27.10.11

La rivoluzione d'Ottobre. L'editoriale di "micropolis"

E’ questo l’editoriale di “micropolis” oggi (27.10.2011) in abbinamento con “il manifesto” nelle edicole dell'Umbria. E’ senza firma e dunque esprime il punto di vista dell’intera redazione. Ma l’estensore del testo è – se non erro – Renato Covino. (S.L.L.)
In sedici anni è la prima volta che ricordiamo la Rivoluzione d’ottobre. Non lo abbiamo mai fatto convinti che nel 1989 era finito un mondo e che, tenendo conto degli sviluppi e degli esiti del regime sovietico, ci fosse ben poco da celebrare.
Neppure oggi ci sfiora un intento celebrativo, quanto la consapevolezza che le ragioni per cui esplose l’ottobre russo si ripropongono a oltre venti anni dalla fine del regime cui aveva dato vita. Le rivoluzioni, infatti, sono non tanto il frutto di una volontà, ma di una necessità. Ci si ribella e si aspira a un mondo diverso quando si prende coscienza che non ci sono alternative. Nel 1917 era evidente che un sistema economico e politico, che aveva prodotto una guerra con milioni di morti, fame e miseria, fosse giunto al capolinea, o almeno così sembrava.
Oggi siamo in una situazione analoga. Il mondo “progredito” è in crisi e c’è una guerra civile fredda tra banche, finanza, padroni, governi e la stragrande maggioranza dei cittadini dei diversi Stati. Molti si sono stupiti o scandalizzati per gli episodi di violenza nella manifestazione di Roma, in realtà essa stava incubando da mesi ed era destinata a riesplodere. Così è avvenuto durante la Grande guerra, durante la crisi degli anni Trenta, nel secondo dopoguerra. C’è da riflettere se i meccanismi di contenimento del “capitalismo rapace” non siano stati anche il frutto di una presenza, come quella dell’Unione sovietica, che rappresentava, almeno nell’immaginario collettivo, un’alternativa ad un sistema in crisi e un punto di riferimento della ribellione in occidente. C’è da interrogarsi se non nascano proprio come tentativo di contenerne il contagio le esperienze di welfare e le forme di intervento pubblico in economia che nell’ultimo ventennio sono diventate oggetto di un attacco indiscriminato da parte di governi di destra e di sinistra.
Il caso italiano è da questo punto di vista emblematico. Il paese è in crisi e non ha un governo. I 316 voti di fiducia di Berlusconi alla Camera sono il segno di una proterva occupazione del potere che provoca reazioni anche nell’establishement e tra i suoi vecchi sostenitori: le associazioni cattoliche, la Confindustria, le banche si aggiungono all’opposizione nel chiedere all’utilizzatore finale di mettersi da parte, invocando, sempre più irrealisticamente, un governo di decantazione e di unità nazionale.
In questo quadro confuso e impotente l’on. Di Pietro riscopre il suo animo di poliziotto e, di concerto con Maroni, se ne esce con la brillante proposta di riesumare la legge Reale, convinto così di mettere il coperchio sulle tensioni sociali. Tutto, insomma, concorre ad evitare che Berlusconi cada sull’onda di una protesta sociale diffusa, che si giunga ad elezioni anticipate, ma soprattutto che emerga un’alternativa di sinistra, sia pur cauta e ragionevole. Il discredito nei confronti dell’intero sistema politico è crescente e, violenza o meno, sarà difficile governare il dopo Berlusconi. Per questo il tycoon regge ancora e, malgrado le chiacchiere, nessuno ha interesse ad accelerarne la caduta. Il cavaliere è politicamente morto, ma i suoi successori sia a destra, che al centro che a sinistra ancora non si vedono. La politica è sospesa, non riesce a dare risposte convincenti alle domande di lavoratori, giovani, cittadini che sempre più spesso scendono in piazza o che, più semplicemente, esprimono il loro disagio. In una situazione che marcisce senza soluzioni, in cui gli strateghi della sinistra pensano a come coinvolgere il Terzo Polo, piuttosto che fornire una sponda a ciò che si muove nel paese, gli esiti finali non possono che essere di destra. La stella polare saranno le indicazioni della Bce, del Fmi e le valutazioni delle agenzie di rating: privatizzare,
liberalizzare, demolire lo stato sociale per consentire agli Stati di pagare il debito. Non è detto che un sistema senza capacità di produrre e ridistribuire ricchezza e opportunità debba per forza crollare, può sopravvivere a se stesso, continuando a dispensare povertà e ingiustizia.
I caratteri di tale declino emergono anche in una situazione marginale e sonnacchiosa come quella umbra. Il fatto politico più rilevante dell’ultimo mese è il furibondo scontro in Consiglio regionale, nel Pd e nel centrosinistra, per l’elezione della consigliera di pari opportunità, con la conseguente sconfitta ed elezione di una rappresentante del centrodestra. Francamente la cosa, rispetto a quello che sta avvenendo, è ridicola, la sua irrilevanza dà l’idea della pochezza del ceto politico. La soluzione - lo abbiamo scritto fino alla nausea – è esterna, quindi, al sistema politico e dipende dall’emergere di forze diverse e nuove. Il problema è che esse non si scorgono all’orizzonte e che forse non ci sarà il tempo per evitare esiti disastrosi. E qui torna utile il richiamo all’Ottobre. Nei mesi che seguirono la rivoluzione di febbraio, in un’assemblea un socialista moderato affermò che in una situazione difficile come quella nessuno sarebbe stato disponibile a prendere il potere. Lenin prese la parola e fece presente, nell’ilarità generale, che lui e il suo partito erano pronti ad assumersi l’onere.
Ecco, finché in Italia - ma più in generale in occidente - non si alzerà qualcuno a sinistra semmai facendosi ridere dietro) che si dichiarerà disponibile a governare sulla base di una proposta chiara e comprensibile, in un dialogo costante con quello che si muove nella società, la situazione rimarrà in stallo e continuerà ad essere esposta a pericolose derive.

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