12.10.11

Maccheroni a caro prezzo (un inedito di F.S. Fitzgerald da "il manifesto")

Il 17 e il 18 agosto “il manifesto” ha pubblicato in due puntate un racconto di Francis Scott Fitzgerald mai apparso in italiano, che venne scritto nell'inverno 1924-'25 a Roma. Nella città i Fitzgerald sperimentarono l'arroganza di una Roma, che - come si legge nella prima puntata - approfittava dell'Anno Santo per spennare i turisti. Il racconto rimase incompiuto, ma la qualità a me sembra alta, e l’Italia che veniva dallo scrittore americano osservata, enfatizzata, satireggiata è ancora qui, davanti agli occhi nostri. Con il racconto ho postato le “nota” dell’ottima Giulia Napoleoni che ha curato la pubblicazione sul quotidiano comunista oltre alla non facile traduzione.  (S.L.L.)

Come molti altri americani anche noi ci troviamo in Europa. Siamo arrivati un anno e mezzo fa nel tentativo di risparmiare. Ci proveremo per un altro anno e mezzo e poi, se non saremo riusciti a far di meglio, torneremo a casa e ci cercheremo qualcosa da mangiare.
Se vi piacciono i resoconti di viaggio tipo Due anni felici a spasso per l'Europa avete aperto alla pagina sbagliata. Voltate pagina. Questa è una storia spiacevole con personaggi sinistri la cui attività principale è sottrarre denaro ad americani nobili e di buon cuore. Ogni volta che sentiamo di un'altra coppia venuta qui per mettere da parte qualche soldo, chiniamo la testa e versiamo lacrime su quello che abbiamo a portata di mano, generalmente un piatto di maccheroni.
Al nostro arrivo, scendemmo nel sud della Francia dove tirammo avanti sei mesi cercando di mantenere una famiglia francese numerosa, e in costante aumento, che faceva scherzosamente riferimento a se stessa come «ai nostri domestici». Al termine di questo periodo avevamo messo in banca, tra azioni, obbligazioni e programmi di accumulo, poco più di un centinaio di dollari. Fu questa l'esperienza, a noi fin troppo familiare, che ci trovammo a dover fronteggiare alla fine del nostro primo semestre all'estero.
«Non riesco a trattare con questa gente - disse mia moglie - conoscono il gioco fin troppo bene. Per risparmiare qualcosa, dovremo andarcene».
«E dove?»
«Che ne dici dell'Italia?»
Ora lei insiste a dire che quel giorno sono stato io a menzionare per primo l'Italia, ma non è vero. È stata lei. Quando ne discutiamo - raramente più di una volta a settimana - è portata a innervosirsi un po': «Chiudi il becco tu!» e altre cose altrettanto sgradevoli. Resta il fatto che demmo uno sguardo al tasso di cambio con l'Italia e, trovandolo più conveniente di quello con la Francia, decidemmo di passare un mite, tranquillo ed economico inverno a Roma.
Stavolta non volevamo correre rischi, quindi elaborammo un ferreo piano al quale giurammo di attenerci. Vi erano previste tutte le spese possibili e c'era ampio margine per le varie ed eventuali per non farci cogliere alla sprovvista dalla vita. Ci garantiva di risparmiare tremila dollari entro l'inverno e, in una decina di anni, abbastanza per tutta la vita. Sotto le nostre firme Zelda disegnò dei fiori, veramente molto graziosi, e andammo a dormire con la sensazione di essere infine sul binario giusto. Certo sembrava un peccato lasciare la Francia quando avevamo appena imparato la lingua - la parlavamo quasi senza accento francese - ma eravamo terribilmente determinati a risparmiare qualcosa e il cambio ci indicava la via.
Dunque, in una soleggiata mattina d'ottobre caricammo la piccola auto francese con l'unica valigia che poteva entrarvi, salutammo nostra figlia e la tata, che ci avrebbero seguito in treno, e ci allontanammo dalla nostra bella villa in Riviera. Forse il mio diario di viaggio nell'assolata Italia, parole annotate sull'onda dell'entusiasmo e ancora sotto la magia della bellezza dello scenario, darà un'idea migliore del soggiorno più di quanto possa scrivere ora.
