6.10.11

A Favignana nei giorni del fico d'India. (S.L.L.)


Vivo in una regione, l’Umbria, ove le sagre popolari abbondano. Vi hanno perfino inventato la “Sagra delle sagre”. Non è un male. Credo che quella delle sagre sia una buona pratica italiana: sono manifestazioni che nascono dal tessuto associativo di paesi o quartieri, creando socialità e civismo, costruendo collaborazione fra generazioni che non si praticano e spesso neanche si conoscono.
Nell’Italia centrale e in Emilia il successo delle sagre è anche una conseguenza della progressiva scomparsa del socialismo e del comunismo come religione civile e popolare. Le sagre prendono oggi il posto che fu del Primo maggio o in tempi più moderni delle “feste dell’Unità”, oramai sempre più rare e meno partecipate; ne sviluppano una delle funzioni, quella che nelle zone rosse le voleva non feste di parte, ma identificative di un paese, di una borgata, di un quartiere cittadino e del suo mondo popolare. Quelle dei “rossi” erano feste che si relazionavano a quelle patronali del prete: un po’ le completavano e un po’ vi si contrapponevano per lo stile più materialistico e godereccio.
Le nuove sagre hanno come occasione un prodotto alimentare, spesso collegato alla storia del territorio, ma nel caso di quartieri nuovi, spesso frutto di improvvide cementificazioni, il prodotto è scelto talora in maniera bizzarra e mondialista. Mi è capitato nella piccola Umbria, regione senza mare, di vedere pubblicizzate sagre “della triglia fritta” o altre cui danno nome la crepe o la nutella o il wurstel.
Pure nel Sud, ove le feste dei socialcomunisti raramente hanno avuto la partecipazione popolare e la diffusione capillare di altre parti del paese, le sagre aumentano di numero. Ma, se non hanno e non si danno radici, non reggono, constatata la crescente difficoltà di trovare agiati sponsor privati o pubblici sostegni.
Anche per questo sono contento di aver partecipato, con gusto e gioia, alla prima edizione di una sagra che durerà di sicuro e che si è svolta la settimana scorsa. A Favignana.

