23.10.11

Sciascia e i giudici. Appunti per un convegno (Salvatore Lo Leggio)

A futura memoria è il volume che raccoglie gli ultimi “scritti civili” di Leonardo Sciascia, soprattutto articoli per quotidiani e periodici, molti dei quali dedicati a temi “giudiziari”: tra essi il celebre (o famigerato) articolo sui “professionisti dell’antimafia”. Il libro, pubblicato nel 1989, è stato letto (a mio avviso indebitamente) come una sorta di testamento e perciò ad esso soprattutto ci si affida per ricostruire il sentire e il pensare del “maestro di Racalmuto” su giustizia e giudici.
Non sono persuaso che sia la via migliore; io comunque, in questi appunti, ho scelto di seguire un percorso diverso, cercando di rintracciare questo sentire e questo pensare in scritti più da storico e letterato che da intellettuale “impegnato”, scritti in apparenza rivolti al passato e senza legami immediati con l’attualità, opportunamente ricordando che Sciascia stesso si definiva “scrittore impuro” e mai rinunciava a ricavare da fatti lontani, da polverosi documenti, tutta la contemporaneità che riusciva a rintracciarvi.

La Colonna Infame
Lo scrittore siciliano ha raccontato (in una intervista a Giulio Nascimbeni ripubblicata l’anno scorso dalla rivista degli “Amici di Leonardo Sciascia”, la cui testata non casualmente è “A futura memoria”) di aver imparato a memoria da ragazzo la Storia della Colonna Infame di Alessandro Manzoni. Si tratta dell’illuministico libretto che il grande scrittore milanese dedicò al secentesco processo agli untori, alle superstizioni che lo animarono, ai carnefici e ai giudici.
Proprio su questi ultimi si ferma l’attenzione nel saggio che Sciascia dedica alla Colonna Infame e inserisce in Cruciverba: usa parole di fuoco contro un critico novecentesco, Fausto Nicolini, che in un libro del 37 (Peste e untori) di quei giudici aveva tentato l’apologia (“un Monti e un Visconti, uomini di cui tutta Milano venerava l’integrità, l’illibatezza, l’ingegno, l’amore pel bene pubblico, lo spirito di sacrificio e il grande coraggio civile”), accusando il Manzoni di “moralismo”. “Secondo Nicolini – osserva Sciascia - quei gentiluomini che condannarono i presunti untori, il Monti e il Visconti, avevano ingegno, erano onesti. Due qualità che, nel caso, non potevano coesistere: perché è possibile che fossero onesti ma imbecilli: o che fossero disonesti essendo intelligenti”. Se poi Nicolini portava a spiegazione dell’orribile sentenza “l’oscurità nelle menti e la tortura nelle istituzioni”; Sciascia obiettava che, trattando quella condanna come se fosse “un fatto di natura, un terremoto, un nubifragio”, egli parlava in nome del “più pedante storicismo” diffondendo “sciocchezze da ricercatore d’archivio intriso d’estetica crociana che non riesce a vedere i fatti nella loro totalità e nel loro significato”.

I burocrati del Male
Parole ancora più pesanti lo scrittore adopera per i due giudici milanesi, usando come termine di paragone un libro sugli orrori nazisti di Charles Rohmer, L’altro: “Quei giudici erano onesti e intelligenti quanto gli aguzzini di Rohmer erano buoni padri di famiglia, sentimentali, amanti della musica, rispettosi degli animali. Quei giudici furono «burocrati del Male»: e sapendo di farlo”.
E’ l’atteggiamento che Sciascia assumerà, a mio ricordo senza eccezioni, in tutta la carriera di scrittore, verso gli uomini di legge (non importa se del passato o del presente, se della cronaca o dell’immaginazione), cui è demandato l’ufficio pubblico di “fare giustizia” da indagatori, da inquisitori e soprattutto da giudici. Non c’è per Sciascia contesto che possa giustificare l’acquiescenza verso l’ingiustizia, la menzogna, l’impostura, la violenza di cui il potere (tendenzialmente ogni potere) si nutre.
E’ responsabilità di ognuno scegliere tra il ruolo di “burocrati del male” o la ricerca attraverso il dubbio di un varco verso la verità e il bene.
Per questo Sciascia mette in primo piano il singolo individuo, con i suoi dilemmi, eroismi, abiezioni e viltà, ancora una volta seguendo il modello di Manzoni, che anche nel romanzo maggiore sembra attento, oltre che agli imperscrutabili disegni della Provvidenza, alla dialettica giustizia-ingiustizia nelle terrestri istituzioni civili, ove non solo “i signori hanno fatto le leggi secondo il comodo loro”, ma sovente riescono a sfuggire alle leggi che hanno fatto, mentre “contro i poveri c’è sempre giustizia”.