Venerdì 31 ottobre
Questa sera alle sette ci siamo lasciati la Francia alle spalle e abbiamo passato il confine della fiorita Italia, dove abbiamo subito rilevato una variazione di temperatura. Era leggermente più freddo. Zelda è stata in preda alla nostalgia finché non ha chiamato la tata da San Remo, dove abbiamo dormito, e non ha saputo che la bambina era viva e vegeta. Maccheroni per cena, è stato piacevole mangiare del vero cibo italiano.
Sabato 1 novembre
Avendo sbagliato strada, saremmo rientrati in Francia se l'agente doganale non ci avesse fermato e fatto tornare indietro. Sembrano tutti molto poveri e affamati. Zelda dice che stamattina siamo passati davanti a dei bei fiori, ma siamo chiaramente troppo a nord per trovare un clima caldo, tanto che l'auto si è gelata mentre cenavamo a Savona. Abbiamo mangiato maccheroni al formaggio, un'idea originale, molto buoni.
Domenica 2 novembre
Per scaldarci, stamattina abbiamo comprato un plaid. È costato solo tre dollari, il che è molto economico e dimostra che siamo sulla buona strada. In America sarebbe costato quattro volte tanto. Dico a Zelda che non è corretto basarsi sui prezzi degli alberghi sulla strada. Siamo arrivati a Pisa alle dieci. Zelda dice che, appena prima dell'imbrunire, siamo passati davanti a un altro fiore.
Lunedì 3 novembre
Dopo una piacevole colazione a base di caffè e maccheroni, siamo partiti per Firenze. La benzina è piuttosto cara a causa del cambio, circa sessanta centesimi al gallone, tuttavia ci dicono che al sud i prezzi sono più bassi. Noto che, prima di darci il conto, ci chiedono sempre se siamo inglesi o americani e il mio istinto mi dice che dovremmo farci passare per inglesi. Comprato un monocolo piccolo, ma costoso. Zelda irritabile. Le è presa una curiosa avversione per i maccheroni.
Plaid usurato.
Martedì 4 novembre
Zelda è stata veramente sciocca riguardo ai maccheroni, dice che mangiarli a colazione la fa star male e abbiamo litigato da qualche parte tra Firenze e Roma. Avvicinandoci a Roma pensavamo di aver visto un altro fiore, ma si è rivelato una vecchia giarrettiera. Subito dopo abbiamo guidato fino a una grande città dove tutti, tranne me, guidavano sul lato sbagliato della strada. L'uomo che ha tentato di arrestarmi, mi ha detto che questa era Roma e ha precisato paese che vai, usanza che trovi. Il facchino dell'albergo dice che secondo lui smetterà di nevicare prima che sia mattina.
Alle nove del giorno dopo sono andato in un'agenzia immobiliare (Reala Estata Uffizia) e ho chiesto a un sonnolento impiegato un appartamento, aggiungendo che non avrei voluto pagare più di centocinquanta dollari al mese. A questo punto, l'impiegato si è svegliato ed è scoppiato in una fragorosa risata. Ha gridato qualcosa e immediatamente altri impiegati hanno affollato la stanza e iniziato a fissarmi.
«Qual è il problema, gente?»
«Questo Anno Santo».
«Ecco una ragione in più per essere civili e non fare tutto questo chiasso insolente».
Al che, hanno cominciato a parlare tutti insieme agitando minacciosamente l'indice verso di me. C'è voluto un po' prima che capissi il significato di ciò che avevano detto. Era l'Anno Santo. Solo un anno ogni venticinque è l'Anno Santo e noi eravamo erroneamente incappati proprio in uno di questi. Per l'uomo d'affari romano, l'Anno Santo è il periodo in cui conta di lucrare sui pellegrini stranieri tanto da potersi riposare per altri venticinque anni.
Uno stuolo di speculatori - ufficiali dell'esercito, affiliati alla Mano Nera, camerieri, mulattieri, becchini e principi di sangue - fa incetta di edifici di ogni tipo da spacciare come condomini in attesa degli americani. Si considera necessario solo ritappezzare quattro camere in caseggiati sgangherati, installare una tinozza in uno sgabuzzino e dire con voce risoluta ma pia: «duecento al mese». Talvolta la vasca non è nemmeno collegata e una volta, durante le avvilenti settimane successive, un nostro eventuale padrone di casa non sapeva neppure a che cosa servisse. L' aveva comprata perché gli altri affaristi le compravano e ci aveva detto che era parte di un nuovo sistema di riscaldamento americano. Dopo due settimane dietro falsi fili d'Arianna fra tetri vicoli, rinunciammo all'idea di un appartamento a prezzi ragionevoli e ci stabilimmo per la stagione in un piccolo albergo....
