lusitano e mette in luce un rischio. Ne consiglio vivamente la lettura. (S.L.L.)

Eduardo dos Santos
NEO-NEOCOLONIALISMO

Non si muove foglia a Lisbona senza che a Luanda non lo sappiano - L'Angola compra qua e là società di ogni tipo - Petrolio, diamanti, élite compatta (e popolo alla fame) per l'assalto al luso-capitalismo

Il neo-neocolonialismo è un concetto che non esiste, ma è un sillogismo perfetto per descrivere i rapporti che intercorrono oggi tra il Portogallo, ex potenza colonizzatrice, e l'Angola, ex potenza colonizzata. Ma facciamo un passo indietro per capire meglio cosa stia succedendo, perché è una storia, questa, che ha dell'incredibile.
Tutto comincia con i movimenti di decolonizzazione, metà anni cinquanta, primi anni sessanta, quando l'Angola inizia a combattere la sua lotta di liberazione contro Lisbona. L'indipendenza arriva tardi, nel 1975, insieme con la fine della cinquantennale dittatura portoghese. Ad appoggiare il Movimento Popular pela Indipendencia de Angola (Mpla) c'è Mosca che, dopo il 1975, diventa la principale alleata di Luanda sottratta, definitivamente, all'influenza portoghese. Non si crea cioè quel rapporto neo-coloniale che ha caratterizzato troppo spesso i legami dell'occidente con il terzo mondo.
Fin qui nulla di strano, in fondo buona parte dell'Africa post-coloniale era alleata con l'Urss, più insolito è il fatto che il regime di Luanda riesca a sopravvivere al crollo del muro di Berlino e a diventare una delle principali potenze finanziatrici del disastroso capitalismo portoghese. Già perché, stranamente, quando si parla di paesi emergenti, raramente si parla di Angola, eppure il petrolio e i diamanti hanno portato nelle casse di Luanda un bel po' di soldi che ora cominciano a essere usati per comprare qua e là società di ogni genere e tipo.
Un presupposto: in Angola, ricchissima di risorse naturali, tutto è deciso da José Eduardo dos Santos, laureato in ingegneria a Baku ai tempi dell'Urss, e presidente dell'Angola dal 1979. Decisione politica concentratissima come concentrati sono i capitali, tutto, bene o male, è deciso dal presidente. Un potere che travalica gli ampi confini del suo paese, dos Santos è al terzo posto tra gli uomini più influenti in Portogallo. Quest'anno, poi, nella classifica stilata dal Jornal de Negócios, è entrato un altro imprenditore angolano, Manuel Vicente, che, attraverso la Sonangol, società petrolifera, controlla il Banco Comercial Português (Bcp). Una governance, quella esercitata da Vicente, tutt'altro che teorica visto che gli angolani hanno impresso al Bcp un radicale, quanto polemico, cambiamento di strategie: abbandonare gli asset in Europa centrale per concentrarsi su Angola, Cina e Brasile. Isabel dos Santos (26º posto nel ranking del Jn), figlia di José Eduardo, attraverso una delle sue numerose holdings, la Santoro Financials, detiene, tra le altre cose, quasi il 10% del Banco Português de Investimento (Bpi), controllata dal gruppo spagnolo La Caixa. La dos Santos vorrebbe incrementare la sua quota e per questo ha inoltrato richiesta di autorizzazione al Banco de Portugal. Infine il Banco Bic, capitale misto luso-angolano, ha comprato, per 40 milioni di euro, il Banco Português de Negócios, banca fallita, nazionalizzata (in tutto lo stato portoghese ci ha messo circa 2,4 miliardi di euro), risanata e quindi rimessa sul mercato. Insomma, per riassumere, non si muove foglia a Lisbona senza che gli angolani non ne siano informati: telecomunicazioni, energia, multimedia. Ma quel che più conta, la vecchia colonia controlla gran oarte dell'emissione del credito concesso in Portogallo.
Il neo-neocolonialismo potrebbe rappresentare una storia di rivincite, ma purtroppo, alla base di tanto potere c'è soprattutto tanto sfruttamento. L'Angola è un paese ricchissimo i cui abitanti vivono nella miseria, questa è l'origine di una disponibilità apparentemente illimitata di capitali. Una élite compatta, capace, discreta, intelligente e spregiudicata. Un paese che conosce le borse ma che non ha una borsa valori, un paese che gioca al libero mercato ma che non adotta le regole del libero mercato. Al di là dei paradossi questa situazione non può non sollevare perplessità e preoccupazione: è lecito pensare che lo stato perdendo il controllo sulle sue imprese perda anche la possibilità di promuovere il bene comune? Importare capitale non significherà nel medio-lungo periodo importare anche un modello di «sviluppo»? E poi, cosa resta di vero o di provato nell'ideologia del libero mercato, quando a comprare interi pezzi dell'economia occidentale sono soldi provenienti da economie feudali?

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