27.11.11

Revisionismo (per un pannelliano di Terni) (S.L.L.)

Nikita Krushev
Un paio di anni fa il pannelliano Francesco Pullia, con pezzi giornalistici che qualcuno pubblicò e qualcun altro respinse, intervenne a pro dell’avvocato ternano Marcellini, autore di un truculento romanzetto antipartigiano. Se la prese con “micropolis”, considerata addirittura la punta di diamante di un regime censorio e intimidatorio, accusandola di aver dato il via a una sorta di fucilazione del Marcellini. 
Chiunque segua le cose dell’Umbria e conosca anche superficialmente “micropolis” comprende che quelli di Pullia erano ideologismi senza rapporti con la realtà: che il mensile umbro fosse (e sia) schierato con i governi dei postcomunisti e degli amici di Paglia è cosa che non sta né in cielo né in terra.
Non credo, peraltro, che il Pullia propalasse il falso in malafede. La menzogna - per funzionare - ha bisogno di un minimo di credibilità e la malafede esige un po’ di ragionevolezza. Ciò che nell’occasione il ternano scriveva non era né credibile né ragionevole: l'uomo era – piuttosto - accecato dal fanatismo.
Tra l'altro contro la sinistra “inaffidabile” di cui “micropolis” sarebbe espressione Pullia scrisse: “Le accuse non sono difficili da immaginare: revisionismo (il comunismo sarà pure crollato, i comunisti saranno pure spariti, come almeno vorrebbero indurci a credere, sta di fatto che la loro bolsa terminologia resta, eccome)…”. E, a mo’ di chiusa, aggiunse: “Già, è vero, dimenticavamo, noi siamo sporchi revisionisti”.
Si potrebbe desumere che per l’esponente dei radicali revisionismo è un terribile epiteto, che i comunisti – nella loro “bolsa terminologia” - usano per dire del “nemico” tutto il male possibile.
Ma le cose non stanno così. 
Ed è per questo che proprio in blog diffusi una sorta di ricognizione sul termine revisionismo come appendice della polemica, quella che qui di seguito “posto”, lievemente ridotta, riveduta e corretta, perché può funzionare anche fuori dal contesto in cui nacque.
Pullia, se vorrà, potrà riconoscere che il “revisionismo” è concetto complesso, da maneggiare con cura, e che esso, neppure nella “bolsa terminologia” che egli attribuisce ai comunisti, ha avuto connotazioni sempre negative. Su tutto fanno premio gli aggettivi, le specificazioni, le sfumature, i contesti. 
Ma per muoversi dentro le storie, i concetti e le storie dei concetti bisogna studiare. E’ quello che suggeriamo al radicale ternano. “L’istruzione è obbligatoria, l’ignoranza è facoltativa” – credo che lo dicesse Celeste Negarville. O quello era uno “sporco” comunista? (S.L.L.)
Edward Bernstein
L’epiteto “revisionista”, intanto, non nasce in un contesto comunista, ma socialdemocratico. 
All’inizio del Novecento lo usò – con una accezione positiva - il socialista tedesco Eduard Bernstein, che lo utilizzò per proporre al movimento operaio l’abbandono dei principi marxisti che erano stati trasformati in dogmi. Per ottenere sempre nuove conquiste sociali e civili – egli diceva – bisogna essere revisionisti. 
Gli rivoltò il termine contro il suo compagno di partito Karl Kautsky, leader della tendenza ortodossa, il quale vi leggeva l’abbandono dei fondamenti classisti del partito. 
Nella polemica politica interna al socialismo tedesco si fece di conseguenza un uso ampio della parola fino alla prima guerra mondiale, quando, per uno dei paradossi della storia, nella socialdemocrazia tedesca il socialista “di destra” Bernstein fece una scelta pacifista come la socialista di sinistra Rosa Luxemburg, mentre i centristi di  Kautsky in sostanza accettarono di votare i crediti e di sostenere la guerra dal Kaiser.
Lenin, che da esule russo partecipava al dibattito teorico nella Seconda Internazionale, era stato compartecipe della battaglia contro il revisionismo di Bernstein, ma, con lo scoppio della guerra, il suo principale bersaglio nella polemica interna al socialismo diventò Kautsky, contro il quale mise in campo una forte aggressività verbale: tuttavia lo chiamava “rinnegato” e “socialtraditore”, non revisionista.
Nella Terza internazionale la categoria del “revisionismo” fu pochissimo usata. Stalin, che presto ne divenne la guida, pretendeva che il suo fosse un “marxismo creativo”. Nel catechismo terzinternazionalista esisteva la deviazione “revisionismo”, opposta a quella speculare del “dogmatismo”, l’una e l’altra ostili al marxismo creativo tipico di Stalin, ma non fu “revisionista” il termine preferito per stigmatizzare i nemici interni ed esterni. Per esempio contro la socialdemocrazia gli stalinisti arrivarono a parlare di “socialfascismo”; contro Bucharin e, ancor più, contro Trotzkij, capofila dell’opposizione bolscevica nel Pcus da destra e da sinistra, si adoperarono i termini infamanti di “traditore”, “rinnegato”, “spia”, “piccolo-borghese”, “nemico di classe” e, nel caso di Trotzkij, perfino “Giuda” e “giudeo”, mai quello di “revisionista”. Il termine fu semmai rispolverato da Suslov, nel secondo dopoguerra, contro la “cricca di Tito”.
