11.9.11

Quel che Lombroso disse di Tolstoj (Marco Dotti, "il manifesto" 20/11/2005)

L’articolo che segue, dal “manifesto del 30.11.2005, è di Marco Dotti.
Nella sua prima parte ricostruisce, ragionando di Lombroso e di Nordau, un frammento di quella scienza positivistica che si pretendeva esatta, neutrale, oggettiva, progressiva (ed era invece assai spesso ideologia della conservazione borghese): quello relativo all’uomo di genio. Il primo vi scorge una patologia cerebrale, il secondo lamenta che i geni svolgano una deleteria funzione sociale, accreditando una più generale decadenza etica.
La seconda parte è invece dedicata, sulla scorta di un volume di Mazzarello, alla visita di Tolstoj a Lombroso. Visita molto complicata e incontro pieno di asprezze. In una schedina collocata nella pagina Dotti spiega che al tempo il medico italiano, inventore della cosiddetta “antropologia criminale”, non era ritenuto, come oggi dai più, un fantasioso ideatore di teorie poco provate e poco probabili sulle facce, i crani e i geni del delinquente, ma un grande scienziato, noto e apprezzato nell’intera Europa. Freud giunse a chiamarlo “il fantastico Lombroso”. (S.L.L.)
Max Nordau
«L'applicazione e insieme l'incentivo più grande della mia opera mi viene da una delle più belle menti del nostro secolo: Max Nordau». Per Cesare Lombroso, che lo ribadiva con molta delicatezza ma senza alcuna reticenza, nell'introduzione a una delle moltissime edizioni dell'Uomo di genio, si trattava di sciogliere e riaffermare, al tempo stesso, un grande debito nei confronti dell'autore che, più di ogni altro, aveva contribuito alla divulgazione in ambito letterario delle sue teorie su genio, follia e degenerazione. Ebreo ungherese trapiantato in Francia, filosionista e collaboratore di Theodore Herzl, medico e scrittore, nel 1892 Nordau - di cui spesso si ricorda l'infelice e incauta espressione «una terra senza popolo per un popolo senza terra» pronunciata per definire la Palestina - aveva pubblicato un lavoro in lingua tedesca lombrosianamente titolato Degenerazione. Subito tradotto per le edizioni dei fratelli Dumolard di Milano, il testo di Nordau non si presentava solamente come un tributo nei confronti di colui che, a suo dire, era stato capace di gettare «un vero torrente di luce su molti aspetti oscuri della psichiatria, del diritto penale, della scienza politica e della sociologia», ma rivelava l'ambizioso tentativo di trasferire concetti propriamente clinici e psichiatrici, per quanto confusi, sull'impervio terreno della critica culturale.

Inventò l'«arte degenerata»
Nordau intendeva servirsi delle «scoperte» di Lombroso per dimostrare, e denunciare, che il successo di molte opere letterarie e artistiche, se passato sotto la lente lombrosiana, altro non era che il sintomo di un programma di decomposizione - o dégénérescence, riprendendo un termine a lui caro - spirituale e di erosione carsica dei fondamenti morali della società dell'«Occidente liberale». Libri antisociali, anarchici, alla moda, quadri sconci e irriverenti, opera di sifilitici alla Manet o di nevrastenici come nel caso dei preraffaelliti: a essi doveva opporsi una sorta di resistenza etica, e di controllo pedagogico esercitato da intellettuali evidentemente in buona salute, in grado di impedire «che le menti dei più giovani ne vengano traviate per sempre».
Per ironia della sorte, fu proprio l'ebreo sionista Nordau a dar corso all'espressione «arte degenerata» che, di lì a pochi decenni, avrebbe preso tinte ancor più cupe e funeste sulla bocca dei peggiori avversari del suo popolo. Lo scrittore ungherese, precisava Lombroso, «giustamente notava che la mia teoria degenerativa non aveva trovato una applicazione nella critica e nella storia letteraria». Ma Nordau, «volendo esagerare un principio nuovo e giusto», ossia il «servirsi, nella critica letteraria, più dell'esame personale degli autori che non delle loro opere», non seppe accettare il fatto che «la diagnosi di pazzia non abbatte il genio, anzi lo spiega e lo conferma». Lombroso pretendeva, infatti, di aver svelato e spiegato il rapporto diretto tra il genio e l'epilessia, «facendo dell'irritazione corticale, dovuta a questo terribile morbo, la base stessa dell'ispirazione, della divinazione, della scoperta». Pur animato da sincero entusiasmo, Nordau si era invece mostrato incapace di servirsi con competenza del concetto di «degenerazione epilettoide», distinguendo il «mattoide, ossia l'imbecille colla larva del genio» dal vero «genio larvato di alienazione, i cui prodotti erano di tanto più sublimi quanto più era il corpo malato, anzi perché era malato».