Racconti-inchiesta. “I pugnalatori”
Scrive Sciascia che la Colonna infame “prefigura il «genere» dell’odierno racconto-inchiesta di argomento giudiziario” e di sicuro, quando lo scrive, pensa  - credo – ai testi di questo tipo che ha già composto, a partire dal primo, Morte dell’Inquisitore, dedicato alla figura di fra’ Diego La Matina, un “siciliano di tenace concetto”, e a quelli che progetta.
Dentro questa produzione di brevi pamphlet il tema della “giustizia di classe” – come si sarebbe detto in altri tempi – è uno dei rovelli dello scrittore di Sicilia. Lo è per esempio ne I Pugnalatori, il cui protagonista è un magistrato. Il procuratore Guido Giacosa (con il giudice istruttore Mari, che lo affianca) nel 1862 deve affrontare un caso di terrorismo: l’accoltellamento e il ferimento grave, talora seguito da morte, di ben 13 persone in diversi luoghi della città di Palermo. Lo scrittore attraverso i documenti, segue  anche nei suoi rivoli l’indagine scrupolosa e intelligente che i due conducono nell’ostilità dell’ambiente.
Ne emerge un “complotto” guidato dall’alto, una congiura “borbonica” vera o, più probabilmente, finta, cioè tesa a ottenere di più dal nuovo potere sabaudo, lasciando intravedere minacce di restaurazione. Al vertice del complotto terroristico risulta essere un potente e ricchissimo aristocratico, il principe di Sant’Elia, massone di una loggia di destra, che Vittorio Emanuele II ha voluto senatore del suo nuovo regno.
Tra delazioni vere e fasulle, doppi giochi, minacce, paure, teorie degli “opposti estremismi”, l’inchiesta riesce a collegare il senatore e un paio di suoi amici con dodici sicari di modesta estrazione sociale, panettieri, vetrai o guardapiazza, tre dei quali avevano fatto da reclutatori e organizzatori. Il fondamento di tali conclusioni sono la testimonianza di un pentito, il lavoro di una spia e pochissimo altro: gli imputati poveri non parlano, ché hanno famiglie bisognose d’aiuto.
C’è un momento emblematico dell’inchiesta: quando tre degli accusati stanno per entrare nella Cappella dei potenziali condannati a morte e il principe fa ingresso nella Cappella Palatina a rappresentare il Re di Torino.
Giacosa, che pure ha costruito la condanna a morte per i tre, è nell’angoscia, non si rassegna, scrive relazioni ai superiori, spiega che è assurdo il libero scorazzare del principe mentre “con basi assai meno imponenti” si sono arrestati “quei dodici disgraziati”, tre dei quali “pagheranno fra poco alla giustizia umana con terribile fio”. Aggiunge: “Non abbiamo badato alla qualità delle persone, ai loro precedenti, alla loro dignità, al loro carattere; abbiamo dimenticato il principe e il monsignore, il facchino e il guardapiazza. Per ricordarci solo che tutti erano uguali di fronte alla legge”.  Sottolinea: “Gli indizi contro i principi Sant’Elia e Giardinelli erano maggiori e più imponenti che non quelli contro tutti gli altri”.
In un’altra relazione, al ministro Guardasigilli, così conclude: “Scindere questo processo non si può. Conservar ciò che si riferisce agli altri, eliminare quel che si riferisce al Sant’Elia, è impossibile… accusare, giudicare, condannare, gli uni, mentre l’altro, confuso nelle stesse prove, menzionato negli stessi documenti, se ne va libero, onorato e potente… screditerebbe la magistratura e le patrie istituzioni”.
La commissione senatoriale delle immunità, dal canto suo, non solo salva il Sant’Elia dall’arresto, ma di fatto blocca il processo a suo carico. In Parlamento più deputati parlano addirittura di “insipienza” delle indagini e di “mulino a vento”: il principe senatore ottiene qualche solidarietà addirittura dal ministro Guardasigilli, che Sciascia chiama “l’ineffabile Pisanelli”, il quale, pur avendo difeso i loro atti sul piano formale, già pensa a trasferire i magistrati.
La conclusione è il culmine dell’ingiustizia: la confessione del pentito D’Angelo è usata per condannare i sicari, ma ignorata per gl’illustri mandanti. Giacosa (padre del futuro drammaturgo verista) si dimette per tornare in Piemonte alla privata avvocatura mentre il giudice Mari accetta “il trasloco”.

