Nel 2000, su “la rivista del manifesto” Luigi Pintor avanzò la proposta, volutamente sbrigativa e quasi provocatoria, di dare vita, in tempi stretti, ad una nuova formazione politica, che raccogliesse l'arcipelago di forze, più, meno o niente affatto organizzate, già vicine tra loro in una comune critica alla cultura e al potere allora (e oggi) dominanti. La proposta ebbe la via sbarrata abbastanza presto dal perentorio niet di Bertinotti, guida mediatica della maggiore tra le forze organizzate cui la proposta era rivolta.
Fra gli altri vi intervenne, in ottobre, il direttore della rivista Lucio Magri, che produsse per la circostanza un’analisi della fase che allora mi sembrò convincente e adesso per molti aspetti mi pare ancora attuale. Riprendo la parte finale del saggio e il suo titolo dialettale La situasiun a l'è cula ca l'è (“La situazione è quella che è”), benché la situazione sia oggi, e di molto, peggiorata. (S.L.L.)
Se anche rinunciamo a un concetto totalizzante e centralistico di partito, una nuova forza politica vera non può nascere se non risponde a un'esigenza storica reale, riconosciuta, oltre che da un'utilità politica contingente; né senza una visione relativamente comune del passato, del presente e del futuro per cui ci si batte. Un "processo costituente", ovviamente, non presuppone tutto ciò, deve costruirlo; ma non comincia e non avanza senza alcune ipotesi generali su cui discutere, da verificare, ma che subito lo caratterizzino.
Qui sta la vera difficoltà della proposta che io stesso ho appena avanzato. La difficoltà di un punto di partenza non tanto definito da escludere il coinvolgimento più largo di forze e culture essenziali, ma neppure tanto generico da produrre un assemblaggio confuso e inerte.
Il fatto è che la crisi della sinistra, di tutta la sinistra, non nasce solo da errori recenti, ma da processi storici oggettivi e di lunga durata. Da un lato il crollo - oltreché la sconfitta - di quel "socialismo reale" che per molti decenni aveva costituito il punto di riferimento ideale per gran parte della sinistra, anche non comunista, e una base materiale di un equilibrio di forze mondiale. Dall'altro lato una ristrutturazione capitalistica che non è solo una restaurazione ma anche una grande trasformazione del modo di produrre, vivere e pensare e che fa leva su una delle maggiori rivoluzioni tecnologiche della storia.
Dalla loro combinazione è nato un nuovo assetto generale, della società e del mondo: quello che nominiamo come neoliberale e neoimperiale e cerchiamo di analizzare con i concetti di globalizzazione, postaylorismo, società dell'informazione, unipolarismo ecc.
La base forte da cui può nascere una "forza di sinistra alternativa" sta nel fatto che questo nuovo assetto capitalistico, già oggi, produce contraddizioni drammatiche e impone prezzi pesanti non solo per delle minoranze, né solo sul terreno dei bisogni più elementari, ma anche per vaste aree sociali, e rispetto anche ai nuovi bisogni che la storia stessa ha fatto emergere e potrebbe realmente soddisfare. Diseguaglianze maggiori tra classi e continenti, e povertà assolute, in un mondo nel quale invece esistono ormai le risorse necessarie per garantire a tutti una decente sopravvivenza; la nuova disoccupazione e la precarizzazione, il sacrificio di diritti e di tutele elementari in un mondo che invece potrebbe ridurre e redistribuire per tutti il tempo e la fatica del lavoro umano e avrebbe bisogno di una maggiore qualità e partecipazione nella sua erogazione; la volontà ossessiva di accelerare produzione e consumo di beni materiali superflui e dissipazione di risorse naturali in un mondo che è già minacciato dal degrado ambientale e avrebbe anzitutto bisogno di un arricchimento intellettuale e umano; individualismo egoistico e competitivo in un mondo nel quale antiche istituzioni di solidarietà e educazione stanno scomparendo e dovrebbero quindi essere sostituite da più ricche e libere forme di socialità; la riproposizione, in versione imbarbarita, di fondamentalismi etnici o religiosi in un mondo che pure pretende di unificarsi e potrebbe permettersi un cosmopolitismo dialogante e cooperativo; la concentrazione dei poteri dominanti nell'economia e nella politica, esterni alla sovranità popolare e da essa incontrollabili, in un mondo in cui, invece, i livelli di istruzione e i mezzi di comunicazione permetterebbero partecipazione diffusa; l'affidamento assoluto agli automatismi del mercato in un mondo in cui il mercato di fatto è orientato da pochi, il consumatore è manipolato e manipolabile, gli obiettivi essenziali hanno bisogno essenziale di scelte consapevoli e di lunga prospettiva, e in cui esistono gli strumenti per pianificarle senza centralizzazione e dispotismo ma orientando decisioni decentrate e iniziative largamente autonome.