Non c'era nessuno sfoggio grossolano o niente del genere - le sole gemme che vidi erano nell'orologio del direttore ed erano così piccole da essere offensive.
Se la nostra bambina fischiava nella hall, tutti i clienti si precipitavano giù gridando «Dov'è l'incendio?»
L'edificio era stato costruito sulla tomba di uno dei primi imperatori e il vano dell'ascensore, è ovvio, comunicava direttamente con il mausoleo aperto. Sai che bell'atmosfera! Quasi ci infastidiva che stessero costruendo in un'altra ala la nuova sala da pranzo e che non avremmo potuto continuare a mangiare in quel vecchio e pittoresco guardaroba temporaneamente in uso. C'era qualcosa di molto straniero e «vecchio-mondo» in tutto questo. Era terribile.
Il direttore ci aveva fatto una tariffa speciale per l'inverno - ottocento dollari al mese - che includeva due stanze doppie, uno studio, un bagno, riscaldamento, luce, aria, mance, tasse e vitto, e qualsiasi altra cosa alla quale noi potevamo pensare. Eravamo fortunati ad avere tutto questo - ci aveva detto - , il mese dopo, la gente avrebbe dormito per strada e il cibo si sarebbe esaurito per l'orda dei pellegrini.
D'altro canto l'Hôtel de la Morgue serviva sei portate a ogni pasto. Trascrivo una semplice nota del vitto:
1. Couvert
2. Pane o burro a scelta
3. Maccheroni con carne grattugiata
4. Spaghetti al pomodoro polverizzato
5. Vermicelli al formaggio annichilito
6. Frutta o tenersi la fame
Non ci siamo mai alzati da tavola affamati. Infatti, non ci andavamo mai affamati. C'era una sorta d'incantesimo su quel guardaroba perché, una volta entrati, non ti importava di mangiare.
Lasciamo l'Hôtel de la Morgue per qualche ora e andiamo a spasso per le strade di Roma. Contrariamente alla comune credenza, Roma non è abitata solo da uomini. È vero che le donne sono chiuse nelle loro case di giorno e di notte, in un modo che piacerebbe alle nostre più violente anti-femministe, ma il numero dei bambini che si accalca nelle strade testimonia la loro esistenza. Dopo il crepuscolo, gruppi di uomini loschi gironzolano in angoli incolore, uomini monotoni con facce annoiate e tetre. Sperano che accada qualcosa, che una tardiva flapper appaia nelle vicinanze come una nota di colore, che gli Stati Uniti eliminino le restrizioni per gli emigranti o, in mancanza di questo, che inizi il suono delle mitragliatrici che segnala una nuova rivoluzione. Perché l'italiano è un anarchico naturale. Il suo retaggio è lo spirito ribelle dei secoli bui, quel talento per la violenza e il sospetto contro cui, negli ultimi cento anni, una dozzina di paladini da Mazzini a Mussolini hanno combattuto invano. La divina rissa, cominciata nel sesto secolo e non affatto finita, ci si è presentata un pomeriggio durante un tè danzante in un elegante albergo.
Non era il nostro albergo. Nel nostro albergo avevamo la sensazione che quei tè danzanti fossero volgari. È stato al Mazuma Americana, un edificio alla moda dove i maccheroni erano menzionati con un sussurro. Eravamo stati accompagnati a un piccolo tavolo d'angolo per nulla ambito, avevamo ordinato il tè e qualcosa per togliercene dalla bocca il sapore, stavamo per alzarci e andare a ballare quando all'improvviso la pace venne turbata dalla presenza di due giovani al nostro fianco. Erano dei giovanotti magri e pallidi. I loro occhi neri brillavano smorti, i cappotti li allacciavano come corsetti stretti in vita, era incredibile come i piedi di entrambi, destro e sinistro, andassero nella stessa direzione. Ma era così, erano diretti verso di noi e le loro bocche pendule si contorsero, con qualche difficoltà, in un'espressione di disprezzo.
