Mandarini in una udienza imperiale (secolo XIX) |
C’è un libro che ho letto molti anni or sono e dovrebbe trovarsi in Sicilia, tra i libri che conservo lì da quando – malato mio padre – ebbe inizio il mio ormai lungo andirivieni. Ne conservo tuttavia vivida l’impressione e posso parlarne a memoria. Si intitola L’Inferno degli esami e ne è autore uno storico giapponese, che pare abbia fatto propria la lezione dei francesi delle Annales, Ikisada Miyazaki. E’ stato tradotto nel 1990 per Bollati-Boringhieri. L’ambientazione è la Cina Imperiale, ove è durato all’incirca 1400 anni, dal 500 d.C. ai primi decenni del secolo scorso, un sistema di selezione dei quadri dirigenti attraverso il sistema degli esami. Pare che il perfezionamento della pratica si abbia intorno al 1600 e si ragiona – nel libro e altrove – dei rapporti con la Ratio studiorum dei gesuiti: deve essersi trattato di una influenza reciproca, un rapporto “dialettico”.
Ciò che sorprende – leggendo il volumetto – è in primis la totale incongruità degli studi prescritti rispetto ai compiti dei “Mandarini” che superavano gli esami. Da una parte Confucio e Mencio, la complicatissima lingua ideografica, di cui si richiedeva una conoscenza minuta; dall’altra i ruoli amministrativi nel Celeste Impero. La teoria è che ad educare il funzionario non fosse ciò che s’era appreso, ma il fatto di aver appreso, la fatica durata nell’apprendere.
Gli esami, di tre livelli (distrettuali provinciali e nazionali), se non ricordo male in molte località si svolgevano in una sorta di quartiere chiuso, onde impedire ogni tipi di aiuto esterno. La correzione era rigorosamente anonima. La prassi, oltre a garantire una certa mobilità sociale contro le incrostazioni di tipo feudale, aveva altre conseguenze sociali: per esempio esisteva la categoria dello studente a vita.
Preparare l’esame era spesso fonte di malesseri e di incubi: non di rado lo studente aveva visioni di fantasmi. Ma il superamento degli esami, annunciato da un cartello dorato coi nomi dei vincitori, era considerato una grandissima felicità. Una poesiola-proverbio cinese che ho ritrovato in un vecchio numero de “la talpa” de “il manifesto” (Infanzia di un capo – 29 marzo 1990) così enumera le gioie fondamentali della vita: “Una dolce pioggia dopo una lunga siccità / L’incontro di un vecchio amico in uno strano posto./ La notte del matrimonio nella camera nuziale. / La vista del proprio nome sul cartello dorato”.
Resta una domanda a cui io non so rispondere, ma a cui forse c’è risposta facile per i mediamente informati. Esiste una sorta di continuità tra l’antico sistema degli esami e la selezione dei quadri nel partito-stato Pcc? I dirigenti della Cina attuale vengono da una formazione di tipo mandarinale? Mao Tsetung negli anni Cinquanta del Novecento vide questo rischio e lo denunciò. Negli anni Sessanta scatenò la Rivoluzione Culturale come fermento e movimento in cui dovevano formarsi i “continuatori della causa rivoluzionaria” così come la Lunga Marcia aveva forgiato la prima classe dirigente comunista. Ma Mao – dopo iniziali successi – dovette ripiegare e morì sconfitto.
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