26.12.11

Leda Colombini da bracciante povera a dirigente del Pci (di Francesco Piva)

In questo dicembre è morta Leda Colombini, dirigente della Cgil e del Pci, parlamentare. Lo storico Francesco Piva, che le dedicò nel 2009 un libro-intervista, Storia di Leda. Da bracciante a dirigente di partito (Franco Angeli), ne ha rievocato la figura nel sito InGenere il14/12/2011. Riprendo qui un’ampia parte del suo articolo. (S.L.L.)
Leda Colombini
Il 6 dicembre è scomparsa a 82 anni Leda Colombini, una donna che ha vissuto i grandi cambiamenti attraversati dal nostro paese coniugando un appassionato percorso sindacale, politico, amministrativo e sociale, protratto sino all’ultimo: Leda è morta all’uscita dal carcere romano di Regina Coeli dove, con i rappresentanti di diverse associazioni, aveva appena concluso una riunione dedicata ai problemi delle donne carcerate e dei loro bambini/ne; un impegno che da tempo vedeva Leda protagonista riconosciuta a livello nazionale e che l’aveva portata a promuovere l’associazione di volontariato A Roma, insieme, operante nell’area metropolitana della capitale a favore delle fasce più deboli della popolazione.
Ho avuto la fortuna di conoscere Leda circa quindici anni fa, dapprima occasionalmente, poi con più assiduità e rinnovata curiosità verso i frammenti di storia personale che incastonavano le sue conversazioni. Era piacevole e affascinate incontrare Leda: il dialogo” serio” era sempre intercalato da intuizioni ironiche e allegre, digressioni personali, gesti affettuosi. Di seguito, è maturata in me la convinzione (insegno Storia contemporanea) che la sua vicenda esistenziale racchiudesse la possibilità di approfondire un tema che allora mi attirava: la funzione formativa esercitata dal Partito comunista italiano nei confronti di ceti popolari, a bassa istruzione e del tutto privi di risorse familiari. Grazie ad una serie di incontri sempre più confidenti ed affettuosi, ho avuto così il privilegio di raccogliere, per molte ore, il racconto della sua vita, nello specifico la sua formazione politica e la sua prima esperienza di dirigente sindacale e di partito fra le donne braccianti e contadine.
All’inizio, Leda era un po’ restia alla confidenza, come lo erano altre dirigenti politiche e sindacali della sua generazione intervistate da studiose; come se parlare di cose personali potesse sminuire la vicenda corale, collettiva che l’aveva portata ad assumere un ruolo politico. Su mia proposta, Leda ha iniziato parlandomi dell'infanzia a Fabbrico (Reggio Emilia), paese di lunga tradizione socialista, prampoliniana, poi sfociata nel Pci… Un’infanzia poverissima: il nonno bracciante, un padre che non c'è, mamma Iride, anche lei bracciante, su cui grava il mantenimento di quattro figlie. Finita la V elementare Leda deve quindi lasciare la scuola, un'altra ingiustizia che scotta, perché lei è brava, appassionata, vorrebbe studiare ancora.
A 11-12 anni Leda comincia a lavorare da bracciante e, così piccola, si fa subito valere pretendendo dal padrone il rispetto dell’orario. Continua comunque a coltivare la sua passione, legge molto, tutto quello che trova nella bibliotechina del paese, romanzi rosa, che poi racconta a puntate alle compagne durante il lavoro sui campi. Arriva la guerra e la Resistenza; un'amica partigiana la introduce nei “Gruppi di difesa delle donna” che si radunano nelle stalle per organizzare gli aiuti ai partigiani. Dopo la guerra, si iscrive giovanissima al Pci e milita nell’Udi per costruire - diremmo oggi - il “welfare dal basso. Ma nel 1948 capita un evento che segnerà una svolta nella vita di Leda, un'esperienza decisiva: viene inviata a Milano per sei mesi alla scuola nazionale quadri del Pci.
“E’ la mia esperienza della prigione!”, ha esclamato Leda in prima battuta, ricordando la disciplina severa, il moralismo ottuso, le umiliati autocritiche imposte da metodi educativi di derivazione sovietica. Ma poi Leda mi ha raccontato come quell’esperienza fosse stata per lei esaltante: lì - assieme ad altre braccianti e contadine – aveva imparato a parlare in italiano, aveva studiato storia, ricevuto nozioni di politica economica, igiene femminile, marxismo-leninismo e storia dell’Urss.
