5.1.12

Il riformismo e il suo rovescio (Toni Muzzioli)

Nel rivista on line del Centro Franco Fortini, “L’ospite ingrato”, un articolo di Toni Muzzioli dal titolo Riformisti alla rovescia. Il “neoriformismo” nell’analisi di Paolo Favilli, riassume e discute l’importante saggio Il riformismo e il suo rovescio, di Favilli appunto, edito nel 2009 da Franco Angeli. Nel ragionare di Muzzioli,  trovano giusta collocazione il craxismo, il blairismo, i  “novatori” italiani di origine Pci. 
Qui propongo la brillante introduzione dell’articolo, rimando chi volesse approfondire al libro e al sito.(S.L.L.)

A un ventenne di oggi potremmo raccontarla così.
Nella sinistra, un tempo, quando esistevano ancora i partiti socialisti e comunisti, l’Urss e il movimento operaio organizzato, c’erano i riformisti e i rivoluzionari, gli uni e gli altri a loro volta divisi in innumerevoli fazioni, scuole e correnti. Riformisti e rivoluzionari si consideravano, ad ogni modo, due “tribù” diverse, talvolta anche duramente contrapposte. La divisione grosso modo si giocava su modi e forme della auspicata creazione di una futura società socialista: i primi, infatti, pensavano che essa fosse conseguibile senz’altro all’interno delle cornici elettorali e parlamentari, confidando nel progressivo inevitabile scivolamento della società capitalistica verso il suo superamento; i secondi pensavano necessaria la “rottura rivoluzionaria”, la necessità cioè di giungere – presto o tardi e in forme anche assai differenziate secondo le diverse teorie o temperamenti – a un momento di scontro generale e definitivo. Gli uni e gli altri, però, condividevano due cose: il fine, che era il socialismo, e la critica della società vigente, quella capitalistica, dalla quale appunto derivava l’impegno attivo (pur diversamente concepito) per il suo superamento. Le accuse e controaccuse – e i conseguenti comportamenti pratici – potevano spingersi fino ai livelli più atroci, ma resta indiscutibile che l’impegno soggettivo per il socialismo ha sempre accomunato riformisti e rivoluzionari, a tutte le latitudini.
I riformisti, certo, erano abituati a subire le peggiori accuse dai rivoluzionari (tradimento della classe operaia, svendita dei suoi interessi, collusione col nemico, cedimento all’imperialismo ecc.), accuse spesso fondate e altre volte un po’ meno, ma certamente si consideravano impegnati in una battaglia per il miglioramento e il consolidamento delle condizioni economiche e sociali delle classi popolari (anche in questo caso qualche volta era vero, qualche volta un po’ meno…). Le “riforme” questo erano: passi, o mattoni se si preferisce, di un percorso (o di un edificio) che, rafforzando progressivamente le posizioni della classe operaia, l’avrebbe portata in definitiva non solo a un deciso miglioramento economico ma al governo della società. Tanto è vero che, di fronte a leggi che imponessero un deterioramento delle posizioni sociali del proletariato o un restringimento della democrazia, essi erano soliti usare l’espressione “controriforme”!
Così sono andate le cose all’incirca fino alla fine degli anni Ottanta del XX secolo. La parola “riformista” aveva un significato ben incastonato in questo quadro.
Poi, il crollo dell’Urss e del blocco socialista cambiò tutto. In realtà, all’indomani della dissoluzione del socialismo reale, ci fu fatto credere che il riformismo, per l’appunto, avesse prevalso sull’estremismo bolscevico, sulla “mentalità rivoluzionaria” (per dirla con Michel Vovelle) e sui suoi effetti totalitari: del socialismo avremmo conservato le giuste aspirazioni sociali (e la prassi riformista), mentre avremmo dimenticato le tendenze totalitarie (questo, perlomeno, dicevano le anime belle socialdemocratiche). Ma non è andata esattamente così: il movimento comunista effettivamente si è dissolto, ma si è portato dietro anche il riformismo socialdemocratico! Con un’importante specificazione: è scomparsa la cosa; non il nome. Sì, perché di riformismo si è continuato a parlare. Anzi, per la verità non si parla d’altro.
Oggi, come ognuno può vedere facilmente aprendo qualsiasi giornale o assistendo a qualunque talk show politico, è avvenuto però un totale cambiamento di significati. Mai come oggi, in effetti, si sente parlare di riforme, della loro necessità ecc. Scomparsi i rivoluzionari, si sono moltiplicati a dismisura i “riformisti”, ma le riforme che propugnano non guardano più, ancorché in forma blanda e gradualista, a una prospettiva socialista (o anche puramente “laburista”); bensì all’adeguamento della società nel suo complesso alla globalizzazione capitalistica; le loro riforme ora sono pro business, come dicono in America.
È rimasto il nome, appunto, ma la cosa è cambiata. Si parla, infatti, di riforme, meglio se strutturali, per “far ripartire il Paese”, per migliorare la competitività, per “rassicurare i mercati” (espressione particolarmente abusata di questi tempi), effettuare ogni possibile privatizzazione, il tutto ovviamente sotto le denominazioni eufemistiche di modernizzazione, efficienza, meritocrazia, globalizzazione ecc.
È ormai divenuto senso comune che “riformisti” siano coloro che promuovono e sostengono queste politiche, come si può vedere in un recente libro di Michele Salvati dedicato alla storia d’Italia, in cui la debolezza di fondo del nostro paese è individuata, a partire dagli anni Sessanta, nella «prevalenza nelle forze di opposizione (e in buona parte della maggioranza) di culture politiche non riformistiche, risalenti alle ideologie della prima e tragica parte del Novecento, che ebbero un ruolo determinante nell’ostacolare la formulazione e l’esecuzione di politiche economiche efficaci».
Si può parlare del PSI e della sinistra DC degli anni Sessanta (glissiamo pure sul PCI) come di culture politiche “non riformistiche”, senza dichiarare guerra a intere biblioteche? Sì, si può, perché la parola riformismo ha cambiato definitivamente segno e… tanto peggio per la storia del pensiero politico!

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