«Questo tavolo - disse il primo picchiettando delicatamente con l'indice sul piano - è riservato per la Principessa Dumbella».
Non lo era, ma al suo gruppo, che includeva la Principessa Dumbella, mancavano due posti.
«Non ci sono altri tavoli liberi - dissi io - abbiamo ordinato il tè e non possiamo andarcene».
«Lo so che non ci sono altri tavoli - disse lui - ecco perché la Principessa Dumbella lo deve avere».
Oggi i Dumbella sono i discendenti di una di quelle famiglie di banditi che per sei secoli hanno derubato, demolito, torturato, corrotto, assassinato, fatto i prepotenti e imbrogliato assumendo il controllo degli affari romani. Questo controllo fu loro sottratto, elegantemente ma con fermezza, circa cinquant'anni fa, ma tramite parecchi matrimoni americani hanno continuato a mantenere la loro posizione nell'aristocrazia internazionale. Si meritano il nome che hanno meno d'ogni altra aristocrazia al mondo, inclusa quella russa, poiché la loro storia è una lunga saga di devastazione e distruzione.
«Questo tavolo - ripeté il giovanotto - è riservato per i Dumbella. Li state facendo aspettare, capito?»
La sua voce stridula risuonò sull'alto volume del jazz americano. Quale vago retaggio di dispotismo ancora balenante in questo spettro gli fece supporre che quel nome fosse ancora in grado di far desistere qualcuno dall'occupare un tavolo da due!
«Chi sono i Dumbella?» chiesi.
«I Dum...!» Restò a bocca aperta. Il suo compagno fece subito un cenno al capocameriere ed ebbe luogo una vivace conversazione in italiano.
«Chiedo scusa - mi disse il capocameriere - alloggia in questo albergo?»
«No - risposi - sono all'Hôtel de la Morgue. Noi preferiamo gli alberghi piccoli».
Sembrarono tutti un po' scioccati. Il capocameriere fu il primo a riprendersi.
«Sono spiacente di dirle che questo tavolo è riservato».
«Sopra non c'era nessun cartellino di prenotazione - protestai - ci hanno accompagnati qui e la nostra ordinazione è stata presa».
«Non discutere - disse mia moglie a bassa voce. - Andiamocene. È il prezzo da pagare».
«Posso montare un tavolo per voi nella dispensa» suggerì il capocameriere.
Ci alzammo e rimanemmo per un istante faccia a faccia con lui, cercando di pensare a qualche osservazione graffiante. Non ci venne in mente, quindi, rifiutando sdegnosamente il tavolo rimediato, uscimmo fuori fieramente (credo che sia questa la parola) dalla porta nel freddo pomeriggio di dicembre.
«Non mi piace qui - dissi quando un colonnello fascista provò a scansarsi dal marciapiede in segno di spontanea ammirazione per mia moglie - non mi piace questa gente e neanche il nostro albergo in questa città. Andiamocene».
«Non possiamo».
«E perché no?»
«Perché stiamo rispettando il nostro programma. Se ci spostassimo prima della stagione primaverile saremmo punto e a capo».
«Penso che ce ne dovremmo andare».
«Ma è sciocco, per una volta che cominciamo a mettere qualcosa da parte ci stufiamo e ci trasferiamo».
«Ma con quello che stiamo spendendo, potremmo permetterci più cose a New York».
«È l'Anno Santo».
«Non rigirare il coltello nella piaga».
«Bene, prendiamo il lato positivo. Cerchiamo di leggere un po' di storia e andiamo a visitare molte chiese, rovine e cose simili ogni pomeriggio. Almeno qui non ci sono distrazioni a impedirti di lavorare».
Restammo. Comprammo un libro di storia che, se non fossimo incappati nel nome Paola Dumbella, avremmo letto. Ci trascinammo tra le rovine. Nessuna delle nostre guide aveva mai letto lo slogan «Neanche i suoi migliori amici glielo diranno»[1], e noi cercammo di tenerci a tre metri da loro. Andammo al cinema dove davano la prima metà delle pellicole americane e annunciavano la seconda metà per la settimana successiva. Fischiammo. Ci venne detto in seguito che i fischi erano come applausi.
