1.12.11

Ludovico Geymonat. Un contemporaneo del futuro (di Eros Barone)

Il 29 novembre scorso  ricorreva il ventesimo anniversario della morte di Ludovico Geymonat. Qualche giorno prima il compagno ed amico Eros Barone mi aveva inviato questo profondo e problematico profilo che solo oggi, primo dicembre, leggo. A suo dire lo scopo era duplice: mostrare in che senso Geymonat occupasse un posto non secondario nella cultura filosofica italiana del ’900 e delineare la figura di un intellettuale non conformista e di un pensatore influenzato dal marxismo. Credo che sia riuscito in entrambi gli intenti. Con il suo permesso colloco il testo nel blog per mia memoria e per l’uso eventuale di studiosi e studenti. (S.L.L.)
La scheda biografico-segnaletica di Ludovico Geymonat, antifascista

Geymonat nasce a Torino nel 1908; presso l’università subalpina segue, oltre alle lezioni del grande logico e matematico Peano, i corsi di due filosofi positivisti, Juvalta e Pastore; nello stesso ateneo si laurea dapprima in filosofia (1930) e poi in matematica (1932), ponendo le premesse di quella fusione teoretica tra le due discipline che farà di lui un filosofo matematicamente dotato ed un matematico filosoficamente dotato. Per il giovane studioso rigore e coraggio rappresentano i caratteri distintivi di una scelta di vita che lo porterà, all’inizio degli anni ’30, ad assumere, in filosofia, una posizione critica verso il neoidealismo italiano e, in politica, all’abbandono dell’università, causato dal rifiuto d’iscriversi al partito fascista.
Emerge fin da queste prime prove filosofiche e politiche un connotato della sua personalità d’intellettuale non conformista: lo stretto legame fra la teoria e la prassi. Un legame che nell’Italia di allora, per un giovane che proveniva da quella piccola borghesia intellettuale per cui l’opposizione al fascismo era una scelta morale prima ancora che politica, era destinato a configurarsi come una testimonianza individuale ed una protesta nobile ma impotente, giacché solo con la Resistenza potrà esprimersi in un’azione organicamente politica e sociale. D’altronde, il giovane studioso torinese era stato influenzato in tal senso, oltre che dal radicalismo di Gobetti, da un insigne maestro di vita intellettuale e morale, il filosofo Piero Martinetti, uno dei dodici professori universitari, su un corpo accademico che allora ne contava in tutt’Italia 1250, che, per non sottostare al giuramento di fedeltà imposto dal fascismo nel 1931, lasciarono la cattedra. Martinetti imprimerà un segno profondo e duraturo nell’orientamento teoretico di Geymonat. Tale segno è ben documentato sia dalla quarta sezione degli Studi per un nuovo razionalismo, dedicata ai problemi etici, scritta nella seconda metà degli anni ’30 e ripubblicata nel 1989 con il titolo I sentimenti in una versione arricchita dall’autore con una serie di note relative ad esperienze e riflessioni maturate nel corso della Resistenza e delle vicende socio-politiche del secondo dopoguerra; sia dal saggio sulla Libertà (1988), pubblicato (con un’attenzione ai riferimenti simbolici che è caratteristica della produzione intellettuale di Geymonat) esattamente sessant’anni dopo un saggio sullo stesso argomento e con lo stesso titolo, che era stato una delle opere principali di Martinetti.
Richiamare la tesi che è al centro dello studio filosofico sulla libertà, condotto da Geymonat, è particolarmente utile per individuare il nucleo generatore da cui traggono origine i differenti percorsi seguiti dai suoi allievi, raccòltisi fra gli anni 60 e 70 nella cosiddetta ‘scuola di Milano’. Il saggio di Geymonat poggia sulla tesi secondo cui la libertà consiste in una lotta infinita per la libertà e sembra quindi derivare la sua ispirazione più da Fichte e da Stuart Mill, esponenti filosofici, rispettivamente, dell’idealismo etico a base illuministica e del liberalismo ‘whig’ a base empiristica, che non da Marx. Ora, se da un lato questa impostazione può spiegare le oscillazioni, caratteristiche degli allievi di Geymonat, fra idealismo e materialismo in filosofia e fra liberalismo e comunismo in politica (con una duplice tendenza, che dipende dai temperamenti individuali, o a sopprimere il secondo termine a favore del primo o, più elegantemente, a fare del secondo un caso specifico del primo), da un altro lato la ripresa di tali motivi si può spiegare sia come effetto politico di una congiuntura ideologico-culturale che dura ancor oggi, sia come esito filosofico di una peculiare curvatura della dialettica, operata da Geymonat con il passaggio dallo schema triadico articolato nei tre momenti tesi-antitesi-sintesi, allo schema diadico articolato nei due momenti tesi-antitesi, proprio, fra l’altro, della concezione dialettica di Mao Tse-tung, il quale, secondo quanto osservato dallo stesso Geymonat nell’ampia intervista su scienza e politica pubblicata col titolo Paradossi e rivoluzioni, vede “il processo dialettico” come “un processo senza fine” (op. cit., Milano 1979, p.115).