Il nesso tra genio e follia
Egli avrebbe dovuto agire con più cautela e, soprattutto, avrebbe dovuto accorgersi che «il suo ostracismo colpiva le più alte cime, mentre lasciava intatte le creazioni mediocri». Tra queste «più alte cime», Lombroso non esitava a includere, accanto a Ibsen e Wagner, Newton, Schopenhauer, Schumann e Flaubert anche un autore che, al contrario di tutti gli altri, ebbe modo di conoscere e «osservare» direttamente, seppure in circostanze alquanto singolari: Lev Tolstoj. Uomo distratto, studioso bizzarro, lettore onnivoro ed enciclopedico, e infine viaggiatore scriteriato, capace di dimenticarsi o perdere per strada portamonete e documenti, sul finire del XIX secolo Lombroso intraprese controvoglia un viaggio in Russia. Ufficialmente, anche se in veste privata non essendo tra i delegati incaricati dal governo italiano, doveva esporre una propria comunicazione al dodicesimo Congresso medico internazionale che, nell'agosto del 1897, si sarebbe tenuto a Mosca. Nel Genio e l'alienista. La strana visita di Lombroso a Tolstoj (pp. 127, euro 10), da poco edito per Bollati Boringhieri, Paolo Mazzarello ricostruisce con precisione e perizia le vicende che precedettero, accompagnarono, seguirono il viaggio di Lombroso nella terra degli zar. Apprendiamo così che, preceduto da una fama senza pari, se confrontata a quella degli altri settemila partecipanti al congresso, il medico torinese si trovò al centro dell'attenzione generale. In questo ambiente, il suo egotismo «aveva modo di esibirsi e appagarsi pienamente», e persino «il suo aspetto trasandato, il suo enciclopedismo ciarlatanesco, la sua vivacità intellettuale», come ricorda Mazzarello, «non potevano non incuriosire e attrarre».
Accolto come una star da centinaia di lettori che conoscevano i suoi libri ormai tradotti nelle principali lingue europee, acclamato da schiere di ammiratori entusiasti e da funzionari per nulla intimoriti dal suo successo e dalla sua origine ebraica, Lombroso manifestò presto la propria intenzione di abbandonare le sedute del congresso per recarsi a far visita a Lev Tolstoj, nella tenuta di Jasnaja Poljana. L'insolita determinazione dello scienziato insospettì, ovviamente, le solerti guardie zariste, tanto che «il generale in capo della polizia Kutuzov diede ad intendere che quella visita sarebbe stata sgradita al governo». Ma Lombroso - uomo semplice e calcolatore al tempo stesso, ingenuo per indole e scaltro suo malgrado - riuscì a superare ogni diffidenza, quando espose le ragioni che lo inducevano a far visita allo scrittore libertario: verificare sul campo il nesso tra follia e genio creativo, intento che convinse la polizia a lasciarlo partire. «Possibile che lei non sappia che Tolstoj ha qualcosa fuori posto nella testa?», gli rimproverava Kutuzov. «Ma è proprio per questo», ribatteva Lombroso, «che io desidero visitarlo: sono un medico alienista», non un sovversivo.
Nella sesta edizione dell'Uomo di genio, apparsa nel 1894 per le edizioni Bocca, proprio il ritratto di un corrucciato Tolstoj era stato scelto per illustrare, nel frontespizio, i tratti fisiognomici del genio «larvato di alienazione». D'altronde, era stato l'acceso interesse di Lombroso per l'autore russo ad aver alimentato una serie di giudizi estremamente negativi da parte di Nordau e di altri seguaci. Nordau, in particolare, aveva dedicato a Tolstoj e al tolstojsmo un intero capitolo di Degenerazione, ritenendolo affetto da una malattia identificata come una sorta di scriteriato «misticismo», caratterizzato da un «nebuloso modo di pensare morboso e sconnesso accompagnato da emotività». I romanzi di Tolstoj, secondo Nordau, rivelavano i tratti di una personalità degenerata e di una emotività convulsa che si concretizzavano in un «guazzabuglio di parole prive di senso» e in una morale assurda.