Passò un mese. Appena imparai a guidare sul lato sbagliato della strada la legge fu cambiata, tutti dovevano guidare a destra. I romani non facevano attenzione, tenevano la sinistra, gli inglesi e gli americani tenevano la destra e i tram si sbattevano su e giù al centro, sicché ogni strada di Roma diventò un senso unico con il traffico in entrambi i sensi.
Passarono due mesi, due anni, due decadi. Stavo diventando sempre più furioso. Una ciocca bianca mi era comparsa tra i capelli, la nostra bambina era cresciuta, si era sposata e si era trasferita altrove. Il cavallo di ferro[2] del presidente si era consumato. Il Colosseo era crollato. La sala da pranzo dell'albergo non era ancora finita e noi continuavamo a mangiare maccheroni nel guardaroba. Alla fine scoprimmo che la nuova sala da pranzo era stata soltanto un'esca per riempire l'albergo ed era stata venduta da allora all'attività commerciale della porta accanto. Ma eravamo troppo vecchi perché ce ne importasse. Gli anni passavano. I nipoti giocavano sulle nostre ginocchia e noi, sdentati, li guardavamo affettuosamente a bocca aperta. Mia moglie si era decisa infine a farsi crescere i capelli. L'ultimo dei Dumbella era morto. A volte ci chiedevamo se la burla dopo tutto non riguardasse noi. Chiunque può risparmiare se è disposto a vivere di biscotti per cani (è così, chiunque tranne un cane), ma l'abilità sta nel risparmiare vivendo nel lusso. Qualcosa andava storto da qualche parte e un giorno improvvisamente raggiungemmo il colmo e lo scoprimmo.
Cominciò con un fazzoletto, un fazzoletto rosso con un orsetto blu in un angolo, uno dei sei che Zelda aveva comprato per la bambina. Per una di quelle strategiche sviste, delle quali i romani sono così esperti, dal pacchetto, una volta a casa, ne emersero solo cinque.
Zelda si mise a sedere ed emise tre profondi sospiri.
«È inutile - disse - se non torno indietro sarò arrabbiata tutto il giorno perché mi hanno imbrogliato, se ci ritorno giureranno di avercene messi dentro sei e sarò comunque arrabbiata».
«Vengo con te - dissi seriamente - ci torniamo e ci consegneranno questo fazzoletto, sennò andranno in prigione».
Ci andammo e litigammo. Se c'era una cosa della quale erano tutti sicuri in quel negozio era che sei fazzoletti erano stati impacchettati. Dissi che non sarei mai più entrato nel loro negozio, che avevo tre fratelli con un attacco di raffreddore allergico e che mi aspettavo per il giorno successivo un grosso acquisto di fazzoletti, ma furono irremovibili. Dopo mezz'ora ero dalla loro parte; cominciai a pensare che il fazzoletto doveva essersi fatto strada nella carta ed essere caduto per strada. Alla fine mi scusai umilmente di averli seccati e strisciai fuori dal negozio.
«Forse hai ragione tu - dissi a Zelda - ma non lo avrai mai».
«Ce l'ho».
Aprì la mano.
Come da uno di quei fuochi d'artificio del Quattro Luglio, srotolò un minuscolo fazzoletto rosso con un orso in un angolo.
«Era nascosto sotto la pila sul bancone» disse.
«L'hai rubato?»
«No. Mi è caduto in mano».
«Ma supponi che ti abbiano visto».
«Mi hanno visto. E il proprietario, in un certo qual modo, ha strizzato l'occhio come se si stesse congratulando con me. Solamente non volevano arrendersi, ecco tutto».
Riflettei.
«C'è qualcosa che non capiamo».
«Non capiamo nulla - lei mi interruppe - il loro modo di essere scortesi o il loro modo di essere cortesi, il loro modo di essere onesti o il loro modo di essere disonesti. Non penso che dovresti discutere come facevi in Francia. Penso che dobbiamo fare come vogliamo, come per esempio guidare sul lato destro della strada. Guidano tutti come vogliono».
E così, in un freddo pomeriggio di gennaio, accadde che due perplessi americani se ne andarono lungo i viali, per così dire, ricchi di odori della Città Eterna, persi nei loro pensieri. Sapevamo che questa gente era diversa da noi, ma ricordavamo di essere anche noi diversi da loro? Spesso, quando nell'ufficio del turismo avevamo visto orde dei nostri connazionali più ignoranti e disorientati tentare di spiegare a un impiegato straniero che volevano «la cuccetta di sotto» o qualche altro bene introvabile, noi ci eravamo vantati della nostra superiore esperienza cosmopolita. Quella era l'idea arrivati a Roma! La storia dei fazzoletti ne era la chiave. Fu quando lo capimmo che il divertimento cominciò.