L’emergere di una tendenza, per così dire, ‘infinitistica’ è inoltre testimoniato dal costante interesse nutrito dal pensatore torinese per tale problema teorico, da lui analizzato nell’opera del 1947 su Storia e filosofia dell’analisi infinitesimale, ed è latente nella stessa concezione di un ‘nuovo storicismo’, fondato su una nozione globale della storicità e della crescita delle conoscenze scientifiche. A questo proposito, tornando a delineare il suo itinerario intellettuale, occorre ricordare che Geymonat fin dai primi lavori degli anni ’30 individua il nucleo centrale del suo pensiero, in opposizione ai neoidealisti Croce e Gentile che negano il valore conoscitivo delle scienze matematiche e fisiche, nell’indagine sulla struttura specifica di tali scienze e sui nessi con la dimensione filosofica. Gli scritti di questo periodo, come Il problema della conoscenza nel positivismo del 1931 (che era la tesi di laurea nella quale, esaminando la filosofia di Comte, fondatore di tale corrente, aveva già posto il problema della revisione del positivismo), mostrano la direzione in cui si muove Geymonat. Determinanti, in quegli anni che sono per la cultura italiana dominati dalla ‘dittatura’ del neoidealismo e da un isolamento rispetto alle principali correnti di pensiero europee e nord-americane, risultano i contatti che egli stabilisce con i maggiori esponenti del ‘Circolo di Vienna’, tra i quali vanno ricordati, in particolare, Schlick (la cui uccisione da parte di uno studente nazista segnerà nel 1936 la fine del circolo), Neurath, Carnap e Gödel. Le esperienze intellettuali mutuate dal neopositivismo e l’assunzione dei contributi di filosofia e storia della scienza forniti da studiosi come Peano, Enriques, Calderoni e Vailati, con cui il giovane studioso  reagisce alla duplice svalutazione, idealistica ed empiristica, della ricerca epistemologica e traccia, nell’àmbito della cultura italiana, una linea alternativa al filone Vico-Hegel-Croce, concorrono a definirne lo specifico orientamento in senso neorazionalista e neoilluminista. Tale orientamento, che Geymonat con grande modestia qualificava semplicemente come una ‘traduzione’ di quelle esperienze nell’àmbito della cultura italiana, troverà espressione nei Saggi di filosofia neorazionalistica del 1953, nella monografia del 1957 Galileo Galilei, un autentico gioiello della letteratura storico-filosofica, in Filosofia e filosofia della scienza del 1960 e in Scienza e realismo del 1977. In questi decenni la tesi che Geymonat argomenta mira a dimostrare che la cosiddetta ‘crisi dei fondamenti’, che ha investito la scienza  contemporanea a cavallo fra ’800 e ’900, costituisce, con il riesame critico, da essa necessitato, dei concetti di numero, funzione, limite, integrale, tutto e parte, la premessa della liberazione della logica, della matematica e della fisica dalle ipoteche di una concezione metastorica di tali scienze e ne mette in luce il carattere ipotetico e processuale.
L’illustrazione ampia e puntuale di questa tesi, sostenuta da uno stile espositivo il cui nitore e la cui profondità fanno pensare all’acqua dei laghi svizzeri, è il tratto saliente della Storia del pensiero filosofico e scientifico in sette volumi, la cui realizzazione, curata da Geymonat e da uno stuolo di collaboratori, si distende nell’arco della prima metà degli anni ’70. L’opera è da considerare senza alcun dubbio un monumento della più avanzata cultura italiana del Novecento, prodotto di uno spirito innovativo che si manifesta sia nella visione integrata dello sviluppo della filosofia e delle scienze matematiche, naturali ed umane, sia nella costante attenzione ai problemi della trasmissione del sapere, attestata dalle sezioni relative alla storia delle teorie pedagogiche e delle istituzioni scolastiche, sia nello spazio dedicato ad argomenti non usuali per la tradizione filosofica italiana, come la storia della logica e i problemi della logica contemporanea: una cultura quindi (e ciò merita di essere sottolineato nella fase attuale, segnata dall’incalzare di tendenze regressive) aperta alle istanze più radicali del movimento progressista, non meno che alle molteplici espressioni intellettuali della cultura mondiale. Geymonat, del resto, ha sempre posto in risalto il legame inscindibile tra progresso scientifico-tecnico, progresso culturale e progresso etico-civile: è proprio questa la lezione che il pensatore torinese ci trasmette attraverso l’opera da lui dispiegata nel campo della filosofia della scienza e nel campo della storia della filosofia. In quest’ultimo campo egli ha saputo operare da vero maestro, capace, grazie al suo manuale, di proporre ad una scuola gravata dalla duplice ipoteca di un positivismo miope e di un idealismo stantìo, uno studio nuovo e criticamente avvertito della storia del pensiero filosofico e scientifico.