Il regime e le perizie
Racconti-inchiesta giudiziari Sciascia ne scriverà diversi. Alcuni si possono definire pirandelliani. Così Il teatro della memoria (1981) sul caso Bruneri – Cannella degli anni Venti del Novecento), in cui il processo ha al centro l’identità controversa di uno smemorato. Così 1912+1 (1987) sull’assassinio, probabilmente passionale, di un attendente da parte di una celebre contessa ligure, in cui lo svolgimento di causa, con attenzione morbosa e copertura giornalistica notevoli, vede il conflitto di verità soggettive ugualmente credibili. In nessuno di questi racconti mancano impreviste riflessioni sul mestiere del giudice e sui condizionamenti cui è sottoposto.
Si legga per esempio il seguente passaggio del Teatro sul rapporto tra politica e sistema giudiziario nel caso dello smemorato di Collegno: “(Il regime fascista) lasciò che tutto andasse con le lungaggini, le cavillosità, i qui pro quo e gli inesauribili conflitti formali che erano propri, e sono, all’amministrazione della giustizia in questo nostro paese che si proclama culla del diritto ma certamente ne è la bara. Del resto, la vicenda serviva benissimo a distrarre l’attenzione degli italiani dal regime che andava consolidandosi duramente, assorbendo le ultime opposizioni o liquidandole. Da giornalista e da uomo che governava l’Italia come un redattore-capo, Mussolini deve averlo capito: ben altre direttive, che quelle di accelerare un processo che tanto appassionava gli italiani, gli importava dare ai giudici, non tutti di servile sensibilità verso il nuovo ordine o il nuovo disordine delle cose”.
Nell’ultimo testo, a cui il titolo dannunzianamente scaramantico conferisce intenzionalmente il carattere di una divagazione, c’è questa riflessione, che a me pare attualissima nel tempo in cui la criminologia scientifica sembra moltiplicare le possibilità nella ricerca di prove nei processi indiziari: “Non c’è nulla, in un processo penale, che rechi incertezza, semini dubbio, crei confusione quanto le perizie. «Ognun sa che la perizia è segnatamente invocata a giudicare in modo autorevole»: ma ognuno sa pure che all’invocazione, all’istanza, alla domanda e alle domande che in un processo si rivolgono ai periti, l’autorevolezza di un giudizio è sempre messa in forse dall’autorrevolezza del giudizio opposto. Quando in un processo si scontrano con pari autorevolezza e nomea, il perito chiamato dal giudice, quello chiamato dalla difesa e quello chiamato dalla parte civile, la confusione è poi al colmo: e i giudici o accettano quella perizia più vicina al loro convincimento, che oggettivamente vale quanto le altre due, per il fatto stesso che le diverse risposte destituiscono di assolutezza la scienza, o debbono fare tabula rasa di tutte per affidarsi alla loro conoscenza del cuore umano e della legge”.

Le coliche del senatore
Tra gli ultimi libri di Sciascia è La strega e il Capitano del 1986, racconto manzoniano fin nella scintilla che dà l’avvio, un episodio citato nei Promessi sposi a proposito del “protofisico” Settala. Il rinomato medico, che pure “partecipava dei pregiudizi de’ suoi contemporanei”, nel romanzo rischia il linciaggio, accusato d’essere “il capo di coloro che volevano per forza che ci fosse la peste”. Qualche anno prima – racconta Manzoni - “con un suo deplorevole consulto” aveva cooperato “a far torturare, tanagliare e bruciare, come strega, una povera infelice sventurata, perché il suo padrone pativa dolori strani allo stomaco e un altro padrone di prima era stato fortemente innamorato di lei”.
Sciascia parte da qui per ricostruire la vicenda di costei, una Caterina o Caterinetta Medici, che aveva servito in casa dell’anziano senatore Luigi Melzi, il quale dal canto suo ne frequentava il letto. Il figlio del senatore, Lodovico, giurista “collegiato” (sarebbe diventato il “vicario di provvisione” dei Promessi sposi e in quel ruolo avrebbe avuto i suoi giorni di cattiva digestione), aveva denunciato magarìe e filtri della Medici che al padre avevano procurato coliche altrimenti inspiegabili. A questa denuncia s’era sovrapposta quella di ammaliamento d’un cavaliere, tanto che, nel corso del processo, il senatore, con soddisfazione sua e dei suoi, fu declassato da parte lesa a testimone d’accusa. E’ per Sciascia una delle stranezze del processo, mosso soprattutto dal “desiderio di vendetta della famiglia Melzi e dei giudici”. La poveretta finisce col cooperare  alla propria rovina, mentre il Settala partecipa “con definitiva autorità” alla perizia medica.
Un breve e secco capitoletto racconta la sentenza. Non c’è dibattimento: “La Curia pone e bandisce un termine a che qualcuno si presenti ad assumere la difesa di Caterina. Nessuno si presenta…”. Sciascia spiega che non fu solo il conformismo a determinare siffatto risultato, ma anche la brevità del temine, “di ore, non di giorni”, passato il quale “la Curia (non ecclesiastica: s’intende la Corte di Giustizia, Corte Criminale) si ritirò in camera di consiglio per deliberare la sentenza che fu di morte per rogo”.
Dopo la convalida del Senato compare il giudice Giovan Battista Sacco, un “burocrate del Male” di particolare zelo. Nel firmare e sigillare il fascicolo processuale, aggiunge una cosa che ritiene importante, tale da aiutare in nuove inquisizioni e processi: “In uno degli interrogatori, Caterina Medici ha detto di aver sempre sentito dire che tutte le streghe hanno il popolo più basso e più profondo delle altre donne”. Negli atti è scritto inequivocabilmente “popolo”, nel senso di pupilla, “corruzione della parola latina e richiamo a quella – popeeù – del dialetto milanese”.
Agghiaccianti appaiono l’allegato che conclude il racconto e il commento che lo correda: “«1617. 4 marzo. Giustizia fatta su la Vetra, fu abbruggiata una Caterina Medici per strega, la quale aveva maleficato il Senatore Melzi; fu fatta una Baltresca sopra la Casotta; fu strangolata su detta Baltresca all’alto, che ognuno poteva vedere; ma prima fu menata sopra un carro e tanagliata. Era sotto l’ufficio del signor Capitano, fu sepolta a Santo Giovanni; questa fu la prima volta che si facesse Baltresca». La baltresca era una specie di castelletto, a che tutti non perdessero nulla dell’orrendo spettacolo. E così – assicurò il boia – giustizia fu fatta”.

