Questo testo di Franco Fortini apparve su "L'Espresso" all'incirca un mese dopo la morte di Borges, nel 1986. In forma di lettera rappresenta una critica radicale non tanto dell'opera dello scrittore argentino, quanto dell'ambiguo culto di cui era (e contina ad essere) oggetto. (S.L.L.)
Franco Fortini |
Caro Borges,
Suppongo che nella sua lunga esistenza avrà potuto sperimentare la capacità, tanto editoriale quanto del pubblico, di produrre il falso genio. Badi bene: non dico il successo che è tutt'altra cosa. Gli entusiasmi succitati in altri secoli dagli improvvisatori e, nel nostro, da certi cantautori; o lo spaccio incredibile di libri o di film mediocri non hanno avuto e non hanno, in genere, bisogno della complicità dei cosiddetti intenditori; o se mai di una complicità in mala fede.
Suppongo che nella sua lunga esistenza avrà potuto sperimentare la capacità, tanto editoriale quanto del pubblico, di produrre il falso genio. Badi bene: non dico il successo che è tutt'altra cosa. Gli entusiasmi succitati in altri secoli dagli improvvisatori e, nel nostro, da certi cantautori; o lo spaccio incredibile di libri o di film mediocri non hanno avuto e non hanno, in genere, bisogno della complicità dei cosiddetti intenditori; o se mai di una complicità in mala fede.
Il falso genio invece è autore di grandi capacità, di ingegno indiscutibile, di sincerissima edizione, il cui luogo nei registri della letteratura, probabilmente, non sarà cancellato. Ma ha avuto anche la singolare sventura di aver conferito alla propria opera dei caratteri che la fanno assomigliare a qualche altra, consacrata dalla gloria universale. Di qui viene che anche finissimi intenditori siano portati a sopravvalutarli. é il caso, si fa per dire, di Camus, Hemingway, Tornasi di Lampedusa, Garcia Màrquez.
Naturalmente accade anche che, in qualche caso, dopò un'età di fama misurata alcune generazioni abbiano dichiarato falso genio chi genio lo era davvero, diciamo Schiller o Hugo. Ma qui basti dire che sarebbe sufficiente a privilegiare delle sue opere la “prodigiosa intelligenza”, le sottigliezze semifilosofiche e quel tanto di oro matto che l'ha sempre tentata; ed ecco che lei non correrebbe più il rischio di essere contato tra i falsi geni ma apprezzato invece per i suoi libri più veri e per la sua malinconia. Non correrebbe più il rischio di vedersi, in avvenire, preferito quel Bioy Casares che lei stesso confessa avere avuto come maestro ed amico.
Quindici anni fa un suo intelligente traduttore, Francesco Tentori Montalto, nella prefazione al volume di poesie Elogio dell'ombra, scriveva: «la verità è che Borges va catturato; occorre strapparlo ai suoi lucidi giochi, come alle artificiose benché commosse ricostruzioni di folclore bonaerense e sorprendere la gravità della sua meditazione o l'emozione proustiana del tempo ritrovato nel giardino dell'infanzia».
Ma credo di infastidirla. Sebbene questo mio sia un trito artificio (quando sarò dove lei è ora, sia certo che non cercherò di esserle presentato) non posso vietarmi di pensare che molto più di lei mi interessano quelli che amano "Finzioni", "L'Aleph", "Il manoscritto di Brodie". No, mi sono espresso male. Ho scritto "amano", con un imperdonabile gallicismo ed escludendo quelli che davvero provano amore, avrei dovuto dire: quelli ai quali i suoi libri piacciono. Quelli che, scherzando — date le circostanze — forse un po' troppo col suo cognome, si potrebbero definire come un ceto sociale: "la borgesia".
Dunque: sono tentato di ripensare, identificando tali lettori, a quella battuta di non so chi: per il romanziere Paul Bourget una signora aveva diritto ad avere una psicologia solo se godeva, al minimo, di centomila franchi di rendita. Cerco di calcolare la cifra che la famiglia di uno di quei suoi ammiratori, in media, deve aver investito per metterlo in condizione di apprezzare i suoi racconti. Oltre ad una buona scuola secondaria, lo studio delle lingue straniere, la pcrmanenza oltre Manica e oltre Atlantico, le amicizie giuste, qualche esperienza letteraria in proprio eccetera.
Jorge Luis Borges |
Ma sono fuori strada, è chiaro, basta molto meno, ogni lettore di quotidiani, di settimanali e di riviste illustrate sa, che nella quasi totalità dei casi, il livello di conoscenze e il tipo di orizzonte culturale che le pagine "culturali" paiono pretendere per essere intese è di molto superiore alle possibilità del lettore medio. Ma i direttori e i redattori di quelle pagine sanno benissimo che "vivere al di sopra dei propri mezzi", ossia vivere di debiti, è precetto elementare per ogni ascesa sociale. Che bisogno c'è di conoscere il teatro di New York o le ultime mostre di Londra quando basta leggere Arbasino, che ne sa e ne parla?