L'isola di Favignana con il castello di Santa Caterina.
Nell’isola – me ne vergogno – non ero mai stato, benché meriti per le tante bellezze visite accurate e lunghi soggiorni; ci sono arrivato ora – in questo trapasso di stagione – a reincontrare un amico e compagno di lotte tra i più cari. Non lo vedevo da quarant’anni, ne ho ritrovato tutta intera la cultura e l’intelligenza, la socialità solidale e la popolana arguzia. Capelli pochi e per di più bianchi, ma gli anni non sembravano passati da quando giovinetto Alfonso (così si chiama), alle cinque del mattino, era davanti ai Cantieri Navali di Palermo per distribuire volantini di lotta. Era tra i pochi studenti contestatori in grado di intessere relazioni autentiche con gli operai, i quali giustamente diffidavano dei piccolo-borghesi. Ho fatto amicizia anche con la sua famiglia, ospitale senza forzature: la cara moglie Antonella, una favignanese ferma e generosa, saggia e versatile, Francesca, la figlia combattiva, razionale e organizzatrice, Calogero il figlio estroso dalle mille curiosità intellettuali, Manuela, la sua sensibile fidanzata. Mi ha dato una gioia intensa la loro naturale convivialità: ad Alfonso, andando via, ho detto commosso d’essere stato vicino alla felicità.
Delle bellezze dell’isola, dal mare al castello che la sovrasta, dalle albe alle viuzze, dalla tonnara al palazzo Florio dirò un’altra volta. Qui voglio dire della sagra, la Prima Sagra del Fico d’India. Mi hanno spiegato che la scelta del prodotto ha radici nella storia. Favignana, prima dello sviluppo del turismo, non era esclusivamente un’isola di pescatori e carcerieri, ma ha avuto agricoltura e allevamento che andavano oltre il consumo interno. Uno dei prodotti d’esportazione era appunto un pregiato ficodindia, evidentemente a suo agio tra terreni salini e arie salmastre: fino agli anni Trenta e oltre, giungeva via mare nei porti di Trapani o Marsala e da lì veniva commerciato. Spesso lo vendevano in strada, come prezioso dissetante e corroborante. I fichi d’India poi (insieme ai carrubbi) hanno salvato dalla denutrizione non poche isolane e isolani negli anni di guerra.
Non è forse un caso – dunque - che l’associazione che ha promosso la sagra si chiami Sarba c’attrovi (vuol dire all’incirca “conserva se vuoi ritrovare”), e pensi che il caro vecchio fico d’India possa essere una risorsa per il futuro, anche senza muoversi dall’isola, secondo la filosofia del “chilometro zero”. D’estate Favignana si riempie. Ed anche in primavera e d’autunno non mancano favignanesi d’elezione. Il frutto, sia nature che trasformato in granite, gelati, liquori, marmellate, dolcetti, può diventare per nativi e ospiti un sapore caratterizzante dell’isola, offrendo qualche occasione di lavoro in più specie ai giovani che ne soffrono la mancanza.
Un grande esperto della materia che nell’isola fu apprezzato farmacista, Umberto Rizza, ha spiegato in tre dense paginette, lette e diffuse durante la sagra, non solo la storia, i significati antropologici e le caratteristiche botaniche dell’Opuntia ficus indica, ma anche i possibili usi alimentari e terapeutici. Con chiarezza e competenza, ma senza alcuna concessione alla ciarlataneria. Io so – per esperienza diretta – che l’infuso dei fiori del ficodindia è miracoloso per sciogliere calcoletti, ma Rizza con sobrietà si è limitato ad indicarne  le proprietà diuretiche.
Oltre a diffondere conoscenze a tutti utili, forse un seme per il futuro, la sagra aveva anche altri positivi effetti.  La partecipazione alla preparazione è andata molto al di là dell’associazione che promuoveva, di un’altra che vi ha collaborato (“Diapason”), del volontariato organizzato, delle strutture del Comune. Sembrava che ci fosse una spinta collettiva a fare e dare, oltre che a partecipare, che superava la crosta di indolenza e diffidenza che i favignanesi attribuiscono a sé stessi. Ai miei occhi sono accadute cose che potrebbero essere importanti per la comunità. Nei due giorni della sagra, venerdì 30 settembre e sabato 1 ottobre, c’è stato chi ha prodotto le granite (quella chiara e quella rossa); chi ha impastato i dolcini (anche speciali per i celiachi); chi ha distillato gli squisiti liquori; chi ha addobbato l’atrio e i giardini della palazzina di Ignazio Florio; chi ha provveduto a una colazione a base di fichidindia; chi con passione e competenza ha guidato intere classi scolastiche alla sperimentazione artistica.

Tutto gratis, senza distinzione tra generazioni, cooperando, ragionando con gli altri, organizzando, affermando un “noi” che supera l’aggressivo egoismo proprietario, la religione del “fatti i fatti tuoi” che sembra dominare questo tempo. E’ poco? Sì, forse è poco. “Ci vuole ben altro…” – dicono gli esperti. Ma a me sembra che anche una piccola sagra in cui neppure i rappresentanti del ceto politico sgomitano troppo per mettersi in mostra è un segno positivo.
Alle manifestazioni hanno partecipato molti nativi, ma tutto, a cominciare dal meraviglioso ficodindia, è apparso assai godibile anche agli ospiti, di paesi vicini e lontani. Sabato sera, dopo un'occhiata attenta nello spazio affollato della sagra, un indigeno esperto di queste cose calcolava in media uno “straniero” ogni due favignanesi. Io, per quanto di passaggio, mi sentivo un isolano.

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