Perché allora tutto ciò non produce ancora un'opposizione e una critica diffusa, l'aspirazione ad una trasformazione profonda, una grande politica che l'esprima e l'organizzi? Anzi ne produce ancor meno, e in forme più disperse e subalterne, di quanto le disuguaglianze avevano almeno un fondamento nella scarsità generale, il puro progresso materiale appariva a tutti una esigenza assoluta, le classi dominate erano abituate a una secolare rassegnazione, i continenti dominati erano piegati da un diretto regime coloniale, gli umili erano privi di istruzione e di esperienze di organizzazione? La risposta è abbastanza evidente: sta nella forza impressionante e nella pervasività del potere dominante. È questo meccanismo apparentemente impersonale e senza dimora che impone alla sinistra di governo di accettare l'esistente, perché un riformismo debole è privo del potere e della forza per sfuggire a quell'insieme di compatibilità. Ma si riflette anche - ecco il punto - nel senso comune di massa e nelle forze che lo rifiutano o lo combattono.
Una forma di tale subalternità, la più seria e generosa, penetra anche in quella sinistra sulla quale il nostro discorso ora si concentra e ne spiega la difficoltà. Parlo dell'ideologia del cosiddetto "esodo dalla politica", molto più diffusa e multiforme di quanto non si creda: radicale o moderata, sindacalista o culturalista, classista o solidarista, cattolica o libertaria. Comune è la convinzione che - in questa fase storica o anche oltre - di fronte a questo "potere compatto", a questo "pensiero unico", che svuotano le istituzioni, che omologano il ceto politico, occorre fare di necessità virtù: cioè accettare e usare l'estrema pluralità dei movimenti, far leva su lotte di resistenza magari a volte nell'immediato perdenti ma che accumulano consapevolezza, costruire dal basso, in forma molecolare, là dove l'esclusione è più pesante, esperienze di solidarietà legate al vissuto e al locale; comunque rinunciare all'illusione di un progetto alternativo unificante e complessivamente praticabile, ad un'organizzazione politica permanente, tanto più a porsi problemi di governo, di alleanze, di riforme.
È un'ideologia che ha percorso l'intera storia anche del vecchio movimento operaio, e con cui fare seriamente i conti. Perché contiene importanti e oggi più evidenti elementi di verità. Anzitutto la critica ad una visione tradizionale delle contraddizioni capitalistiche seccamente ridotta al conflitto diretto lavoro-capitale (spesso a sua volta ridotto al terreno sindacale vertenziale e redistributivo), che oggi risulta tanto più legittima in quanto quella visione sottovaluta o subordina il ruolo e la qualità di nuovi soggetti (esterni al mondo del lavoro o espressione di nuove forme di lavoro). In sostanza: critica dell'economicismo. In secondo luogo la critica della politica, della sua concentrazione sul problema della conquista e dell'esercizio del potere, cui si contrappone il bisogno di ridarle tensione ideale e di ricollegarla a una esperienza sociale diretta e vissuta (tanto più quando la conquista del potere degrada a conquista del governo, e i "rivoluzionari di professione" rapidamente si integrano nel ceto politico). In sostanza, critica dello statalismo.