Ora, non vorrei dire che — qualcuno l'ha detto apertamente — lei è un esponente della cosiddetta mezza-cultura per mezzi-colti. Non vorrei dirlo perché non so bene che cosa sia una cultura intera e probabilmente non lo sa nessuno. Però l'uso che in Italia, ma anche in Francia, si è fatto della sua opera e dei suoi viaggi e delle conversazioni sue degli ultimi anni pareva fatto apposta per far retrocedere il suo nome nella categoria, come ho accennato, dei falsi geni e costringerlo ai circuiti di provincia: i quali non esistono più, sostituiti dalla provinciale o metropolitana melensaggine del consacrato e dell'innocuo.
Perché, vede, lei ha detto «mi sono iscritto al partito conservatore, il che è una forma di scetticismo, e nessuno mi ha mai chiamato comunista, nazionalista, antisemita, partigiano di questo partito o di quel tiranno». Lei è stato troppo buon lettore dell'Apocalisse per non sapere che cosa faranno gli angeli agli scettici. Mi par già di vederli, quelli che negli ultimi vent'anni sono stati destinatari dei suoi libri, "al di sopra" dei lettori che seguono le indicazioni del circuito editoriale e giornalistico, ma "al di sotto" degli specialisti e degli alti produttori di opinione. Da quei destinatari emergono di continuo certe figure intermedie della Borsa valori, quelli che, attenti al vento che tira, possono decidere da un momento all'altro che Kundera e Borges non si portano più e che invece...
Quando ci giunse la notizia della sua scomparsa, il 14 giugno scorso, esattamente un mese fa, nuotando i coccodrilli dei giornali in un mar di lacrime, per comune fortuna ci fu chi (Claudio Magris) scrisse che i peggiori calunniatori di Borges erano in verità i suoi imitatori. I quali, aggiungo io, sono tanti e tutti concordi nello sfruttare, l'ingenuo fascino regressivo dell'erudizione che in altri secoli fu vero sapere, lottò valorosamente nell'800 con i saperi sempre più specialistici, nutrì l'età del romanzo storico, trionfò con le biblioteche dei decadenti, e finì con l'abitare i film di vampiri.
Ma non dia retta a chi fa il nome di Italo Calvino. In un suo tempo meno buono, Calvino può avere indulto ai cavilli del raziocinio fantasticante. Ma Calvino era uno scrittore autentico, le sue favole non erano solo schermi dello scetticismo, le sue città immaginarie sono, è vero, vedute da una situazione intellettuale e morale "forte" nel senso in cui si parla di moneta forte. Tuttavia, per quanto egli cerchi di esorcizzare quella presenza e persino di dimenticare quel che ne ha scritto in altre pagine, dietro ogni pagina di Calvino c'è pur l'Italia e l'Europa dello scorso quarantennio, ora ironizzata ora scongiurata ora esaltata per improvvisi ottimismi.
Beninteso, non credo affatto che uno scrittore sia uno storico trave¬stito; ma com'è che, caro Borges, in "Fervor de Buenos Aires", l'unico suo libro che ho letto in castigliano, quel che è taciuto serra alla gola quel che è detto? Quel libro mi fu regalato da una ragazza sua concittadina e mia studentessa. Veniva da Cordova, una delle città che hanno vissuto atroci esperienze nell'ultimo ventennio. Essa si gloriava giustamente della sua fama di scrittore; ma in quello che mi narrava del suo paese e della sua città c'era quello che lei non ha mai voluto né sapere né, comunque, dire. Non gliene faccio un demerito; ma sono stato mosso a scriverle questa lettera dalla dura antipatia verso coloro che, probabilmente, le sono riconoscenti tanto per quei silenzi quanto per le pagine che lei ha scritto.
"L'Espresso", 20 Luglio 1986
Articolo interessante, ma che non condivido assolutamente. Fortini parte da una domanda pretestuosa circa la genialità di Borges ( ma in fondo cosa è il "genio", soprattutto in ambito letterario ) per poi muovere velenose critiche al pubblico di Borges ed all'apoliticità del lavoro borgesiano. Il pubblico di Borges sarebbe un pubblico d'elitè che ha avuto i mezzi per erudirsi ( peccato che io sia un appassionato lettore di Borges, ma viva in una delle periferie più degradate d'Italia ); un pubblico semicolto che si compiace degli artifizi dello scrittore argentino ( ma perchè i "colti" tout court cosa leggono ? E poi chi sono i colti "completi" ? Gli accademici alla Fortini ? ). Quanto all'apoliticità del lavoro di Borges , mi permetto di dire che la letteratura è sempre "politica", e quando uno scrittore del livello di Borges prende la penna in mano e descrive la sua realtà fantastica dove il passato, il presente ed il futuro diventano la maschera dell'Eternità compie indubitabilmente un'operazione "politica" nel senso più pieno del termine.
RispondiEliminaLa ringrazio, signor Lo Leggio per la condivisione di tanti articoli così interessanti ( più Sciascia e Canfora , se è possibile ;-) )