Salvare l’anima
Non è un “burocrate del Male” il giudice a latere, protagonista di Porte aperte del 1987, un breve romanzo d’immaginazione questa volta, ambientato in una Palermo corrotta fino al midollo, nell’era del fascismo che ha appena ripristinato la pena di morte; piuttosto si potrebbe definire, come La Matina, “un siciliano di tenace concetto”. L’epigrafe – tratta dal libro di un giurista, Salvatore Satta – pone con chiarezza il tema della storia raccontata: “La realtà è che chi uccide non è il legislatore, ma il giudice, non è il provvedimento legislativo ma il provvedimento giurisdizionale”.
Di questo si tratta, della pena di morte, della responsabilità del giudice, ma anche dei rapporti con un potere politico arbitrario, corrotto e corruttore. Il racconto si apre con un lungo colloquio tra il protagonista e il procuratore generale, cui il senso sciasciano della sfumatura dà un colore particolare. Parlano apertamente: del regime, dei tribunali speciali, perfino di Matteotti. Si chiude con una sorta di pantomima, un doppio saluto: una stretta di mano accompagnata dal “lei” dentro l’ufficio, convenevoli col “voi” e saluto romano sulla soglia, davanti all’usciere. 
Ma sullo sfondo c’è un processo, un particolare processo. Un uomo che ha ucciso la moglie, il capoufficio che l’ha licenziato, l’uomo che l’ha sostituito. Non ci sono dubbi sulla sua colpevolezza e lui stesso sembra volere andar incontro al proprio destino. Il regime, tutti quelli che a Palermo contano, la stessa plebe cittadina esigono la condanna a morte. Ma il giudice, pur di far emergere le attenuanti che salvino l’imputato, non esita nella conduzione dell’interrogatorio a lasciar trasparire un verminaio che coinvolge il morto, da cui emerge un personaggio importante del potere fascista, e con lui tutto il potere della città, nuovo e vecchio. 
La giuria popolare, da lui orientata, opterà per l’ergastolo, ma il piccolo giudice si giocherà la carriera, confinato in una piccola pretura. In un nuovo colloquio con il procuratore generale, che chiude il romanzo, lo scrittore ricava la possibile morale –  come accade più volte nei finali di Sciascia; e questa morale contiene, stranamente, una proposta in positivo. L’anziano magistrato spiega al giovane la vanità della sua azione: la Cassazione casserà, il nuovo processo si concluderà con la condanna che il primo ha evitata, in magistratura faranno strada i più servili e lui avrà soltanto “salvato l’anima”. Il giudice risponde: “Io ho salvato la mia anima, i giurati hanno salvato la loro: il che può anche apparire molto comodo. Ma pensi se avvenisse, in concatenazione, che ogni giudice badasse a salvare la propria…”.  Un messaggio per l’Italia d’oggi, mi pare, non solo per i giudici…

Inedito
         

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