Tuttavia su questa strada non si va lontano.
Tralascio qui un dibattito teorico che sarebbe necessario e ha importanti precedenti. Mi limito a constatazioni fattuali.
L'inquietante novità del capitalismo attuale sta soprattutto nella grande capacità che esso ha acquisito, facendo leva su straordinarie innovazioni tecnologiche, di scomporre le classi, i paesi, i soggetti che più pesantemente opprime, e allo stesso tempo di manipolare le coscienze, i valori, gli stili di vita dell'intero corpo sociale.
Per questo i movimenti che gli si oppongono non solo restano minoritari, ma hanno un andamento sussultorio - esplodono e poi rifluiscono lasciando deboli sedimenti, si alternano e si moltiplicano ma senza convergere se non per brevi momenti e solo contro un comune nemico, spesso entrano in conflitto tra loro, e talvolta contribuiscono a una "rivoluzione passiva" (nuova socialità che si risolve in individualismo, libertà individuale che diventa massificazione). Ogni volta ne cogliamo giustamente la novità e l'importanza, ma raramente ne facciamo un bilancio complessivo e di lungo periodo. Eppure è ormai una storia che dura da trent'anni, alla quale molti di noi hanno direttamente e senza risparmio partecipato, almeno a partire dal '68: la contestazione studentesca e intellettuale, i movimenti per i diritti civili in America e quelli operai in Italia, quelli legati al Vietnam o alla rivoluzione in America Latina, la lotta contro l'energia nucleare, il pacifismo per il disarmo multilaterale, il femminismo e l'ambientalismo come fenomeni insieme radicali e di massa, le occupazioni di case, i consigli di fabbrica, le 150 ore e via via la "Pantera", la scala mobile, le pensioni, lo zapatismo come messaggio simbolico.
Non ricordo tutto ciò per limitare l'importanza di questi movimenti, la ricchezza della loro pluralità, la loro carica innovativa nei contenuti e nelle forme di organizzazione. Voglio solo sottolineare il fatto che per stimolarne la crescita, sviluppandone l'intera potenzialità, occorre, oggi più che nel passato, sostenerli con un progetto, affiancarli con una organizzazione politica che renda più esplicito il collegamento con la struttura di fondo della società, estenda il loro influsso su coloro che non ne sono direttamente coinvolti, e soprattutto incida realmente, con un insieme coerente di riforme, sulle grandi scelte e sui grandi assetti del potere (ricerca, scuola, investimenti, forme istituzionali, assetti proprietari, politiche monetarie). Senza di questo non solo il conflitto resta latente, ma non cresce una soggettività matura, non si forma una classe dirigente, insomma non avanza un'alternativa.
Questa del resto a me pare la vera lezione da trarre dalla esperienza storica, grande e terribile, del Novecento.
In negativo, perché essa ha dimostrato come grandi, e autentiche, rotture rivoluzionarie non sono bastate a produrre quella società radicalmente nuova cui aspiravano, e che quando l'hanno tentato oltre il limite storicamente dato, e senza sapere organizzare rapporti di produzione effettivamente nuovi né inventare nuove istituzioni democratiche, si sono bloccate, hanno degenerato, alla fine uscendone sconfitte.
Ma anche in positivo, nel senso che quelle stesse rivoluzioni, a un certo punto confluendo con movimenti meno radicali ma seriamente riformatori, e con lotte di liberazione nazionale del Terzo mondo, sono riuscite a produrre straordinari avanzamenti non solo produttivi ma culturali e sociali, hanno sbarrato la strada a soluzioni barbariche di una crisi di sistema, e poi si sono cristallizzate in un assetto generale in cui il capitalismo sopravviveva ma in competizione con altre forze, e seriamente condizionato. Diritti e tutele del lavoro, democrazia organizzata, stato sociale, alfabetizzazione di massa, liberazione politica del Terzo mondo: tutto ciò non è stato il naturale sbocco del capitalismo fordista, ma anche il frutto di un rapporto di forze, di una lotta drammatica e anche di parziali compromessi.
