10.10.11

L'alfabeto fuori di senno (Gian Luigi Beccaria)

Le Parole in corso di Gian Luigi Beccaria su “Tuttolibri” del 23/04/2011 erano dedicate a un manifesto elettorale milanese, ma fanno riflettere anche oggi che le elezioni sembrano lontane. (S.L.L.)
Massimo Gramellini, sabato scorso, nel suo «Buongiorno» quotidiano su La Stampa dal titolo La fine delle parole, ha commentato l'ignominia dei manifesti comparsi a Milano che a grandi lettere bianche su sfondo rosso recavano la scritta «Via le Br dalle Procure». Le parole oggi si stanno davvero svuotando di significato, affogate in una babele di suoni dove non contano più niente (tanto vale il silenzio «tra le macerie», aggiunge amaramente Gramellini). Non si tratta neppure di «manomissione delle parole».
Né di un fatto ascrivibile alla malattia degenerativa che colpisce l'odierna vita pubblica e che sta lasciando tracce vistose sulla neolingua della politica. Non si tratta nemmeno dei soliti toni irriverenti volgari e ringhiosi che ascoltiamo quotidianamente nei dibattiti e nelle interviste, ma del senso delle parole stesse che di botto è svaporato. Otto giorni fa, in un dibattito sulla 7, un ministro della Repubblica, Giovanardi, ha dato del «fascista», pensate un po', a Dario Fo. Abbiamo perduto il senso dell'ironia (uno Scilipoti che sta sotto il cartellino dei «responsabili», la Santanché nel gruppo degli «indipendenti»).
Ci stiamo quasi rassegnando al vedere la gente che si abitua alle figure terribilmente comiche che si alternano sulla scena, figure senza speranza, che ci rivelano brutalmente l'insignificanza delle parole che esse pronunciano, quelle parole della politica che ripetono sino alla nausea nelle comparsate in Tv. Abbiamo smarrito il senso oggettivo di quel che si dice. Eravamo da sempre abituati ai linguaggi «interessati» e «persuasivi» della politica, quelli che attraverso il non-detto, l'eufemismo, la perifrasi, aggiravano la comunicazione più diretta e trasparente; eravamo avvezzi da sempre agli aggettivi semplici ma generici («corretto», «concreto», «responsabile» ecc.), biforcuti perché possono indicare tanto una cosa come il suo contrario.
Tantomeno vorrei evocare l'abitudine (non solo odierna) di usare in modo non appropriato e distorto parole fondamentali come giustizia, democrazia, uguaglianza, libertà: parole importanti svuotate di senso concreto, ridotte a nozioni elastiche, obbedienti a seconda dei casi a disparate convenienze politiche. Difatti constatiamo che è conveniente aggredire per via mediatica inesistenti «toghe rosse» vendute ai partiti, quelle che perseguitano la vittima... Ma scrivere ora su dei manifesti «Via le Br dalle Procure» non è come dire comunista a un avversario per dir male di lui (con un termine «luogo comune», che non ha più un fondamento reale, poiché il comunismo si è estinto da oltre una generazione). È già follia calcolata, è la fine delle parole. 

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