Sull'onda del giudizio di Nordau
Come «non resistere» al male - si chiedeva Nordau, criticando il pacifismo di Tolstoj - invocando un'etica puramente passiva? Tolstoj non stava forse sragionando, «come un cieco che pretendesse di parlare dei colori»? Nordau rinfacciava all'autore di Guerra e pace «l'assurdità di un amore del prossimo che non si cura affatto dei bisogni del prossimo», in altri termini un egoismo mascherato da tolleranza. La sua risaputa lascivia, e il suo furore antiautoritario, non potevano, inoltre, che accrescere la «patologia sociale» e una decadenza dei costumi già in atto. Sull'onda di Nordau, la critica al tolstojsmo e alla produzione saggistica e pamphlettistica di Tolstoj divenne quasi un luogo comune del giornalismo fin de siècle preoccupato, a suo modo, di denunciare l'approssimarsi di imminenti catastrofi sociali.
Fu anche sulla scorta di queste suggestioni e di questi malintesi, che in gran parte aveva contribuito ad alimentare, che il 23 agosto del 1897 Cesare Lombroso arrivò a Jasnaj Poljana. Tolstoj vi trascorreva intense giornate di studio e lavoro, circondato da contadini e accudito da una pazientissima consorte. Amava tagliare la legna, arare i campi, fare lunghe corse in bicicletta. Proprio alla bicicletta, segnala Mazzarello, Lombroso aveva dedicato uno dei suoi recenti saggi «criminologici», Delitti ciclistici e benefici del ciclismo, additando i possibili usi criminali di questo nuovo mezzo di strasporto.
In quelle settimane, Tolstoj stava terminando la stesura del saggio Che cos'è l'arte, mentre aveva temporaneamente accantonato Resurrezione, libro che si sarebbe rivelato, con le sue idee sul male e la pena, quanto di più lontano potesse esserci dalle teorie lombrosiane sulla criminalità innata e l'atavisvo che, allora, percorrevano l'Europa, acclamate come «novità eccezionali» e «mirabolanti scoperte». Dalle note consegnate al diario, sappiamo che Tolstoj aveva una conoscenza, per quanto sommaria, delle congetture di Lombroso. Ma, di certo, rigettava le sue teorie sul genio e «sulla sua fondamentale assonanza con la follia». Tolstoj era attratto dai matti, ma, come osserva Mazzarello, «solo dal punto di vista dei sani. Li osservava con interesse, ma provava fastidio a essere osservato con lo stesso interesse». Ciò nonostante, la voce di una presunta follia di Tolstoj circolava da tempo negli ambienti intellettuali moscoviti, non solo negli uffici della polizia. Pare fosse stato Turgenev a diffonderla, dopo un breve dissidio ma, di certo, le popolarissime tesi di Nordau e Lombroso avevano contribuito a gettare altra benzina sul fuoco.
Il viaggio di Lombroso a Jasnaja Pojana sembra dunque inscriversi nel tentativo di ricercare una conferma alle proprie «tesi antropologiche», servendosi dell'osservazione clinica di un genio studiato nei suoi movimenti quotidiani. Per Lombroso, infatti, Tolstoj rappresentava, prima di tutto, una curiosità antropologica, un tipo clinico da analizzare e comprendere. Tolstoj, da parte sua, intuì subito di essere dalla parte della cavia da laboratorio e mostrò molta diffidenza nei confronti del medico italiano.
Lev Tolstoj
Un dialogo impossibile
