30.1.12

Strage all'oleificio di Campello. La condanna di Del Papa (Fabrizio Ricci)


“Scaricare su un povero cristo come me tutta questa vicenda non è umano”. Giorgio del Papa, il padrone della Umbria Olii di Campello sul Clitunno, lo ha ripetuto fino all'ultimo momento, anche davanti alle telecamere del Tg1. Lui non si è mai sentito responsabile per le 4 vite degli operai che sono saltati in aria il 25 novembre 2006, su uno dei suoi silos pieni di olio e di un gas, l'esano, altamente esplosivo, della cui presenza – hanno detto i periti del tribunale – i lavoratori non erano stati minimamente messi in allarme. Ecco perché l'imprenditore “povero cristo” è stato condannato a 7 anni e mezzo di galera, per l'omicidio colposo di Maurizio Manili, Tullio Mottini, Vladimir Todhe e Giuseppe Coletti e per altri reati come il disastro ambientale e l'omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro. Del Papa dovrà anche risarcire, in via provvisionale, 2,5 milioni di euro alle varie parti offese.
Certo, ci saranno l'appello e la Cassazione. La strada verso la fine di questa assurda e triste vicenda è ancora lunga. Ma intanto, lo scorso 13 dicembre nel tribunale di Spoleto il giudice Avenoso ha chiarito finalmente da che parte stanno le responsabilità. Del Papa è colpevole di quelle 4 morti. La sua assurda richiesta di risarcimento da 35 milioni di euro ai familiari delle vittime e all'unico superstite è carta straccia.
E la lettura di quella sentenza è stata una liberazione per le famiglie degli operai morti, soprattutto per le vedove. Donne come Anila Todhe, moglie di Vladimir, che si è ritrovata all'improvviso sola con due figlie piccole da crescere e un marito morto da difendere, anziché da piangere. Donne forti, che hanno saputo reggere il durissimo colpo e reagire, come forse gli uomini, a parti invertite, non avrebbero saputo fare.
Poco conta allora l'entità della condanna. Eccessiva? Insufficiente? Giusta? Un esercizio logico che non ha senso per chi, fino a pochi minuti prima, temeva di poter essere chiamato a pagare i danni del disastro. Chiarire dove stanno le responsabilità: questo era il punto e questo è stato fatto.
Certo, la mente degli osservatori esterni è corsa però inevitabilmente a Torino. A quella sentenza, anche lì di primo grado, che è destinata a cambiare la giurisprudenza in materia di incidenti sul lavoro: 16 anni e mezzo per Herald Espenhahn, amministratore delegato della Thyssen Krupp, condannato per l'omicidio volontario di sei operai della fabbrica torinese. Di fronte a quel tipo di verdetto, i 7 anni e mezzo di Del Papa, condannato invece per omicidio colposo e senza colpa cosciente (che il giudice non ha riconosciuto, nonostante fosse tra i capi di imputazione), si ridimensionano fortemente. Al tempo stesso, però, è vero che, se non ci fosse stata Torino, ora staremmo certamente parlando di una sentenza molto severa rispetto agli standard precedenti. Basta ricordare, ad esempio, come è andata a finire un'altra vicenda processuale, per una tragedia sul lavoro avvenuta appena un anno prima di quella di Campello. La morte di tre operai edili in via dei Filosofi a Perugia, precipitati da 15 metri di altezza per un difetto nel montaggio della piattaforma sulla quale stavano lavorando. In quel caso il titolare della ditta, Paolo Millucci, è stato condannato a soli 2 anni e 8 mesi.
Dunque, la sentenza di Spoleto è un passaggio importante, la conferma che, nonostante le resistenze della Confindustria, della destra politica (vi ricordate Tremonti? “La 626 è un lusso che non possiamo più permetterci”) e lo scarso interesse dei media, in Italia sta forse lentamente cambiando l'approccio culturale e non solo giuridico, alla piaga delle morti sul lavoro, che non sono mai “tragiche fatalità”, ma omicidi e come tali vanno trattate.

da "Micropolis" gennaio 2012 

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