Un altro aspetto, che è parte integrante della lezione di Geymonat, è la testimonianza d’impegno politico e sociale, nonché di coraggio civile, fornita con la partecipazione alla Resistenza e alle lotte del movimento operaio. Riguardo alla Resistenza, non bisogna dimenticare che egli considerò sempre come decisivo l’incontro con l’operaio comunista Luigi Capriolo, ucciso dai nazifascisti nel 1944; riguardo alle lotte del movimento operaio, vanno ricordati, in particolare, la direzione dell’«Unità» di Torino nel 1945, la presenza critica nel Partito comunista italiano fino alla rottura sulla questione cinese e il sostegno alle formazioni della sinistra rivoluzionaria.
Geymonat ha condotto un’importante battaglia contro l’irrazionalismo (da quello che si manifesta come ‘reazione romantica contro la scienza’ a quello che può annidarsi all’interno della scienza stessa), le cui radici egli ha identificato sia nella negazione del valore conoscitivo della scienza sia nella negazione di quell’istanza materialistica che è ad essa immanente. L’incontro di Geymonat con il materialismo dialettico, cioè con una nuova concezione della natura e dell’uomo, era quindi consequenziale, anche se la presa di posizione contro l’irrazionalismo è da considerare solo come una condizione necessaria (ma non sufficiente) di tale incontro e anche se l’adesione di Geymonat al materialismo dialettico resterà condizionata dalla tendenza a conciliare il marxismo con il neopositivismo e dalla correlativa tendenza, se non a ‘riformare’ il marxismo, a ‘decostruirlo’ (tendenze comuni anche ad un altro filosofo orientato in senso neoempirista, quale Giulio Preti). In effetti, le stesse vicende della (disgregazione della) ‘scuola di Milano’, oltre a rappresentare un fenomeno significativo nella storia di un certo strato degl’intellettuali italiani fra anni ’70 e anni ’80, possono essere adeguatamente comprese solo se si tengono presenti gli sviluppi generati, nelle scelte politico-ideali e nei programmi di ricerca che hanno connotato due settori degli allievi di Geymonat (distinguibili in ‘parricidi’ ed ‘esecutori testamentari’), dalle persistenti radici eticistiche e volontaristiche insite in quel nucleo generatore della concezione filosofica del maestro su cui ho richiamato l’attenzione. Mentre la deriva dei ‘parricidi’, che hanno tagliato ogni rapporto con il marxismo a favore di concezioni integralmente mutuate dal neoempirismo e dal neoilluminismo, ha portato questo settore, in virtù della sua congruenza con il neoliberismo, ad inserirsi in questo o in quel supermercato della cultura, gli ‘esecutori testamentari’ con la loro ‘critica critica’ dimostrano come il marxismo, privato del suo nerbo materialistico e dialettico, possa essere ridotto a fattore complementare, di tipo etico-sociale, di una diversa visione del  mondo, coincidendo così, in buona sostanza, con una sorta di neoradicalismo.
Ritengo necessario concludere questo articolo con due considerazioni. La prima riguarda, oltre al profilo intellettuale del pensatore eminente e del divulgatore rigoroso, cioè del filosofo che sa ‘pensare difficile’ e ‘mostrare facile’, il profilo politico di un militante comunista che, in un paese dominato dalla ricerca del compromesso sui princìpi e, dunque, dall’opportunismo, ha costantemente espresso un impegno lucido e generoso nella lotta per la trasformazione sociale. La seconda riguarda il profilo etico di Geymonat, che mi piace ricordare con un passo tratto da un testo già citato, nel quale egli esamina dieci sentimenti esemplari, che vanno dalla collaborazione all’odio, dall’amore alla superbia (cfr. I sentimenti, libro di cui consiglio vivamente la lettura per l’alto valore delle analisi e delle riflessioni che contiene).
A proposito della lotta e della violenza (che egli distingue in violenza fisica e in “una violenza più velata e civile, ma non meno aspra né meno spietata” della prima), Geymonat osserva quanto segue: “Il vero nemico non è oggetto di odio né di disprezzo: è oggetto di lotta. Egli è un ostacolo al compimento di un nostro progetto e, come tale, va necessariamente abbattuto. La constatazione di questa necessità non impedisce che si riconosca a lui il diritto di combatterci, e si parli di lui con rispetto comprendendo il suo valore e la sua energia. Ciò che separa i due avversari non è un sentimento di odio, ma la constatazione che i fini, cui essi tendono, sono fatalmente incompatibili tra loro”. L’autore, che aveva scritto queste righe nel corso della lotta partigiana, precisa in una nota che, alla luce delle esperienze del secondo dopoguerra, quanto da lui notato a proposito della “violenza più velata e più civile” dimostra “la sua scarsa fiducia nelle lotte condotte entro il quadro designato come ‘Stato di diritto’”.

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