A prima vista, Tolstoj si presentò agli occhi di Lombroso come un uomo cordiale e gentile, al di là dell'aspetto un po' militaresco. «Deve esservi del metodo, in questa follia», annotò Lombroso. Ma quando la «conversazione prendeva un tono contrario alle sue idee», come per esempio a proposito dell'arte sul delinquente nato, «allora perdeva alquanto della sua consueta placidità». Fisicamente, però, Tolstoj non aveva nulla del degenerato. Nessuna malformazione fisica, non un difetto, non una sola anomalia che attestasse una palese regressione psichica. Al contrario, Tolstoj possedeva una forza e un'energia senza pari. Lo scrittore sembrava divertirsi proprio mostrando all'incauto alienista tutta la sua prestanza. Lombroso era piccolo, ma corpulento, eppure - ricorda lo psichiatra in una ricostruzione dell'incontro apparsa, nel 1901, su Das freie Wort - Tolstoj lo sollevò da terra con la forza di un solo braccio, «come se si fosse trattato di un cagnolino». L'umiliazione fisica inflitta all'italiano, osserva Mazzarello, aveva probabilmente lo scopo di spostare il baricentro di una partita spietata e fredda, in cui era necessario prevedere le mosse dell'avversario, come nel gioco degli scacchi. A infastidire Tolstoj fu, con tutta probabilità, proprio la scienza di cui Lombroso si sentiva portatore. Una scienza che pretendeva di essere asettica, neutrale, lontana dalle passione umane e che, a Tolstoj, appariva invece gratuita e senza giustificazioni, tanto che occorreva scuoterla e contestarla dalle fondamenta. Il fastidio di Tolstoj per gli argomenti della scienza che Lombroso, in quel momento, rappresentava, si rivelava in tutta la sua impulsività aggressiva - era «impossibile parlare con lui, senza irritarlo, di alcuni argomenti» - quando veniva toccata la teoria del delinquente nato. Teoria che «egli negava cocciutamente sebbene ne avesse visto alcuni tipi e li avesse descritti». A questo punto, l'irritazione diveniva gelo e si «alzava tra di noi una barriera insormontabile».

E tornò a «Resurrezione»
«Questa barriera», proseguiva Lombroso, «consisteva nella sua sorprendente affermazione che né la mia né altre teorie di diritto penale avevano spiegato su che cosa fondino le società umane il proprio diritto di punire i criminali. Gli dissi che Orru, io, Ferri, Garofalo e, prima di me, Romagnosi, senza ricorrere a nessun diritto sovrumano o divino, avevano posto a fondamento del diritto di punire il criminale il principio dell'autodifesa». Discorsi che non scuotevano il vecchio scrittore, il quale ben presto, rimettendo ordine tra i propri manoscritti, avrebbe espresso con chiarezza le proprie posizioni in materia di pena, colpa e «autodifesa», in quel capolavoro morale che è Resurrezione. Una risposta ferma al traballante edificio della criminologia e delle scienze sociali in genere. Rientrato a Mosca senza particolari rimpianti, Lombroso venne ascoltato dal capo della polizia, che gli chiese informazioni sulla sua visita. Egli si mostrò stranamente silenzioso, ma alla fine rispose che Tolstoj gli era parso ovviamente pazzo, ma «un pazzo molto più intelligente di molti idioti che detengono il potere».

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