8.9.11

«Me brusa el cü». Novecento italiano: il popolo e la bicicletta (Giovanni Ruffa)

Bartali e, dietro, Coppi al giro di Toscana del 1954
Su “alias” del 30 luglio Giovanni Ruffa, recensendo una storia del ciclismo italiano scritta da uno storico inglese, ne riassume i temi, opportunamente rievocando momenti significativi di storia sportiva, ma anche politica e sociale. Dell’articolo si ritrova qui un ampio stralcio. (S.L.L.)
Giovanni Gerbi, il Diavolo Rosso
John Foot, docente di Storia italiana contemporanea presso il Dipartimento di italiano dell’University College di Londra, ha al suo attivo diversi lavori… Da sempre ha un occhio di riguardo per lo sport, considerato un punto di vista capace di aprire panorami peculiari sulla società tutta. Così, dopo Calcio. 1898-2007. Storia dello sport che ha fatto l’Italia (Rizzoli, 2007), ecco adesso, sempre da Rizzoli, Pedalare! La grande avventura del ciclismo italiano (pp. 416, € 22,00).
L’intento è chiaro e dichiarato fin dall’introduzione: alternare biografie di ciclisti, racconti di gare e un’analisi della società italiana, in un libro che sia in grado, attraverso la storia di uno sport, di esplorare e raccontare un paese e la sua storia…
La bicicletta («Un’invenzione che cambiò il mondo, una silenziosa macchina a energia umana che … poteva portare le persone per centinaia di chilometri») fu sposata con entusiasmo dal popolo fin dalla sua comparsa alla fine dell’Ottocento, ma sulle prime guardata con sospetto dalla Chiesa (che ne vietò l’uso ai sacerdoti) e da intellettuali come Cesare Lombroso che le dedicò un articolo critico, considerandola una via sicura verso il crimine. Non del tutto a torto, vista la vicenda di Sante Pollastro, amico di gioventù e compagno di corse del primo Campionissimo, Costante Girardengo, poi ribelle, anarchico e rapinatore, che proprio in bici realizzò i primi colpi, come raccontano un bel libro di Marco Ventura e la canzone Il bandito e il campione di Luigi Grechi, portata al successo da Francesco De Gregori.
Foot scandisce la storia delle due ruote e del loro sport attraverso cinque lunghi capitoli, «pedalando» dall’età eroica all’attuale – controversa e convulsa – epoca del doping, ripercorrendo le tappe di uno sport di massa e di grande impatto popolare.
Così, in una ricostruzione documentata e puntuale, il lettore fa la conoscenza dei «ciclisti rossi», che tennero il loro primo convegno nel 1913 a Imola. La città emiliana fu la culla di un movimento strettamente legato al partito socialista e ai sindacati, che videro nel cavallo di ferro un «veicolo eminentemente democratico», strumento cruciale per sostenere la lotta di classe, favorendo rapidi spostamenti dei militanti verso i luoghi dove si svolgevano scioperi e manifestazioni, in particolare a vantaggio dei lavoratori agricoli giornalieri della Val Padana.
C’è anche la bicicletta arruolata nella prima guerra mondiale, con i bersaglieri ciclisti, dodici battaglioni cantati dal vate d’Annunzio: «La mia ruota in ogni raggio è temprata dal coraggio». Tra di loro Ottavio Bottecchia, che poi emigrerà in Francia in cerca di lavoro e sarà il primo italiano a vincere il Tour, nel 1924.
Ma ci sono, soprattutto, le prime corse, «spietate, brutali e molto, molto lunghe», ricorda Foot, prove di resistenza al limite dell’umano dove i corridori diventano «schiavi della strada», come li definirono in Francia. Nel 1907 si corre la prima Milano-Sanremo, il Giro d’Italia scatta nel 1909 (quando il Tour de France poteva vantare già sei edizioni) e lo vince Luigi Ganna, un muratore varesino ricordato anche per il suo commento all’arrivo, quando Armando Cougnet, direttore della Gazzetta dello Sport che fin da allora organizza la corsa, gli sollecita le sue impressioni a caldo: «Me brusa el cü», la prosaica risposta.
