Alla Fiera del Libro di Francoforte il paese ospite è l’Islanda. Per l’occasione “il manifesto” il 12 ottobre ha ospitato il seguente servizio. (S.L.L.)
Halldór Laxness |
In giro per il mondo su scarpe islandesi
Sagenhaftes Island, «Favolosa Islanda». Con questo nome, che richiama paesaggi da leggenda ma strizza l'occhio anche alle saghe nordiche, è stato battezzato il progetto che vede la partecipazione dell'isola di ghiaccio e fuoco, in qualità di ospite d'onore per l'anno 2011, alla Frankfurter Buchmesse, la Fiera del Libro di Francoforte.
Da moltissimi anni, la maggiore fiera libraria al mondo riserva a una nazione, o a una regione, il posto di Gastland, «paese ospite», al quale dare un rilievo particolare. Nel 1988 toccò all'Italia, ora è la volta dell'Islanda. Un popolo poco numeroso, appena trecentoventimila persone, da sempre appartato in un'isola che non è più Europa ma non è ancora America (la Dorsale Medioatlantica la taglia diagonalmente in due). Un'isola dalla natura inospitale, matrigna. Così la descriveva Giorgio Manganelli: «La terra trema, le montagne hanno cicatrici millenarie, l'acqua bolle, la lava fa il deserto per tutto, eccetto muschio e mirtilli, fuoriescono pennacchi di fumo, l'acqua si fa sfera, si impenna ed esplode come un animale geometrico impazzito. Questa terra è numinosa, porta addosso i segni di un recente, ustionante passaggio di numi, è segnata di orme umide di un animale creante, feroce e fantastico» (L'isola pianeta e altri settentrioni, Adelphi, 2006).
Ai margini del mondo
I progenitori norvegesi, ritiratisi lassù al tramonto del IX secolo, forse in cerca di terra arabile, forse in risposta a un desiderio di libertà da un sistema politico poco assonante alle loro esigenze, vi costituirono nel 930 una loro assemblea legislativa, fondando così la prima democrazia moderna d'Occidente. E i discendenti, non meno affezionati alla loro indipendenza, vanno assai fieri del loro antichissimo parlamento. Ma undici secoli di isolamento hanno il loro peso, ecco perché gli islandesi colgono volentieri ogni occasione per presentarsi al mondo e promuovere la loro terra e la loro cultura, sia che questo avvenga tramite i successi discografici dei loro musicisti (Björk, Sigur Rós, Ólafur Arnalds, per fare qualche esempio), sia che provveda Sagenhaftes Island a far circolare il nome dell'isola delle saghe.
Eppure non è certo la prima volta che l'Islanda si fa conoscere, a cominciare dai disastrosi effetti che l'eruzione del 1783 dei crateri di Laki ha avuto sull'Europa, per proseguire con il curioso interesse da parte di grandi autori letterari dell'Ottocento continentale: Victor Hugo (Han d'Islande, 1823), Jules Verne (Voyage au centre de la Terre, 1864), Pierre Loti (Pêcheur d'Islande, 1886), e anche il nostro Giacomo Leopardi, nelle cui Operette morali compare il famoso Dialogo della natura e di un islandese.
E ancora nel Novecento, in più occasioni, l'Islanda ha attirato l'occhio delle cronache: è qui che nel 1986 ha luogo lo storico summit fra Ronald Reagan e Michail Gorbaciov, ed è questo il paese che per primo al mondo ha eletto democraticamente un capo di stato donna, Vigdís Finnbogadóttir, presidente dal 1980 al 1996, e un primo ministro dichiaratamente omosessuale, Jóhanna Sigurðardóttir, sposata con la scrittrice Jónína Leósdóttir. Tutte dóttir, «figlia», perché in Islanda vige ancora il patronimico: «figlia di Finnbogi», «figlia di Sigurður», «figlia di Leó». Oppure il matronimico, perché no? Lassù, si sarà capito, non si fanno discriminazioni.