Appena entrammo all'Hôtel de la Morgue, ci fu presentato il conto. Lo guardai. Lo guardavo sempre con occhio americano, ma stavolta lo guardai realmente. Poi tirai fuori la mia stilografica e sbarrai la voce acqua minerale.
«Questo non lo pago» dissi.
«Perché no, Signor?»
«Perché un giorno ho colto il cameriere nella hall che riempiva le bottiglie dal rubinetto». Tirai un'altra linea nera orizzontale sulla pagina. «E non pago il riscaldamento. Non c'è stato il riscaldamento dal lunedì al giovedì. Arrivati a venerdì, eravamo così abituati al freddo che dovevamo aprire le finestre».
«Per di più - aggiunse mia moglie - sapete che la stagione turistica è stata deludente e che non potreste riaffittare la nostra stanza. Togliete il venticinque per cento del conto o noi ce ne andremo domani». Restituii il conto posandolo sul bancone e stetti a guardare il direttore, tremando lievemente.
«Qualcuno le ha parlato - scoppiò rabbiosamente - qualcuno in albergo».
Ci scambiammo un'occhiata.
«Conosciamo il gioco - risposi - dovremmo davvero togliere qualcosa per la mancata sala da pranzo e l'ascensore che non va e il cibo che non va e i domestici che non vanno e...».
«Sh! - Sussurrò - Sh-h-h!» Una piccola folla si era radunata. «Se venite nel mio ufficio più tardi forse possiamo sistemare la cosa».
«Ma che ne è del nostro intero inverno rovinato - gridai - sistema questo se puoi! Dacci indietro novembre, dicembre, gennaio. Che scusa avete per i soldi, ci avete già spremuto per la camera fissa in questa malfamata stalla!» Mi interruppi. Le sue labbra già borbottavano automaticamente e non ebbi bisogno di sentire per capire quello che stavano dicendo.
«È il tasso di cambio. Il tasso di cambio».
Una sorta di follia ci invase. Saltammo su un taxi e arrivammo all'Hôtel Mazuma Americana. Il tè danzante del pomeriggio stava cominciando e i nostri occhi notarono la principessa Dumbella e i suoi due cavalieri del mese scorso che si avvicinavano con comodo all'ultimo tavolo libero. Mi avventai sul capocameriere.
«Mi ascolti bene - dissi - io devo avere quel tavolo. Sono Claude Lightfoot, sono il re del denaro americano e, se non posso avere quel tavolo, chiederò la restituzione del prestito italiano».
«Ma signore, la principessa Dumbella...»
«Basta! Mi chiami Mussolini al telefono».
In un attimo il gruppo Dumbella fu intercettato. Davanti a loro e su entrambi i lati si alzò una barricata di camerieri che spingeva, inciampava e si scusava. Nel frattempo fummo scortati con deferenza al tavolo desiderato lungo un corridoio protetto.
Fuori era buio e freddo. La tetra foschia di campagna si era accumulata e si stendeva sulle strade come il fumo in dissolvenza dopo un bombardamento. Una mezza dozzina di tassisti svogliati poltriva davanti alla porta del cabaret, fumando il tabacco che vecchie donne recuperano da cicche di sigaretta scartate. Uno di loro ci seguì mentre ci dirigevamo al taxi più vicino.
«Hôtel de la Morgue» dissi. Mia moglie salì a bordo.
«Cinquanta lire» egli rispose.
«Cinque o sei lire - lo corressi. Ho già fatto lo stesso tragitto».
«Ma sono passate le dieci».
«Chiudiamola con quindici inclusa la mancia - dissi. Ma sbrighiamoci, fa freddo».
«Cinquanta lire» ripeté.
«Non scherziamo - dissi. Abbiamo ormai una certa esperienza in materia».
Con mio dispiacere, egli scrollò le spalle e se ne andò.
Uscimmo e ci avvicinammo a un altro taxi, ma il proprietario, dopo una consultazione con il primo uomo, non si mosse dal suo posto salottiero e scosse solo la testa sdegnosamente. Provammo con tutti ottenendo lo stesso risultato.
