3.1.12

Carceri. Dallo stato sociale allo stato penale (di Livio Pepino)

La questione carceraria continua ad essere al centro dell’attenzione, drammaticamente: l'anno nuovo è inaugurato da nuovi suicidi nelle prigioni italiane. L’articolo che segue da “il manifesto” del 7 settembre 2011 è di Livio Pepino, un magistrato di “Magistratura democratica”. Pur vecchio di qualche mese ha il merito di affrontare la questione dal verso giusto. (S.L.L.)

Chiamato, opportunamente, in causa, rispondo. Ha ragione Michele Passione ("Altre 70.000 buone ragioni", il manifesto, 7 luglio), e con lui l'Unione delle Camere penali: ci sono moltissime ragioni per chiedere un cambiamento - un profondo cambiamento - delle politiche carcerarie del nostro Paese.
Il carcere è in crescita esponenziale. In venti anni le presenze sono più che raddoppiate: erano 25.804 il 31 dicembre 1990 e 67.961 alla stessa data del 2010 (il che corrisponde a circa 90.000 ingressi nell'anno). La capienza regolamentare dei nostri istituti è di 41.500 e, dunque, il sovraffollamento è di oltre un terzo. In molte carceri i detenuti stanno chiusi per oltre 20 ore in celle di tre metri per tre nelle quali occorre stare in piedi o seduti a turno. La Corte europea dei diritti dell'uomo ha condannato l'Italia per il trattamento riservato a un detenuto costretto a vivere in uno spazio «inferiore alla superficie minima stimata auspicabile dal Comitato europeo per la prevenzione della tortura». Alcuni magistrati di sorveglianza hanno (vanamente) ordinato alla amministrazione di rimuovere analoghe situazioni in diversi istituti. È di pochi giorni fa il ventiseiesimo suicidio del 2011 in un carcere della Repubblica (dopo il triste primato raggiunto l'anno precedente).
In questa situazione sono necessari interventi urgenti: anche un'amnistia o un indulto, come chiedono Pannella e pochi altri. A una condizione: non illudersi che si tratti di soluzioni risolutive.
Se si vuole davvero cambiare occorre capire perché si è arrivati a questa emergenza e formulare proposte coerenti. È un terreno su cui sarebbe opportuna una iniziativa politica congiunta di avvocati e magistrati (quantomeno della Unione Camere penali e di Magistratura democratica). Per favorirla provo a dare qualche contributo.
La crescita del carcere non dipende dall'aumento della criminalità. Secondo le rilevazioni del Ministero dell'Interno e dell'Istat la curva dei reati è stazionaria o addirittura in calo (con picchi verso l'alto solo nel 1991 e nel 1996). Ciò significa che le ragioni del boom della penalità e del carcere stanno altrove: nel passaggio dallo Stato sociale allo Stato penale, caratteristica della fase non solo in Italia, sull'onda del pensiero unico che ha ridisegnato i rapporti sociali. Il postulato di questa impostazione è che la garanzia dei diritti e della sicurezza degli inclusi passa necessariamente attraverso la neutralizzazione dei non meritevoli e dei marginali (i "nuovi barbari" da cui la società contemporanea deve difendersi con ogni mezzo). In questa visione, occorre respingere al di fuori o, se ciò non è possibile, rinchiudere, il disordine e chi lo esprime (migranti, tossicodipendenti, poveri: cioè le categorie di soggetti che riempiono gli istituti di pena). Per raggiungere questo risultato l'intervento legislativo degli ultimi anni si è sviluppato lungo alcune direttrici fondamentali: governare i flussi migratori con il diritto penale, affrontare il fenomeno dell'uso di stupefacenti con interventi (prevalentemente) repressivi, aumentare le pene e diminuire le misure alternative per i recidivi, limitare la discrezionalità dei giudici (accusati di buonismo ogni volta in cui non si allineano ai desiderata della maggioranza).
Se è esatta l'analisi, i rimedi sono conseguenti. L'emergenza carceraria si affronta - senza danni per il senso di sicurezza dei cittadini (che viene, paradossalmente, messo in crisi proprio da chi semina illusioni di stampo repressivo) - governando i fenomeni migratori sul piano sociale, spostando la disciplina degli stupefacenti dal diritto penale alle misure di tutela della salute, attribuendo ai giudici l'apprezzamento della diversità delle situazioni (senza vincoli prestabiliti e automatismi impropri). Solo così, cercando "qualcosa di meglio" dell'attuale sistema penale si potrà diminuire il ricorso al carcere e dare risposte serie (e non demagogiche) alle richieste di sicurezza della società. Certo, è più facile costruire fortune elettorali sull'invocazione di pene esemplari (per i briganti, non certo per i colletti bianchi). Ma è proprio per contrastare questa tendenza che i giuristi dovrebbero ritrovare la voce!

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