Ora è la Frankfurter Buchmesse a dirigere i riflettori su quell'isola lontana. Ma dopo il tracollo economico islandese del 2008, quali sono le prospettive per l'editoria, un'industria già di per sé poco stabile? Pubblicare libri in un paese così scarsamente popolato potrebbe sembrare un suicidio aziendale, eppure in Islanda si continua a leggere - e a scrivere! - tantissimo. Merito dei sussidi statali? Anche. Ma soprattutto di una storia culturale nella quale non è praticamente mai esistito l'analfabetismo, né una vera e propria divisione in strati sociali o dialetti. In più, c'è anche un piccolo trucco: proprio grazie alla sua posizione geografica isolata ai margini del mondo, in undici secoli la lingua degli islandesi è rimasta sostanzialmente inalterata, il che permette a chiunque di loro di accedere all'intero patrimonio letterario nazionale, dalle origini fino a oggi. Un po' come se i nostri bambini potessero leggere un intero romanzo scritto nell'italiano del Placito Capuano! Prendere in mano una penna e poter attingere direttamente alla forza narrativa delle saghe medioevali è una risorsa inestimabile.
E gli islandesi sono orgogliosissimi della loro lingua. Protect your language, esorta la cantante Björk, nel brano Declare Independence. E Vigdís Finnbogadóttir, nel suo discorso d'inizio anno del 1995, scriveva: «È molto importante assicurarsi in ogni momento che la lingua inglese, che si dimostra tanto invasiva, non influisca troppo sul pensiero e sull'espressione islandese. Sotto questa luce, appare necessario che la prima lingua straniera insegnata nelle scuole islandesi sia un'altra, per esempio quella di uno dei nostri popoli fratelli in Scandinavia, con i quali è sempre importante mantenere strettissimi rapporti. Allo stesso tempo, però, dobbiamo anche porre in grande rilievo il rafforzamento e il rinvigorimento della lingua madre, questa splendida chiave della nostra peculiarità, della nostra memoria ed eredità, come anche della conoscenza del presente e del futuro. È uno dei fili principali intessuti nella tela che fa di noi un popolo».
I panini in poesia
Sfortunatamente, si tratta di una lingua impervia: la sua grammatica conserva intatto l'antico sistema di flessioni e coniugazioni, e il suo lessico, riluttante ad accogliere termini di origine straniera, tende a servirsi di radici germaniche anche per esprimere i concetti più moderni, o tecnico-scientifici. Ma proprio qui sta la sua bellezza: la «fantasia», che tutto l'Occidente chiama con il termine greco, in islandese è hugarflug, «volo del pensiero». La meccanica quantistica si chiama skammtafræði, «scienza delle porzioni». A Reykjavík non si mangia al «fast food», ma in uno skyndibitastaður, «luogo dei morsi frettolosi». Come non innamorarsi di una lingua che riesce a fare poesia perfino sui panini? Se ne innamorò Jorge Luis Borges: «ese latín del Norte / que abarcó las estepas y los mares / de un hemisferio y resonó en Bizancio / y en las márgenes vírgenes de América» («quel latino del Nord / che si diffuse per le steppe e i mari / di un emisfero e risuonò a Bisanzio / e sui margini vergini d'America»; la poesia è A Islandia, ed è contenuta nella raccolta L'oro delle tigri, Adelphi, 2004; traduzione di Tommaso Scarano). Eppure ben pochi, nel nostro paese, sono riusciti ad apprenderla. Ecco perché la letteratura islandese, sul nostro mercato, è sempre stata poco presente, fino agli ultimi decenni.
Ora, anche grazie alla recente popolarità del thriller nordico, conosciamo perlomeno Arnaldur Indriðason (sette titoli, usciti per i tipi Guanda), Stefán Máni (Nero oceano, Marco Tropea Editore, 2011), e presto vedremo in libreria L'enigma di Flatey di Viktor Arnar Ingólfsson (Iperborea, pubblicazione prevista per il 2012). Ma dal gran calderone - anzi, dalla grande caldera vulcanica! - com'è ovvio, non escono soltanto romanzi polizieschi.