«Sono a caccia grossa - pensai. Sanno che siamo assennati».
Decisi di collaudare i miei metodi fascisti. Non avevo a portata di mano l'olio di ricino, ma mi avvicinai al primo autista con fare minaccioso.
«Ci porterai a casa. Ti darò venticinque lire, che sono cinque volte il prezzo, punto e basta».
Per tutta risposta guardò il suo compagno e sputò con disprezzo sul marciapiede. Un italiano uscì dal locale, salì su un taxi e, senza dire altro che l'indirizzo, si allontanò.
«Ci porterai a casa ora. È chiaro?!» dissi alzando la voce.
«Americano?» chiese.
«E questo che c'entra?»
«Cinquanta lire».
Non è stato scritto nessun libro decente sulla psicologia di mezzanotte o forse fu il suono delle parole «cinquanta lire» che suonano come «cinquanta dollari», anche se equivalgono più o meno a due. Quello che accadde era stato preparato circa quindici anni prima, quando avevo preso quattro lezioni di boxe da Tommy Gibbons (allora non era famoso, era il fratello minore di Mike). Le lezioni principalmente vertevano su cosa fare in una rissa di strada. Non avevo mai avuto l'intenzione di trovarmi in una rissa, ma successe dopo circa due minuti dall'ultimo accenno alle cinquanta lire.
Durò una decina di minuti, con brevi esplosioni di dispute verbali. Dapprima c'era un solo tassista e io avevo quasi la meglio su di lui; poi ce ne furono due e io stavo avendo la peggio. Ma non ci pensai e, quando un intrigante estraneo si intromise, non avevo voglia di finirla lì e spazientito lo spinsi da parte. Ostinatamente ritornò, barcollando fra noi, parlando a raffica in italiano, facendo del suo meglio, mi sembrò, per interrompere le mie offensive a vantaggio del tassista. Una volta di troppo cercò di afferrarmi il braccio. Accecato dalla rabbia, rapidamente mi girai verso di lui e (con maggior successo che con gli altri) lo colpii sotto il mento; al che cadde a sedere, con mia somma sorpresa.
All'istante si levò un mormorio dalla folla che si era radunata.
«Santa Maria!»
«Ah Dios».
«Pauvra americano!»
«Oh mio culpa!»
«You done it now!» Disse una voce in inglese sgrammaticato. «Meglio colpirlo finché la situazione è buona. L'hai steso».
«Ben gli sta - gridai. Perché non si è fatto i fatti suoi? Che c'entrava lui con questa faccenda?»
«Sono fatti suoi - disse una voce. Quello è John Alexander Borgia, il Capo della Polizia segreta dei carbonieri».

Fine


NOTA ALLA TRADUZIONE.
IRONICHE STORPIATURE DELL'ITALIANO
«The High Cost of Macaroni» è rimasto incompiuto: i primi due terzi sono dattiloscritti e l'ultima parte è scritta a matita, dieci righe o più sono state tagliate. Il testo, curato da H. D. Piper che ne emenda ortografia e punteggiatura, presenta alcune annotazioni olografe dell'autore. Queste mostrano che Fitzgerald non era soddisfatto del titolo, che inizialmente Zelda compariva con il nome di Tilda e che la narrazione doveva proseguire con altri tre aneddoti intitolati «Capri», «Concierge, doctor, drugstore», «Rate of exchange». Il finale resta aperto con i coniugi Fitzgerald che abbandonano l'Hôtel de la Morgue (l'Hôtel des Princes di piazza di Spagna chiuso nel 1931) alla volta di Capri per sfuggire, come Tiberio, a una Roma che diveniva «too hot». Lo sketch è pervaso da grande ironia: l'uso che lo scrittore fa della lingua italiana è improprio e volutamente spregiativo. Le uniche parole scritte correttamente riguardano il cibo, per il resto sembra essere un ibrido di spagnolo e inglese, una sorta di lingua senza identità.
Giulia Napoleone


[1] «Even your best friends won't tell you», frase probabilmente presa dalla pubblicità del colluttorio Listerine in voga in America negli anni '20

[2] «Iron Horse» era il nome della locomotiva sulla quale salì, per la prima volta, Andrew Jackson, VII presidente degli Stati Uniti (1829-1837)


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