Il ciclismo si rivela immediatamente una potente, inesauribile fabbrica di miti. I suoi protagonisti diventano eroi popolari dai nomi fantasiosi: il Diavolo Rosso Giovanni Gerbi, Learco Guerra la Locomotiva umana, il Dittatore Alfredo Binda, Fausto Coppi l’Airone e Bartali il Pio, fino ai più recenti, dal Cannibale Eddy Merckx al Postino Felice Gimondi a Cuore Matto Bitossi. Una aristocrazia del pedale e un’epica che sono state costruite dai cronisti radiofonici (il più famoso, Claudio Ferretti), da giornalisti come Orio Vergani, Bruno Roghi, Gianni Brera e dai tanti scrittori (da Buzzati a Bianciardi da Rodari a Pratolini) che, in un’epoca in cui la televisione, mostrando tutto, non aveva ancora chiuso gli spazi alla fantasia e all’immaginazione, scrissero, con una buona dose di entusiasmo e di retorica, il romanzo di uno sport amatissimo dalla gente, dai tanti che in quei faticatori figli del popolo si specchiavano e si riconoscevano.
Così nascono i miti del ciclismo, di cui Pedalare! ricostruisce la genesi e spiega il senso, illustrando quanto sostiene lo storico inglese Paul Thompson, citato da Foot: «La storia … non riguarda solo eventi, o strutture, modelli di comportamento, ma anche il modo in cui questi sono vissuti e ricordati nell’immaginazione» perché «le voci non sopravvivono a meno che non abbiano un senso per la gente». Al punto che, a volte, paradossalmente, sono gli stessi oggetti del mito a indossarlo, testimoniandone, nel tempo, la veridicità, al di là del reale. È il caso di Gino Bartali, arrivato negli anni a riconoscere la concretezza della presunta telefonata di De Gasperi nel corso del Tour del 1948, in cui il primo ministro gli avrebbe chiesto di vincere per scongiurare i rischi di una rivoluzione, che, dopo l’attentato a Togliatti, sembrava alle porte in Italia. Una telefonata probabilmente mai avvenuta, come dimostra Foot, ma il cui racconto ripetuto è arrivato a convincere persino il supposto destinatario, che negli anni ne indossa il mito e ne tramanda la leggenda.
Il ciclismo, insomma, racconta il Novecento e le vicende, per nulla indolori, che, tra guerre e dittature, hanno trasformato un paese agricolo prima in potenza industriale e, ora, in realtà post-moderna.
Eventi come la Sei Giorni di Milano del 1961 che celebra, gran sacerdote «mister Ignis» Giovanni Borghi, l’apoteosi dell’Italia del boom, in un velodromo del Vigorelli stipato da migliaia di tifosi trasformato in immenso night-club, tra orchestre, pop star e champagne, mentre i ciclisti sfrecciano senza sosta. Uno sport che forse, in alcune occasioni, ha contribuito a svecchiare mentalità e leggi. Come nella vicenda dell’amore fra Fausto Coppi e Giulia Occhini, la Dama Bianca, che una società retrograda e bigotta processò e condannò come «adulterio». Un caso che fece epoca e che forseservì, con il gran clamore suscitato dalla notorietà dei protagonisti, a rinnovare una legislazione indegna di un paese moderno.
Oggi, complici un ciclismo trasfigurato dal doping scientifico e un paese che i suoi miti non li cerca più tra figli del popolo condannati alla fatica, ma in nuovi eroi consacrati al motore e alla velocità. «Quello sport non c’è più – conclude Foot –. Se n’è andato, e non tornerà. Tuttavia i ricordi di quell’età dorata, popolare, sopravviveranno, e quando si scriverà una storia dell’Italia si dovrà sempre trovare un posto per il ciclismo, per la bicicletta e per quei grandi eroi sportivi del passato».

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