L'autore di punta è ovviamente il mostro sacro Halldór Laxness, premio Nobel nel 1955, del quale la casa editrice Iperborea, in procinto di festeggiare i suoi venticinque anni di attività al servizio della letteratura scandinava, ha già portato in Italia un racconto lungo, L'onore della casa, e due romanzi, Gente indipendente e Il concerto dei pesci (ne esce un terzo, Sotto il ghiacciaio, proprio in questi giorni).
Una rampa di lancio
Ed è forse nell'opera di Laxness che si può trovare la chiave per capire la particolarità della letteratura per come la concepiscono gli islandesi. In questa terra di ghiacciai e distese laviche, sperduta nell'Atlantico a ridosso del Circolo Polare Artico, ma speciale proprio per questo, è comunque possibile rivolgersi a tutta l'umanità, perché heimurinn er einn og maðurinn er einn, «il mondo è uno e il genere umano è uno» (Il concerto dei pesci). Appena diciottenne, durante il suo primo viaggio all'estero - in Svezia, per la precisione - il giovane scrittore rifletteva proprio su questo: girare in lungo e in largo, dall'Estremo Oriente fino a Roma, á íslenskum skóm, «su scarpe islandesi». Parlando dell'Islanda, è possibile parlare del mondo.
Un altro «grande vecchio», per definirlo con le parole della superba traduttrice Silvia Cosimini, è Thor Vilhjálmsson, scomparso a ottantacinque anni lo scorso marzo. Di lui, Iperborea ha pubblicato Il muschio grigio arde e Cantilena mattutina nell'erba, e prestissimo vedremo in libreria l'ultimo romanzo, La corona d'alloro.
Da segnalare, tra gli autori contemporanei, Jón Kalman Stefánsson, del quale è uscito pochi mesi fa il bellissimo Paradiso e inferno, cui seguirà Sumarljós og svo kemur nóttin (che probabilmente in italiano si intitolerà Luce estiva, poi scende la notte), e Sjón, il poeta che scrive testi per Björk, del quale Mondadori ha pubblicato nel 2006 il romanzo breve La volpe azzurra.
Certo, sarebbe bello portare in Italia anche la Lettera a Laura di Þórbergur Þórðarson, e un'altra parte della fluviale produzione letteraria di Halldór Laxness, ma lo scopo di Sagenhaftes Island è proprio quello di colmare le lacune, proporre, dare nuovo impulso alla diffusione della cultura islandese. Anzi, come ha dichiarato al quotidiano «Morgunblaðið» lo studioso ed editore Halldór Guðmundsson, che avrà il compito di rappresentare l'Islanda a Francoforte, «far valere la nostra squadra nazionale alle olimpiadi della letteratura».
La metafora fa un po' sorridere, dal momento che le fiere sono soprattutto un'occasione di compravendita, prima che di istanze culturali, eppure è vero che possono rappresentare una potentissima rampa di lancio - non soltanto economico - di un libro. E, come lo stesso Halldór Guðmundsson fa notare, «i libri sono beni permanenti». Il che, in tempi di crisi, è cosa da tenere in considerazione.
Ho ottanta anni e per tutta la vita non ho fatto che girare il mondo in lungo e in largo. Dall'Afghanistan alla Nuova Zelanda, dal Cile, alla Siberia, Arabia, Persia Sudan, isole Cook ecc. ecc. Un centinaio di paesi all'incirca. Ma di tutti credo che quello che mi colpì di più, oggi che sono al reddere ad rationem della vita e posso tirar le somme, è l'Islanda. La visitai 56 anni orsono nel 1960. Vi rimasi circa tre mesi, ero ancora studente universitario e la girai da solo in autostop. Ad Akurairy trovai lavoro in una fabbrica di pesce. A quel tempo le donne, soprattutto le anziane, portavano ancora i costumi e le acconciature tipiche di quel posto. Non mi dilungo. Mi colpì così tanto non solo per la natura meravigliosa e selvaggia ma essenzialmente per la gente, un popolo "speciale", ove la letteratura, la poesia era il pane quotidiano di tutti.
RispondiEliminaMario Menichetti