Il ritorno di fiamma della categoria teorico-politica di “revisionismo” si ebbe con lo scoppio della polemica cino-sovietica nei primi anni 60 e il primo ad esserne segnato, seppure con cautela, fu Palmiro Togliatti in un opuscoletto del Pcc (che si ritiene ispirato più da Liu Shao-chi che da Mao): Sulle divergenze tra il compagno Togliatti e noi. Le cautele scomparvero quando lo scontro con l’Urss si fece rovente e il “Quotidiano del Popolo” pubblicò una vera requisitoria contro il leader sovietico del tempo dal titolo Il falso comunismo di Khrushev e gli insegnamenti storici che dà al mondo
Da allora in poi i “revisionisti” per eccellenza – di quando in quando chiamati anche “sporchi” - divennero i capi del Cremlino e “revisionista” diventò l’accusa più infamante che comunisti cinesi e filocinesi rivolgessero ad altri (“sedicenti”) comunisti, giudicati falsi, sia in Cina che altrove. 
Il successo della parola nel mondo è legato al grande movimento di contestazione, specie giovanile, che scosse l’Occidente tra gli anni Sessanta e Settanta e che in Italia fu chiamato “Sessantotto”: nelle sue file c'erano molti simpatizzanti del maoismo e della Rivoluzione culturale.
Va detto che nel Pci, invece, il termine “revisionismo” non veniva affatto letto come offensivo: la reazione più frequente era che “se revisionismo significa un grande sforzo di rinnovamento del marxismo, siamo revisionisti”. Alla morte di Mao, Romano Ledda, un ottimo giornalista di fede ingraiana che faceva il vicedirettore di “Rinascita”, osò scrivere sul settimanale ideologico del Pci, senza che nessuno menasse scandalo, che Mao (come già Gramsci e Togliatti) era stato un “grande revisionista”.
Più recente è l’uso della categoria nel dibattito storiografico, affermatasi soprattutto in difesa della verità storica dell’“Olocausto” e delle sue dimensioni, negata da alcuni scrittori di storie, in vario modo legati alla destra estrema (Faurisson e altri) o all’integralismo islamista. Sono stati costoro, nell’uso corrente, i primi “revisionisti” della storia del Novecento, non so dire se sporchi o ripuliti.
Che la storia debba essere sottoposta a sistematiche revisioni è, in realtà, concetto che tanti accettano da gran tempo, non solo per l’ovvia considerazione che una nuova documentazione o un nuovo approccio può rivelare inesatta l’interpretazione consolidata, ma anche per la saggia costatazione di Benedetto Croce che “la storia è sempre storia contemporanea” e che cioè lo storico interroga il passato facendogli domande che vengono dal presente. 
In tempi recenti il “revisionismo storico”, lo sforzo di interpretare un evento del passato in maniera diversa da quella corrente si è esteso dall’Olocausto ad altri fatti e ha connotato talune riletture della storia contemporanea, che vedono nel fascismo e nel nazismo un "tentativo estremo, uguale e contrario, di reazione all'incedere del comunismo". Sulla scia della revisione di Nolte, quasi sempre senza il suo spessore, si sono poi avviate molte altre “revisioni” da destra della storia, spesso su basi clericali e sanfediste e/o con visioni complottistiche. In questa luce la Rivoluzione Francese, il Risorgimento italiano, la Resistenza ecc. diventano il prodotto di una congiura tra massoni ed ebrei, con l’aggiunta novecentesca dei comunisti.  
Io credo che, qui da noi, bisogna liberare il termine “revisionismo” dalla negatività proiettata dal furore “rovescista” più che revisionista della destra italiana, la quale tende a ribaltare sia il giudizio negativo sulla reazione clericale e assolutistica dell’Ottocento e sul fascismo del Novecento che il giudizio positivo sul Risorgimento e sulla Resistenza. “Revisionisti” si può e si deve essere. Tali, e per nulla cialtroni, erano gli storici della rivista francese "Annales", tanto per fare un esempio: deve essere possibile anche in Italia una seria storiografia revisionistica. Ma c’è revisionismo e revisionismo; e sotto questo nome si possono introdurre  innovazioni importanti o le teorie più folli e strampalate.
Con la storia e la storiografia, poi, ha poco a che spartire il “negazionismo” di cui sopra. Sostenere, come fanno alcuni, che le camere a gas e i forni crematori non sono mai esistiti non è un'interpretazione, ma un falso montato ad arte da una pattuglia di storiografi filonazisti. Il falso purtroppo trova facilmente qualcuno disposto a propagandarlo, e non manca quasi mai chi è disposto a crederci. Ma questo è un altro discorso...

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