Questa storia ci ha insegnato dunque - se vogliamo darle un senso (oltre l'abiura e senza la rimozione) - che il passaggio dal capitalismo ad un nuovo sistema sociale è un processo di lunga durata, con uno sviluppo non lineare, che può imboccare direzioni diverse e anche regredire. Un processo per tappe, in ciascuna delle quali si realizzano o si possono realizzare non solo obiettivi parziali ma anche successivi equilibri generali, diverse egemonie, convivenza di diverse forme di produzione variamente gerarchizzate.
Oggi si è restaurato un dominio capitalistico più pieno, e più coerente con la sua logica di fondo, ma creando nuove contraddizioni e nuove potenzialità alternative. Ma non è possibile agirvi solo riproponendo contenuti e forme dell'equilibrio precedente, anche se è necessario resistere al suo smantellamento. Si tratta di definire le idee forza di una nuova tappa possibile: sviluppo sostenibile; welfare society; governo multipolare del mondo - di cui un'Europa democraticamente legittimata e autonoma nel proprio modello sociale e nel suo ruolo internazionale è condizione necessaria; democrazia economica decentrata unita a un piano complessivo e ad un potere che lo governa, e così via. Novità dirimenti: un nuovo modo di produrre e di consumare e non solo di redistribuire il reddito. Commisurando tutto ciò comunque ai rapporti di forza, individuando soggetti, conflitti e alleanze necessarie: perché questo è lo specifico della politica.
Quando parlo di una "forza politica alternativa" è a ciò che mi riferisco. Non considero cioè - forse a differenza di Pintor o di altri - questa espressione come puro sinonimo di "sinistra critica" (anche se deve ormai escludere ogni dogmatismo) né di "sinistra antagonista" (anche se deve essere animata da una contestazione dei principi fondativi del sistema). Una "sinistra alternativa" si definisce, per me, anzitutto e in positivo, come un progetto e una pratica che si contrappongono ad un assetto capitalistico storicamente determinato - neoliberista e neoimperiale - e ritiene necessario e possibile modificarne l'assetto per aprire la strada a trasformazioni più avanzate. Per questo deve e può essere "politica, in senso forte" rilanciare la lotta di classe ma "elevandola a un livello etico-politico" (Gramsci).
Non è obiettivo di qualche mese né di qualche anno, tanto meno di un governo o di una legislatura. Ma proprio poiché agiscono invece rapidamente processi dissolutivi occorre politicamente e teoricamente proporselo subito e con sufficiente ambizione.
Nessuna conclusione quindi al dibattito avviato da Pintor: solo un contributo, certo meno brillante e stringato ma nelle intenzioni non meno provocatorio, per riprenderlo e portarlo avanti.
Come diceva, negli anni Trenta, l'operaio biellese Willi Schiapparelli al suo compagno di cella, ogni mattina alzandosi: "la situasiun a l'è cula ca l'è". Alcuni anni dopo ottenne qualche soddisfazione.
Secondo me c'è un elemento di novità rispetto ai tempi in cui Lucio Magri scriveva queste sue considerazioni: la crisi del debito sta facendo crollare l'edificio del capitalismo globale, colosso dai piedi d'argilla. Non so come questa situazione possa evolvere: non escludo che i contorcimenti del mostro ferito possano uccidere milioni di persone, con la guerra guerreggiata o con quella economico-finanziaria già iniziata. Di certo c'è la necessità, direi l'ineluttabilità, di un movimento di contestazione globale che sappia darsi strutture organizzative forti. C'è bisogno di partiti comunisti, e non importa se questi partecipino al gioco truccato delle elezioni o alla farsa del cretinismo parlamentare.
RispondiElimina