La pedagogia del partito prevedeva alternanza di studio in aula e addestramento pratico, in sezioni e fabbriche dell’area milanese. Quei sei mesi a Milano rimangono una pietra miliare e, al momento del nostro colloquio, Leda è ancora riconoscente al Pci, conscia di aver sperimentato in prima persona la straordinaria operazione pedagogica svolta nel dopoguerra dal partito nei confronti di grandi masse popolari. Grazie ad una fitta rete di scuole (nazionali, regionali, federali, di sezione e perfino per corrispondenza) persone di bassa estrazione sociale ricevettero l'opportunità di acculturarsi e diventare dirigenti.
Leda è un esempio brillante: dopo la scuola di Milano, partecipa nel 1951 ad un corso nella scuola delle Frattocchie; l'addestramento sul campo la porta a tenere lei un corso a Minervino Murge (Puglia) con l’obiettivo di insegnare la “democrazia progressiva” ad un bracciantato molto combattivo, attraversato da spinte rivoltose, osservato quindi con diffidenza dalla direzione nazionale del partito…
Nel '49, Leda vive un’altra vicenda straordinaria: l’incontro con le mondine delle risaie del basso Piemonte e della bassa Lombardia. È in preparazione il famoso sciopero bracciantile del maggio-giugno 1949 e Luciano Romagnoli – divenuto segretario nazionale della Federbraccianti nel ’48, a 24 anni – ha bisogno di un “quadro femminile” che vada in risaia a preparare l’agitazione. Viene segnalata Leda Colombini, appena “sfornata” dal corso di Milano. Lo sciopero non va molto bene ma, al congresso nazionale della Federbraccianti del novembre 1949, Leda viene eletta nel consiglio nazionale e di lì a poco Romagnoli la chiama in segreteria nazionale.
A vent'anni, diventa così responsabile della commissione nazionale femminile di un sindacato che ha oltre 1 milione di iscritti, di cui 400mila donne; un sindacato impegnato nelle lotte più aspre del dopoguerra, segnate da roventi contrattazioni e scontri violenti.
Tra il 1950 e 1953, Leda guida l’organizzazione di quattro “campagne monda”, nelle risaie di Novara, Vercelli, Pavia e Milano. Parliamo di 150mila donne a stagione. L’impegno di Leda è inesauribile: si tratta di difendere il collocamento di classe e di contrattare l'ingaggio delle lavoratrici in un clima di aspra rivalità fra il sindacato rosso e quello bianco, con l'interferenza di parroci, associazioni cattoliche e appaltatori privati, a tutto vantaggio del padronato. Bisogna organizzare il viaggio delle mondine emigranti soprattutto dall’Emilia, garantire l'assistenza: i treni messi a disposizione dal governo sono carri bestiame senza sedili, senza servizi igienici. Bisogna strappare condizioni di alloggio minimamente decenti, e poi gestire tensioni esistenti tra le stesse mondine, tra le locali e le forestiere. Durante i “40 giorni” della monda, Leda gira da una risaia all’altra per controllare l’applicazione del contratto, tenere a bada le crumire, organizzare il tempo libero delle emigrate, fare anche educazione politica, propinando i "corsi" del partito (per le donne c'era il corso “Clara Zetkin”, non proprio uno spasso dopo una giornata di lavoro). Tutte iniziative che Leda mi ha rievocato con gioia perché lì, con le “sue mondine”, stava a suo agio.
Negli stessi anni, è lei che accende nella Federbraccianti l'attenzione nei confronti delle raccoglitrici del Sud impiegate nella raccolta di olive, pomodori, castagne, noci; lavori agricoli tra i più miseri, precari e indifesi. Durante la raccolta, le donne vivono in condizioni che persino alcuni parroci definiscono disumane, con salari giornalieri incredibili (potevano ridursi a una bottiglia d’olio!). E’ difficile organizzarle, non rientrano nelle classiche categorie sindacali. Con la tenacia che tutti abbiamo conosciuto, Leda si getta in questo nuovo impegno, e nel dialogo con queste donne del Sud, si convince ancora di più di un problema allora difficilmente accettabile nel sindacato a egemonia maschile: la tutela del lavoro femminile può ottenere risultati solo quando l'impegno si estende a tutti problemi della vita quotidiana, coinvolge cioè la comunità. Una intuizione precoce, che sarà ripresa solo negli anni Settanta dal “femminismo sindacale”.
Leda mi ha anche descritto le tante iniziative per creare le sezioni femminili della Federbraccianti e soprattutto la battaglia interna ai gruppi dirigenti per far contare le donne nei processi decisionali e nella stesura delle piattaforme contrattuali. A questo proposito, Leda ha ricordato con rammarico le incomprensioni patite anche con i dirigenti più aperti, come Romagnoli; ha ricordato il linguaggio maschile, che impregnava le riunioni e che le impediva – ha chiosato - di “vincere” nelle discussioni, anche se sentiva di aver ragione.
