1.11.11

Dedicato a mio padre. Folli per Zeman.

Mio padre Calogero Lo Leggio
Questo post è un omaggio a mio padre, alla vigilia del giorno dei morti.
Mio padre non aveva mai amato particolarmente il calcio. Da giovane aveva giocato a palla a cesto (credo che così si chiamasse nei primi anni Trenta quello sport e così lui lo chiamava anche da vecchio), non andava mai da spettatore allo stadio e anche in Tv, al tempo in cui lo trasmettevano, preferiva il basket. Come tanti tifava per la nazionale, ma nel campionato non aveva una squadra del cuore. O forse sì: il Palermo quando era in serie A. O il Napoli, negli anni in cui era competitivo. Tifava per il Sud, insomma.
E tuttavia, a un’età già venerabile, si fece trascinare allo stadio di Licata da suo cognato, mio zio Umberto, che invece di calcio era patito ed era stato capitano del Canicattì in Promozione. Doveva essere l’83 o l’84, e il Licata lo allenava Zeman che poi lo portò in C1: mio padre a 70 anni sonanti fece l’abbonamento e si comprò la sciarpa di tifoso, gialla e blu.
Quando tornavo in Sicilia gli occhi gli brillavano se mi raccontava del gioco di Zeman, della sua particolare “zona”. Grazie a quell’allenatore mio padre sembrava diventato un esperto di tattiche e di moduli.
Su Zeman è uscito poco tempo fa un film curioso, di Giuseppe Sansonna: ne ha parlato lo stesso allenatore boemo da Fazio, qualche settimana fa. Sabato 29 ottobre 2011 Alberto Piccinini l’ha recensito per “alias”, il supplemento culturale de “il manifesto”. Propongo qui una parte di quell’articolo, dal titolo Zemaniaca ossessione. (S.L.L.)

L’utopia malinconica dell’allenatore boemo
raccontata da un coltissimo narratore di calcio.
di Alberto Piccinini
Giuseppe Sansonna «segue» Zeman dai lontani anni ’80. Il verbo ha una connotazione (anche, ma fino a un certo punto) religiosa.
«Foggia diventò ben presto la meta del mio solitario pellegrinaggio domenicale. Partivo da Bari, la mia città – ricorda in Due o tre cose che so di lui – mi immergevo nel catino incandescente dello Zaccaria». Non saprei se tradire Bari per Foggia sia un peccato così grave, in termini calcistici. Ma tant’è. Il risultato è che oggi Giuseppe è un coltissimo narratore di calcio, ma soprattutto è un formidabile performer live di aneddoti su Zeman, capace di imitare perfettamente tutte le parti in commedia, dalla gnagnera esilarante del Mister che sembra uscito da un film di Tati, al vulcanico e scorsesiano presidentissimo Casillo.
Ecco. Dietro questo lungo e straordinario lavoro su Zdenek Zeman (due documentari, un libretto ora raccolti in cofanetto - Il ritorno di Zeman - da mininum fax), dietro la telecamera che scruta il classico primo piano di profilo del Boemo che scruta i suoi ragazzi, l’obbiettivo che accarezza le geometrie del campo verde, inquadra con sapienza geometrica da 4-3-3 i fondali scassati di Foggia e del Sud (alla Cinico tv, diremmo), c’è un’ossessione vera, personale. Che parla e pulsa nelle lunghe pause, sotto ai famosissimi silenzi, tra le parole lapidarie dell’uomo venuto dall’Est. «Ti lascia solo con te stesso - spiega Giuseppe - a riflettere sulla vanità della domanda che gli hai posto».
Vanitas vanitatum. Zeman si presentò all’Italia degli anni ’80 con un trench, una sigaretta in bocca e un’altra ossessione: quella per il bel-calcio-d’attacco. Subito bollata dal vecchio Brera come un ubbia da «tetro ginnasiarca dello Spielberg». Brera si riferiva forse alla storia dei gradoni dello stadio vuoto, fatti salire e scendere ai calciatori come allenamento. Da non dimenticare: con una camera d’aria piena di sabbia, avvolta alle spalle.
Erano segni di una scienza povera ma positiva e fiduciosa, di un «saper fare» e di una fiducia nel «collettivo» forse eredità di un’educazione da piccolo pionere comunista in Cecoslovacchia. Zeman non li ha mai abbandonati, nemmeno oggi.
Non lo sapeva Brera, e non lo sapevamo noi che per il ragazzo Zeman – scappato nel ’69 dal suo paese - «lo sport era l’unica salvezza», la costruzione di una zona temporaneamente liberata dentro l’oppressione politica o economica che fosse. Ma questo in fondo era il calcio d’attacco negli anni ’80. Zeman, Sacchi, Galeone. Ognuno con la sua ossessione. Ognuno con la mistica del gioco collettivo, l’Utopia rubata al comunismo scientifico della Grande Ungheria e del colonnello Lobanowski, o alla folle autogestione hippy dell’Arancia Meccanica di Cruyff.
Grande filosofia della storia. Di fronte alla quale l’Italia rimase a bocca aperta.
Peggio. Rifiutò in fretta il messaggio quando si accorse che il machiavellismo e il compromesso non avevano luogo in quel gioco. Quando si capì, ad esempio, che il calcio di Zeman non copiava la vita, ma al contrario la creava, gli dava forma e scopo. Infrangendosi ogni volta – come aveva scritto Majakowskij quasi un secolo prima – «contro gli scogli del quotidiano».
Ed era inevitabile…
Zeman insegna tante altre piccole cose. Che nel calcio non si torna mai indietro. Che l’ottimismo anni ’80 del suo gioco a tenaglia, a incroci, a spazi da conquistare, era solo un effetto collaterale. Che il suo calcio «frizzante», come da vulgata giornalistica, è in verità resistenza, tattica, attesa, arte della battaglia…
Odia i videogiochi e Facebook, Zeman. Ma lo fa con paterna bonarietà, perché capisce che il suo grande progetto di ricostruzione calcistica dell’universo, così profondamente radicato nella migliore cultura europea del secolo scorso … si avvia al termine. Qualcuno raccoglierà il testimone, non c’è dubbio. Non sarà lui. «Zeman non è Pasolini, né Giordano Bruno – dice Sansonna, quasi in un momento di amoroso congedo dalla sua ossessione – spesso si esprime per tautologie. Sono l’ipocrisia o la vacuità del mondo calcistico a rendere deflagranti le sue parole. A travestirlo da profeta».

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