6.12.11

Pirati. Una moltitudine ribelle (Mauro Trotta)

Henry Morgan
Un alone di romanticismo avvolge, da sempre, la figura del pirata. Sandokan, il Corsaro Nero, l'Olonese, Joe Kidd, Barbanera, Long John Silver, "gentiluomini di fortuna", come amavano definirsi, alla base di tanti personaggi della letteratura, del fumetto (Corto Maltese) e del cinema (Han Solo, eroe della saga di Star wars). Del resto, che il reato probabilmente più temuto, sicuramente quello contro il quale si è scatenata la più grande campagna propagandistica, sia la cosiddetta pirateria informatica, non dimostra, forse, come la loro influenza nefasta per l'ordine costituito non si limiti al mondo della fantasia e dell'immaginazione? Ma chi erano realmente i pirati? E che ruolo hanno avuto nelle profonde trasformazioni del mondo agli albori dell'era capitalista? A queste e a molte altre domande risponde Canaglie di tutto il mondo. L'epoca d'oro della pirateria, di Marcus Rediker, storico dell'università di Pittsburgh che da tempo si occupa degli avvenimenti accaduti tra `600 e `700 in quei nuovi, sterminati spazi oceanici divenuti fondamentali per l'economia e la vita stessa di nazioni e popoli.
Rediker divide la storia della pirateria in tre periodi. Quello, tra il 1650 e il 1680, dei bucanieri (il più famoso dei quali fu Henry Morgan), i "cani del mare", in genere protestanti e provenienti da Inghilterra, Francia settentrionale e Olanda, che attaccavano le navi della cattolica Spagna. Poi, negli anni Novanta, i pirati della generazione di Henry Avery e William Kidd, attivi soprattutto nell'oceano Indiano, con base in Madagascar. Infine, tra il 1716 e il 1727, "l'epoca d'oro della pirateria", con personaggi come Edward Teach, il famoso Barbanera, o Bartholomew Roberts, che catturò oltre quattrocento navi. È su quest'ultimo periodo che si concentra lo storico di Pittsburgh: l'epoca che maggiormente determinò il modo in cui in seguito furono visti i filibustieri all'interno della cultura popolare e non solo. Basti pensare che Long John Silver dell'Isola del tesoro di Stevenson è modellato sulle loro fattezze o che furono i pirati di questo periodo a innalzare per primi il Jolly Roger, la temuta bandiera nera con il teschio e le ossa incrociate.
Ma la storia dei pirati raccontata da Rediker è tutt'altro che romantica. È la storia di una moltitudine ribelle. Provenienti da Inghilterra, Francia, Olanda, Portogallo, Belgio, Danimarca, Svezia e dalle colonie, pronti ad accogliere nelle loro fila anche ex schiavi neri e donne, i pirati crearono una vera e propria comunità radicalmente democratica. Erano in gran parte marinai esperti, che avevano lavorato su quella che può essere definita la fabbrica di quei tempi, il vascello d'alto mare. Su quei fragili vascelli che solcavano gli oceani, chi vendeva il proprio lavoro in cambio di un salario viveva una grande esperienza di lavoro collettivo, cooperando per far funzionare la "macchina". Aveva di fronte un capitano dal potere disciplinare praticamente illimitato, propenso all'uso della frusta. Le condizioni di lavoro erano durissime - un mercantile da 250 tonnellate aveva un equipaggio di 15-18 persone, mentre lo stesso tipo di nave pirata era governata da 80-90 marinai - e il salario, anche quando non veniva frodato da ufficiali o armatori, era da fame e andava diminuendo: un marinaio che nel 1707 veniva pagato 45-55 scellini al mese, pochi anni dopo ne guadagnava la metà. In questa situazione, naturalmente, si svilupparono forme di ribellione e protesta: diserzioni, sospensioni del lavoro, ammutinamenti e scioperi. E sembra siano stati proprio i marinai a inventare lo sciopero (in inglese strike) quando a Londra, nel 1768, durante una lotta salariale, iniziarono ad andare di nave in nave ad ammainare le vele (striking nel gergo marinaresco inglese) per costringere gli armatori a cedere alle loro richieste.
Il marinaio, dunque, conosceva bene il valore della cooperazione e dell'uguaglianza, toccava con mano l'inutilità e la disumanità di una gerarchia dispotica e repressiva, aveva sperimentato forme di resistenza senza ottenere i risultati sperati. Era inevitabile che molti di loro diventassero pirati, ammutinandosi durante le traversate o unendosi alle ciurme dei filibustieri che avevano attaccato la nave su cui erano imbarcati. I pirati, infatti, vivevano seguendo un ordine sociale assolutamente contrapposto a quello vigente, fondato sull'uguaglianza e il collettivismo. Il capitano veniva eletto dall'equipaggio e non godeva del potere assoluto, gli veniva affiancato un quartermaster che ne conteneva l'autorità, svolgendo le mansioni di tribuno, mediatore, tesoriere e custode dell'armonia a bordo. La massima autorità era nelle mani del consiglio generale che riuniva tutto l'equipaggio, fino all'ultimo mozzo, e aveva l'ultima parola su qualunque questione. E, prima di ogni spedizione, venivano stabiliti accordi scritti che regolavano "la distribuzione dell'autorità, del bottino, del cibo e delle altre risorse, e le norme di disciplina".
I danni causati dalla pirateria al commercio transatlantico furono enormi. Secondo la General History of the Pyrates, il più completo trattato sull'argomento, scritto dal capitano Charles Johnson - dietro cui si celerebbe, per alcuni, Daniel Defoe - solo nel decennio dell'epoca d'oro "i pirati avevano catturato navi e danneggiato l'attività commerciale in misura maggiore di quanto provocato dalle campagne congiunte, militari e corsare, intraprese da Francia e Spagna durante la Guerra di Successione Spagnola".
Si scatenò inevitabilmente la repressione e, a partire dal 1722, la guerra diventò atroce. Alle esecuzioni e spedizioni militari contro i filibustieri fecero da contraltare le violenze sempre più efferate dei pirati. Diminuirono così i marinai disposti a navigare sotto la bandiera nera e aumentarono gli ammutinamenti sulle navi pirata. Con le impiccaggioni degli ultimi filibustieri, Gow, Fly, Lyne e Low, in quattro anni la pirateria fu spazzata via.
Ma se nello scontro con i governi dell'epoca i pirati hanno perso, trecento anni dopo hanno certamente vinto nell'immaginario popolare, perché "hanno osato immaginare una vita diversa e hanno osato cercare di viverla".

Da "il manifesto" -  30/11/2005



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