Nel 1953, Leda passa dal sindacato alla sezione agraria del Pci. Altra tappa del suo tirocinio da dirigente. Incontra Ruggero Grieco, un dirigente del Pci dal dialogo aperto con le compagne. Leda scopre che Grieco non solo vuole dare più spazio alle donne nel partito e nella società, ma è più avanti rispetto alla cultura comunista del tempo. Grieco – dice Leda – insegnava che la rivoluzione doveva cominciare in casa, doveva in prima istanza rovesciare il maschilismo in famiglia, spezzare pregiudizi secolari e disparità antropologiche. Lui criticava i compagni che a parole erano “rivoluzionari” ma impedivano alle mogli di uscire di casa per fare politica. Intervenendo alla II conferenza delle donne comuniste (Roma, 20-23 ottobre 1955), Leda ricordò infatti Grieco - morto improvvisamente il 23 luglio 1955 al termine di un comizio – come uno dei compagni che più avevano assimilato il valore dell’emancipazione della donna, grazie anche alla particolare sensibilità verso le sofferenze, le ingiustizie e i maltrattamenti cui erano sottoposte le contadine: “Per lui – disse Leda – il problema non esisteva come ‘dovere’ di ricordarsi anche delle donne, ma come esigenza storica necessaria al rinnovamento della società italiana e alla redenzione del lavoro”. Con parole commosse, Leda ricordò poi i tratti umani dell’esponente comunista; un elogio che, nel suo afflato, rivelava indirettamente gli squilibri nei rapporti di genere all’interno del partito: “Grieco – disse Leda – aveva una immensa fiducia nelle donne, nelle loro capacità, nella loro forza e intelligenza. Con Grieco era difficile conservare quella timidezza che è data dal senso di inferiorità che ancora talvolta sentiamo quando parliamo con i compagni dirigenti, mai ha fatto pesare il suo sapere su chi lavorava con lui. Ci aiutava a liberarci di ogni complesso di inferiorità e di soggezione. A Grieco si diceva tutto. A Grieco si voleva bene. L’amore per gli uomini lo portava a preoccuparsi non solo del lavoro, ma anche della vita, delle preoccupazioni dei compagni e delle compagne e si sforzava di esserci vicino, di aiutarci e soffriva e godeva delle nostre sofferenze e delle nostre gioie”.
Nell’itinerario di Leda, la morte di Grieco - da lei definito ‘maestro’ e ‘padre’ - rappresentò un lutto molto doloroso, ma per molti versi emancipatorio. Nell’economia del suo racconto, la scomparsa di Grieco emerge infatti come una cesura che segna la fine del suo percorso formativo incominciato a Fabbrico e l’inizio di un nuovo cammino da dirigente, che l’avrebbe condotta a ricoprire prestigiosi incarichi politici.
Dopo la morte di Grieco, Leda sarà ancora protagonista delle battaglie sui braccianti, per entrare poi nelle istituzioni regionali e in parlamento, occupandosi in via prioritaria di questioni sociali, assistenza, sanità, volontariato. Battaglie che continuerà dall'associazione di volontariato “A Roma, insieme”, in particolare a favore delle detenute e dei bambini/e che dalla nascita all’età di tre anni vivono in carcere con le loro madri.
Con la solita frase retorica, ma in questo caso veritiera, si può dunque dire che – al pari del suo “padre e maestro” R. Grieco e di altre personalità del Pci – Leda è morta “sulla breccia”, dopo uno straordinario cammino di dedizione alla politica, nel suo significato più alto, e all’impegno sociale. Quando ho appreso la sua improvvisa scomparsa, ho ripercorso in un baleno il suo racconto e mi sono tornate alla mente le domande che più volte ci facevamo: ma questa storia - quella di Leda e di tanti altri - ha oggi degli eredi? Eredi non nel senso stretto, “partitico”, che il più delle volte porta alla “spartizione delle spoglie”. Eredi intesi in senso più ampio, eredi cioè che – facendosi criticamente carico degli errori racchiusi dalla storia del Pci – sentano tuttavia orgogliosamente di poter con piena legittimità rivendicare, nella costruzione pubblica delle memorie collettive, uno spazio appropriato al ruolo avuto dal Pci nell'educare le classi subalterne, per farle contare in prima persona nella costruzione e nello sviluppo della democrazia e dell’Italia repubblicana… Detto questo, rimane il problema di sanare la cesura muta, il balbettio imbarazzato se non la rimozione che occultano o deformano le storie come quella di Leda e del partito che la formò e ne fece una dirigente, lei, ragazza povera e incapace di parlare in italiano.

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